Il momento consumativo della c.d. “ricettazione pre-fallimentare”
10 Novembre 2017
Massima
Il reato di “ricettazione fallimentare”, a differenza dalla fattispecie criminosa comune prevista dall'art. 648 c.p., non si configura come reato a consumazione istantanea, dovendosi invece considerare la condotta punibile come un unicum comprensivo dei singoli segmenti che portano al risultato distrattivo dei beni della persona giuridica, prima della dichiarazione del fallimento. Il caso
Con ricorso ex art. 606 c.p.p. il Difensore dell'imputato richiedeva l'annullamento della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d'Appello di Milano, confermativa della precedente affermazione di responsabilità pronunciata dal G.I.P., seppur con la riqualificazione del contestato reato di bancarotta fraudolenta nel ritenuto reato previsto dall'art. 232, comma 3 n. 2, l. fall. (con l'aggravante di cui al comma 4), per avere egli, quale amministratore di una società di capitali di diritto ungherese, acquistato quote societarie della società poi fallita ad un prezzo inferiore del valore delle stesse. Con il ricorso per Cassazione, la Difesa dell'imputato ha censurato la sentenza di appello sotto tre profili. Per quanto rileva in questa sede, il ricorrente ha sostenuto che il momento consumativo del reato di ricettazione fallimentare, trattandosi di reato istantaneo, si individuerebbe nella ricezione delle quote societarie e perciò, nella fattispecie in esame, esso si sarebbe consumato in Ungheria: da questa premessa, secondo il ricorrente, sussisterebbe in primo luogo una carenza di giurisdizione in capo all'autorità giudiziaria italiana. Ancora, analizzata la dinamica fattuale delle condotte consumate, è stato fatto rilevare che la società poi fallita aveva ceduto le quote di sua proprietà (quote di due società di diritto ungherese amministrate dall'imputato) ad un'altra società di capitali, estranea all'imputato (ma rappresentata dai medesimi amministratori della fallita), da cui poi l'imputato, attraverso un'altra società da lui amministrata, li aveva acquisiti senza alcun corrispettivo economico. Sarebbe dunque mancato il presupposto costitutivo dell'appartenenza delle quote, nel momento della cessione alla società del ricorrente, alla fallita e, difettando un elemento oggettivo del reato de qua, la condanna comminata dai giudici di merito sarebbe stata erronea e da cassare. La Suprema Corte ha disatteso in toto le doglianze contenute nel ricorso per cassazione, tutte ritenute prive di fondamento, e sui punti ora riepilogati ha svolto alcune considerazioni concernenti il reato di ricettazione fallimentare. Le questioni
La sentenza in commento, nel respingere il ricorso proposto da un amministratore di una società di capitali imputato originariamente di bancarotta fraudolenta, poi riqualificata, si occupa delle modalità e del momento di consumazione della c.d. ricettazione fallimentare, ed anzi, più specificatamente, di quella pre-fallimentare, come prevista e punita dall'art. 232, comma 3, n. 2, L. Fall. Il percorso motivazionale esplicitato dalla Corte trova il suo perno principale nella disamina di quello che è il momento consumativo del reato di cui si discute, in uno con le modalità di perfezionamento dello stesso. Ragionando su questo tema, vedremo poi se in modo sufficientemente condivisibile, il Supremo Collegio affronta e respinge, siccome infondate, due delle doglianze sollevate dal ricorrente: la prima circa la supposta carenza di giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana, la seconda circa la sussistenza stessa del reato contestato, in relazione alla pretesa inconfigurabilità dell'elemento costitutivo della distrazione di beni della fallita. Il ragionamento della sentenza in esame parte dal raffronto tra la ricettazione pre-fallimentare con la fattispecie codicistica di ricettazione: mentre in quest'ultima la condotta punibile è integrata dalla ricezione di beni di cui si conosca l'illecita provenienza, nel reato di cui all'art. 232, comma 3 n. 2, L. Fall. la condotta può alternativamente consistere nella distrazione, ricettazione o acquisto a prezzo incongruo di beni di un'impresa di cui si conosce lo stato di dissesto. Da questa differenza discenderebbe, secondo la sentenza in commento, l'affermazione che mentre la ricettazione di cui all'art. 648 c.p. ha natura di reato a consumazione immediata, quella pre-fallimentare non può considerarsi alla stessa stregua. Da questa petizione di principio, in realtà poi la Corte passa immediatamente all'esame della fattispecie concreta, per osservare che il depauperamento della società fallita non è avvenuto con un solo atto, ma è stato un risultato previsto come frutto di un originario disegno criminoso, e consumato progressivamente mediante più condotte esecutive di tale disegno. La Corte sottolinea più volte la pregnanza, ai fini del decidere, dell'unicità del disegno preso in considerazione ab origine da parte dei responsabili, in concorso tra loro, per arrivare ad affermare che non può parcellizzarsi la condotta in ogni singolo passaggio, per valutare se esso costituisca o meno reato. Considerare la condotta come un unicum a formazione progressiva, costituita da diversi segmenti attuativi, porta a due conseguenze: innanzitutto che la giurisdizione dell'autorità italiana sussiste laddove anche solo uno dei segmenti sia stato consumato in Italia; in secondo luogo - ed è quello che qui più interessa – che la distrazione dei beni della società fallita ad opera del ricorrente deve essere a lui correttamente addebitata, anche se materialmente egli non ha preso parte a quello che fu solo il primo segmento della condotta distrattiva complessiva. La fattispecie in esame, insomma, a causa della complessità di fatto della vicenda, in relazione al succedersi delle operazioni di cessione delle quote, deve essere considerata integrante un unico fatto distrattivo, in esecuzione del fine preordinato in origine dall'imputato, in concorso con gli altri compartecipi.
Osservazioni
La sentenza in epigrafe svolge un ragionamento interessante e, a parere di chi scrive, originale in relazione al momento consumativo ed alle modalità della condotta punibile rispetto alla fattispecie criminosa presa in considerazione. Intanto appare chiaro che il principio generale posto dalla sentenza in merito alla diversa natura della ricettazione comune rispetto a quella pre-fallimentare, con particolare riferimento alla istantanea o meno consumazione non convince. Non si vede infatti, a sommesso parere dello scrivente, come sia possibile escludere in linea di principio che una delle condotte alternative di cui al n° 2 dell'art. 232 cit. possa di per sé consumarsi in un'unica soluzione, con la conseguenza che la il reato si configuri come istantaneo. La formazione progressiva dell'acquisto di beni della fallita, ovvero della distrazione degli stessi, non può essere affermata come unica modalità della condotta tipica punibile. E in effetti la Corte, in parte motiva, pare affermare questo principio tuttavia calandolo nella fattispecie in esame, in relazione alla quale esso in effetti è coerente: si è qui trattato di diverse condotte poste in essere da più soggetti, in tempi e luoghi differenti, il cui risultato finale, preso di mira ab origine dai correi, era la distrazione delle quote di società straniere possedute dall'impresa poi fallita. In questa prospettiva si arriva ad affermare che la condotta del ricorrente – il quale ha acquisito tali beni da un'altra società – si pone come anello finale di una concatenazione di condotte, meramente esecutive di un unico concerto criminoso. La condotta punibile viene qui considerata, in altri termini, come a formazione progressiva e viene configurata quasi come un reato continuato, ove però ogni singolo segmento perde individualità e non è suscettibile di autonoma valutazione. E' necessario chiedersi in quale momento si consumerà il reato, così concepito secondo l'interpretazione della Corte. Evidentemente nel momento finale della condotta, ovverosia quando potrà dirsi definitivamente raggiunto il risultato distrattivo preso in considerazione dall'agente (nel caso di specie, quando il ricorrente imputato ha acquisito le quote da società terza). Ebbene, ma quando si deve considerare esaurita tale progressione? Ovverosia: se il prevenuto avesse a sua volta ceduto tali beni mobili, e poi ancora, fino a quando queste successive condotte avrebbero potuto legittimamente considerarsi segmento dell'unica condotta distrattiva (spostando peraltro in avanti il momento consumativo del reato)? Il quesito non è di secondo momento e porta ad una riflessione diversa: l'inciso posto dall'art. 232 n. 2 cit. (“se il fallimento si verifica”) costituisce pacificamente una condizione obbiettiva di punibilità che può integrare il momento consumativo del reato de qua. Del resto, così come nessuno dubita che i reati di bancarotta si consumino non già nel momento e nel luogo in cui siano consumate le condotte punibili, ma alla data e nel luogo della dichiarazione di fallimento, non vi sono ragioni plausibili per le quali non si possa ritenere tale momento consumativo del pari per la ricettazione pre-fallimentare. Condividere una simile impostazione avrebbe portato ad altri risultati processuali la vicenda di cui alla sentenza in commento, sia con riferimento alla competenza, sia con riferimento alla sussistenza stessa del reato. Infine, la Corte ha fatto riferimento al concorso di persone nella dinamica attuativa della condotta punibile unitariamente considerata. E' appena il caso di considerare che, attesa la coincidenza tra i soggetti amministratori della fallita e quelli della società prima acquirente delle quote, da un lato, e delle società ungheresi con l'imputato ricorrente, il ritenuto concorso nel reato parrebbe potersi ipotizzare solo tra questi soggetti. Ma se così fosse, il reato correttamente prospettabile sarebbe quello di bancarotta per distrazione, non già quello ritenuto in sentenza, posto che, secondo un orientamento di legittimità del tutto consolidato, sussiste il concorso nel reato di cui all'art. 216 e 223 e non quello ex art. 232 comma 3 n° 2 “quando la distrazione di beni sociali prima del fallimento sia operata dell'estraneo in accordo con l'amministratore della società fallita” (da ultimo Cass. pen. V sez., n. 42572/2016, in questo portale, con nota di Corucci, Il concorso dell'extraneus nei reati fallimentari). Si osservi, però, che nel caso in esame l'originaria imputazione era proprio di bancarotta patrimoniale, poi diversamente riqualificata ad opera della Corte d'Appello e ciò può lasciare spazio a qualche dubbio in proposito.
Conclusioni
Pare potersi dire che la sentenza qui oggetto di esame presenta, a dispetto della sintesi motivazionale, diversi spunti di utile riflessione critica, che si è cercato di approfondire o perlomeno di porre come quesito. Come si è visto, il principio che viene posto ed il percorso che vi è sotteso non convince del tutto. E tuttavia il limite fisiologico della motivazione di legittimità ovviamente non consente all'interprete di comprendere tutti gli elementi di fatto della vicenda processuale, già di per sé poco lineare, ed a causa di questo le osservazioni devono rimanere a ciò che pare emergere dalla decisione della Corte, fatto salvo ogni eventuale errore di prospettiva. |