Condannato il genitore alienante per responsabilità processuale aggravata
15 Dicembre 2017
Massima
Il termine alienazione genitoriale non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l'altra figura genitoriale; condotte che non abbisognano dell'elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologica delle condotte medesime. In caso di azione infondata posta in essere dal genitore che abbia attuato comportamenti alienanti, si impone una pronuncia di condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., registrandosi un grave abuso dello strumento processuale. Il caso
Il provvedimento in commento è stato assunto all'esito di un procedimento ex art. 709-ter c.p.c.. Il procedimento era stato promosso da una madre per far condannare il padre alle sanzioni previste nella norma in ragione di pretesi comportamenti pregiudizievoli da lui posti in essere successivamente al decreto del Tribunale che, su ricorso congiunto dei genitori, aveva regolamentato le condizioni dell'affidamento e del mantenimento della figlia ai sensi degli art. 337-bis e 337-quinquies c.c.. In particolare, la madre lamentava un completo disinteresse del padre verso la figlia e una conseguente reazione di rifiuto della bambina, la quale avrebbe subìto un vero e proprio trauma a seguito del comportamento paterno. Il padre si costituiva nel giudizio chiedendo l'intervento dei servizi sociali – al quale egli si era già rivolto in autonomia prima dell'introduzione del procedimento – per garantire in concreto l'esercizio del suo diritto di vedere e frequentare la figlia, a suo dire leso dai comportamenti della madre. Dopo una prima indagine svolta dai servizi, il Tribunale affidava la minore al comune di residenza, mantenendo il collocamento della bambina presso la madre, nelle more di ulteriori indagini. Dopo la proposizione del reclamo contro il provvedimento provvisorio da parte della madre – rigettato dalla Corte d'Appello di Milano in quanto inammissibile – il Tribunale disponeva, sempre su richiesta della madre, una CTU. Nel corso del procedimento, nel quale la bambina veniva sentita prima indirettamente dai servizi, poi in modo approfondito dal consulente tecnico, si confermava un rifiuto molto fermo della bambina di vedere il padre; dalle verifiche emergeva in particolare come la bambina avesse paura che il padre l'avrebbe portata via dalla madre. Al contempo, la consulenza tecnica escludeva vissuti traumatici della bambina, in particolare legati alla figura paterna, evidenziando al contrario forti fragilità della madre e una adesione quasi totale della bambina ai vissuti (anche patologici) materni. All'esito della consulenza la CTU concludeva evidenziando come la «causa centrale del rifiuto della bambina e dell'immagine rigidamente negativa che la stessa ha del padre è la madre, che, consciamente o inconsciamente, ha inevitabilmente e costantemente trasmesso alla figlia i propri distorti convincimenti negativi, paurosi e pericolosi sulla figura paterna». All'esito del procedimento, il Tribunale di Milano – ai sensi dell'art. 333 c.c. – disponeva l'affido della minore al comune di residenza, limitava l'esercizio della responsabilità in capo ai genitori con riguardo a tutte le decisioni di maggior interesse per la figlia, incaricava il servizio sociale di monitorare il nucleo familiare, di avviare interventi di supporto della genitorialità per entrambi i genitori, oltre a percorsi terapeutici individuali, di garantire un adeguato supporto terapeutico alla figlia, di mantenere provvisoriamente il collocamento della bambina presso la madre e di ampliare gradualmente la frequentazione padre – figlia. Infine, il Tribunale condannava la madre, da un lato, alla refusione delle spese di lite al padre in ragione della sua soccombenza e, dall'altro, al pagamento in favore del padre della sanzione pecuniaria di € 3.627,00 – pari alle spese di lite liquidate – per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.. La questione
Accertato uno schema comportamentale di un genitore improntato alla sistematica denigrazione dell'altro genitore agli occhi del figlio, così causando nel figlio il rifiuto quasi totale del genitore e nel genitore denigrato uno stato di forte stress, e verificata dunque l'infondatezza delle iniziative processuali poste in essere dal genitore alienante ai danni dell'altro, sussistono i presupposti per ritenere l'azione proposta processualmente viziata da colpa grave e come tale meritevole di sanzione ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.? Le soluzioni giuridiche
Nell'inquadrare i comportamenti alienanti posti in essere da un genitore ai danni dell'altro (di norma ad opera del genitore collocatario), il Tribunale di Milano si è mosso nel solco di una giurisprudenza ormai consolidata e della dottrina scientifica maggiormente accreditata. Ha infatti ribadito che l'alienazione genitoriale «non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l'altra figura genitoriale». In questo senso si era già pronunciata la Corte di Cassazione (dopo alcune pronunce in senso contrario di alcuni Corti di merito, tra cui Trib. Alessandria, 24 giugno 1999, n. 318; Trib. Matera, 11 febbraio 2010; App. Brescia, 2 agosto 2012) con la nota sentenza del 20 marzo 2013, n. 7041. In tale sentenza la Corte evidenziava come la PAS appaia come una «teoria non ancora consolidata sul piano scientifico ed anzi, come si vedrà, molto controversa» e come dunque i comportamenti alienanti dei genitori non debbano essere valutati ai fini di accertare una patologia del minore, ma come comportamenti eventualmente pregiudizievoli (sul punto cfr. anche Cass. civ., sez. I, 8 marzo 2013, n. 5847). Del resto, se è vero che nel DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) è stato introdotto parzialmente il concetto di alienazione parentale, questa non viene definita né come sindrome, né come un disordine, bensì come un “problema relazionale” e in questa direzione sembra muoversi la dottrina scientifica oggi maggiormente accreditata. Nel determinare le conseguenze dell'accertamento di comportamenti alienanti di un genitore nei confronti dell'altro, il Tribunale di Milano ha invece assunto un provvedimento molto innovativo, di cui non si conoscono precedenti in giurisprudenza. Ad avviso del Tribunale, infatti, i comportamenti posti in essere dalla madre sono meritevoli di sanzione ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.. Il ragionamento seguito dal Tribunale è partito dal rilevare come le condotte alienanti per essere valutate tali «non abbisognano dell'elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologia delle condotte medesime». Il Tribunale di Milano ha quindi ravvisato nel comportamento della madre uno schema di denigrazione e alienazione del padre, che si è concretizzato anche nella condotta processuale. Infatti, il Tribunale ha ritenuto il ricorso presentato dalla madre ex art. 709-ter c.p.c. «non solo palesemente infondato ma finanche imprudente: infatti, la causa della crisi dei rapporti genitoriali è da intravedersi in comportamenti materni e non paterni». A fronte di questa convinzione, la conseguenza tratta appare logica: «la madre che proponga ricorso contro il padre, per questioni relative ai figli, e risulti poi essere l'autrice di comportamenti alienanti, propone una azione che è da ritenere processualmente viziata da colpa grave e come tale meritevole di sanzione ex art. 96, comma 3, c.p.c.». Nel caso di specie, poi, il Tribunale di Milano ha accertato – anche se la norma invocata non lo prevede come requisito necessario – come i comportamenti denigratori della madre hanno di fatto prodotto un danno: da un lato, «uno stato di forte stress nel padre»; dall'altro lato, «una situazione di pericolosa vulnerabilità della minore». Con questa analisi, il Tribunale di Milano sembra muoversi sulla scia di una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919), secondo la quale l'atteggiamento ostile di un genitore che impedisca di fatto a un minore la frequentazione con l'altro genitore comporta una grave violazione del diritto del figlio al rispetto della vita familiare, e quindi un danno. Venendo al merito dello strumento adottato – di cui non si conoscono applicazioni in materia di diritto di famiglia – il Tribunale di Milano ha ravvisato nell'art. 96, comma 3, c.p.c., come in più occasioni la Corte di Cassazione, una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini diversi dalla tutela dei propri diritti, contribuendo così ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti: «la norma fa, infatti, riferimento alla condanna al “pagamento di una somma”, segnando così una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni”, oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell'art. 96 c.p.c.». Come ha ravvisato la Cassazione, anche per il Tribunale di Milano l'art. 96, comma 3, c.p.c. rappresenta un presidio del processo dal suo abuso e dalla lesione dell'interesse collettivo (dunque pubblico) a un adeguato funzionamento del sistema giurisdizionale (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2016, n. 19285). Ne consegue che l'art. 96, comma 3, c.p.c. – ad avviso della Corte milanese - costituisce «un'ipotesi di condanna di natura sanzionatoria e officiosa per l'offesa arrecata alla giurisdizione» (così anche Corte Cost., 23 giugno 2016, n. 152; Cass. civ., sez. VI, 11 febbraio 2014, n. 3003). Osservazioni
Nel caso in esame, il Tribunale di Milano ha assunto un provvedimento sicuramente innovativo, il cui pregio maggiore, ad avviso di chi scrive, sta nell'aver voluto individuare una vera e propria sanzione a carico del genitore che ha posto in essere comportamenti pregiudizievoli nei confronti della figlia e lesivi dei diritti della minore stessa e dall'altro genitore. Troppo spesso, infatti, quando i comportamenti alienanti arrivano nelle aule giudiziarie i loro effetti si sono già prodotti in modo a volte irreparabile, tale per cui la sanzione degli stessi non può passare da una modifica della situazione di vita del minore. L'interesse primario del minore, che deve guidare i tribunali nell'assumere le decisioni in questi casi, spesso comporta l'impossibilità di adottare provvedimenti in grado di tutelare davvero i diritti lesi e di porre fine ai pregiudizi arrecati, lasciando così un senso di profonda ingiustizia in chi quei comportamenti li ha subiti e una ferita per la società. Peraltro, ogni volta che tali comportamenti si traducono in condotte processuali inutili, dispendiose o dilatorie, come nel caso di specie, il danno non riguarda più solo le persone coinvolte, ma anche tutto il sistema giudiziario nel suo complesso. Alla luce di queste considerazioni, il provvedimento del Tribunale di Milano merita senz'altro di essere condiviso. Guida all'approfondimento
- D. Pajardi, M. Vagni, Relazioni conflittuali: quando un bambino rifiuta un genitore. Anche, ma non solo, alienazione parentale, in IlFamiliarista.it; - G. B. Camerini, M. Pingitore, Alienazione parentale: ostacolo alla bigenitorialità, in IlFamiliarista.it. |