Disconoscimento di paternitàFonte: Cod. Civ. Articolo 243 bis
14 Aprile 2015
Inquadramento
Quando si verifica una nascita da donna coniugata, l'art. 231 c.c. attribuisce al marito di lei la paternità del nato; a sua volta l'art. 232 c.c. integra la previsione con una presunzione di concepimento durante il matrimonio, quando la nascita avviene dopo che non sono decorsi ancora 300 giorni da una serie di eventi che incidono sul vincolo matrimoniale o sulla convivenza. Si tratta di una duplice presunzione, in forza della quale viene di regola formato l'atto di nascita ai sensi dell'art. 29 d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, di figlio nato all'interno del matrimonio, costitutivo del relativo status; ciò salvo che la donna dichiari il figlio come concepito con persona diversa dal marito, riconoscendolo come nato al di fuori del matrimonio. Il disconoscimento di paternità rappresenta un'azione di stato, finalizzata a superare la presunzione di paternità e, pertanto, a far accertare giudizialmente che il figlio non è stato generato dal marito della madre. Si tratta dell'unico rimedio esperibile, pure nelle ipotesi in cui sia intervenuta declaratoria di nullità del matrimonio tra i genitori (Cass. 8 giugno 2012, n. 9379). La presunzione di paternità si ricollega strettamente all'art. 143 c.c., dove è annoverato, tra i doveri derivanti dal matrimonio, anche quello alla fedeltà (intesa nell'accezione più ristretta di dovere di esclusività del coniuge nei rapporti sessuali). È evidente come il disconoscimento attenga allo stato dei figli nati all'interno del matrimonio (identificati, prima della riforma di cui alla l. 10 dicembre 2012, n. 219, come “figli legittimi”, in contrapposizione a quelli “naturali”).
Presupposti
Il disconoscimento della paternità, fino all'entrata in vigore del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, era ammissibile soltanto nelle ipotesi tipiche contemplate dall'abrogato art. 235, nn. 1,2,3 c.c. (mancata coabitazione dei coniugi nel periodo di presunto concepimento; impotenza, anche solo di generare, del marito; adulterio della moglie o celamento di gravidanza). Il d.lgs. n. 154/2013 ha abrogato l'art. 235 c.c. ed ha inserito le stesse fattispecie nel nuovo art. 244 c.c., all'interno della più generale disciplina dell'azione di disconoscimento; nella sostanza pertanto nulla è mutato. Può affermarsi dunque che i presupposti dell'azione siano tipici, ancorché uniti da un unico denominatore comune, rappresentato da un “adulterio” in senso lato, con connesso concepimento ad opera di uomo differente dal marito di colei che ebbe a partorire, a prescindere dalle specifiche circostanze in cui detto adulterio venne consumato; la differenza tra le fattispecie rileva maggiormente, se mai, sotto l'aspetto probatorio. Proprio muovendo da tale premessa, l'art. 9 l. 19 febbraio 2004, n. 40 ha previsto che, in caso di accesso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo (inizialmente vietate sino alla pronuncia di C. Cost. 10 giugno 2014, n. 162), non sia ammissibile esercitare l'azione di disconoscimento di paternità; la decisione di entrambi i coniugi di avere un figlio tramite il ricorso ad una “banca del seme” è incompatibile con un adulterio, ancorché come è evidente il figlio non possegga il patrimonio genetico del marito della madre. A tali conclusioni, già prima della l. n. 40/2004 era pervenuta la giurisprudenza, dopo l'autorevole intervento di C. Cost. 26 settembre 1998, n. 347 (cfr. Cass., sez. I, 16 marzo 1999, n. 2315). Nessuna preclusione è configurabile invece per il figlio, dovendosi ritenere prevalente il principio del favor veritatis (Cass. 11 luglio 2012, n. 11644). Se il ricorso alle tecniche suddette è avvenuto senza il consenso del marito, questi potrà procedere al disconoscimento della paternità (ed il termine decorrerà dalla data della conoscenza di tale fatto da parte del marito: Cass. 11 luglio 2012, n. 11644). Legittimazione attiva
L'art. 243-bis c.c., introdotto con il d.lgs. n. 154/2013, conferma quanto già in precedenza previsto. L'azione di disconoscimento può essere esercitata solo dal marito, dalla madre e dal figlio. È esclusa legittimazione in capo ad altri soggetti, che pure potrebbero avervi interesse (in primis, il padre biologico, cui la giurisprudenza ha da sempre negato anche il potere di intervento nel procedimento: Cass., sez. I, 15 novembre 2001, n. 14315; Cass., sez. I, 6 aprile 1995, n. 4035), ivi compreso il pubblico ministero. Diversa è invece la legittimazione quanto all'azione di impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio, per difetto di veridicità: malgrado l'unificazione dello status filiationis permangono, anche se più attutite rispetto al passato, differenze fra le due azioni “demolitive” dello status di filiazione. In base all'art. 246 c.c., se il padre o la madre, titolari dell'azione di disconoscimento sono morti prima di averla esercitata, ma prima che sia decorso il termine decadenziale per l'esercizio dell'azione stessa, sono ammessi a promuoverla i discendenti o gli ascendenti (e, quindi, non gli eredi). Se invece dovesse morire il figlio, prima di aver promosso l'azione, la legittimazione, in sua vece, spetta al coniuge o ai discendenti. Se l'evento morte intervenisse, per ciascuno dei soggetti legittimati attivi, dopo l'intervenuta instaurazione del procedimento, gli eredi potrebbero proseguire il giudizio ex art. 110 c.p.c.. Il nuovo art. 244 c.c. ha cercato di riordinare il regime dei termini per l'esercizio dell'azione rispetto a quanto previsto nella precedente formulazione della norma, oggetto di varie declaratorie di incostituzionalità. Permane comunque inalterata la ratio della previsione, che assoggetta a rigorosi termini decadenziali la proposizione della domanda di disconoscimento di paternità; anzi, il rigore è stato accentuato, in relazione alle azioni proposte dai genitori, mentre più nessun termine riguarda il figlio. In precedenza il regime dei termini si poteva giustificare con il presunto interesse del figlio a mantenere uno stato (quello di legittimo), privilegiato rispetto a quello di figlio naturale (ed ancor più rispetto a quello di “illegittimo” antecedente la riforma del 1975); in oggi si valorizza invece il diritto del figlio a mantenere l'identità personale acquisita, attribuendo allo stesso la disponibilità del proprio status. L'azione di disconoscimento, da parte della madre, va proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio, ovvero dal giorno della conoscenza dell'impotenza di generare del marito, al tempo del concepimento. Si tratta di un termine più ridotto rispetto a quello del padre: è del tutto presumibile che la madre abbia sin da subito adeguata contezza dell'autore del concepimento; del resto, ove nutrisse fondati dubbi, ben potrebbe dichiarare il figlio come nato al di fuori del matrimonio, al momento della redazione dell'atto di nascita. Il differimento dell'inizio del termine decadenziale della scoperta dell'impotentia generandi è frutto di un intervento della Corte costituzionale sul testo previgente dell'art. 244 c.c., in nome dell'effettività del diritto d'azione (C. Cost. 14 maggio 1999, n. 170). Il padre può disconoscere il figlio nel termine di un anno, che di regola decorre dal giorno della nascita, salvo che egli fosse stato lontano (ed il termine decorrerà dal ritorno o dalla conoscenza della nascita stessa). Se peraltro il padre prova di aver ignorato la propria impotenza di generare, ovvero l'adulterio della moglie (fattispecie quest'ultima che rappresenta il presupposto fondante di quasi tutte le domande giudiziali di disconoscimento della paternità), il termine prende a decorrere dal giorno in cui ha avuto conoscenza di detti eventi. Anche in questo il d.lgs. n. 154/2013 ha recepito quanto a suo tempo deciso dalla Corte costituzionale sul precedente testo dell'art. 244 c.c., in relazione al dedotto adulterio della moglie (C. Cost. 6 maggio 1985, n. 134). È necessario ricordare l'ampia elaborazione giurisprudenziale formatasi sul punto. Si è ripetutamente affermato che il termine annuale inizia a decorrere da quando il marito, prima ignaro, sia venuto a conoscenza di una relazione della moglie con altro uomo, al momento del concepimento, tale da ingenerare il ragionevole sospetto della propria non paternità del figlio. Non deve quindi farsi riferimento all'eventuale diverso (e successivo) momento in cui quegli abbia appreso che il figlio non è proprio, per presentare quegli caratteri genetici incompatibili con i propri, o per avere avuto conferma del già preconizzato adulterio della consorte (Cass., sez. I, 2 luglio 2010, n. 15777; Cass., sez. I, 23 ottobre 2008, n. 25623). Se il marito avesse appreso dell'adulterio della moglie già durante la gravidanza, il termine decadenziale non potrà, ovviamente, che decorrere dalla nascita del figlio. Va rammentato che, in base all'art. 245 c.c., se il genitore si trova in stato di interdizione per infermità di mente, ovvero sia affetto da incapacità naturale, la decorrenza del termine è sospesa fino a che perduri lo stato di interdizione, ovvero le condizioni di incapacità. La precedente formulazione della norma si riferiva invece alla sola interdizione. In ogni caso, l'azione potrebbe essere promossa dal tutore, ovvero da un curatore speciale, previa autorizzazione del giudice (da identificare nel giudice tutelare in situazioni di interdizione o di amministrazione di sostegno quando il beneficiario risulti incapace di provvedere ai propri interessi). Il nuovo art. 244 comma 4 c.c. ha previsto un ulteriore termine decadenziale per padre e madre. L'azione non può essere infatti comunque proposta oltre 5 anni dal giorno della nascita del figlio; e ciò a prescindere dal momento in cui gli interessati dovessero venire a conoscenza dell'impotenza di generare del marito, piuttosto che dell'adulterio della moglie, al momento del concepimento. Il legislatore ha inteso in questo modo dare stabilità allo status acquisito nel frattempo dal figlio, ancorché la previsione abbia dato luogo a vivaci critiche e a sospetti di illegittimità costituzionale per eccesso di delega da parte del Governo. E ciò tanto più, ove si consideri che la norma riferisce la decadenza ai casi di cui ai commi 1 e 2, e non a quello di cui al comma 3 (per il caso di lontananza del padre ovvero di mancata conoscenza della nascita). Si tratta di previsione operante pure nei giudizi in corso, fermi gli effetti di un giudicato (Cass. 26 giugno 2014, n. 14556). Malgrado la non precisa formulazione della norma è da ritenere che il termine in questione non sia sospeso, in caso di interdizione o di incapacità del genitore, posto che altrimenti si darebbe luogo ad una discriminazione fra i figli, in relazione alle condizioni di capacità dei genitori. Occorre tenere presente che, per i figli già nati all'entrata in vigore del d.lgs. n. 154/2013, in base all'art. 104, il termine dei 5 anni or ora esaminato, prenderà a decorrere dall'entrata in vigore dello stesso d.lgs. (7 febbraio 2014). Si è detto che i termini contemplati dall'art. 244 c.c. sono di natura decadenziale; il giudice potrà, dunque, rilevarne l'inosservanza, anche d'ufficio, senza necessità di eccezione di parte. I termini sono rispettati solo ed esclusivamente in relazione alla tempestiva notifica dell'atto di citazione, introduttivo del giudizio. Azione proposta dal figlio
Il figlio, che abbia raggiunto la maggiore età, può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità, senza l'osservanza di alcun termine decadenziale. Il nuovo testo dell'art. 244 c.c. ha sensibilmente modificato la disciplina previgente, che, anche per il figlio, imponeva invece un termine di un anno, decorrente dal raggiungimento dell'età maggiore, ovvero dalla conoscenza di circostanze tali da rendere ammissibile la domanda. In caso di incapacità del figlio maggiorenne, l'azione potrebbe essere intrapresa da un curatore speciale, a fronte di richiesta del pubblico ministero, del tutore o dell'altro genitore. È importante tenere presente che, in mancanza di previsioni specifiche in ordine all'impatto della nuove norme introdotte dal d.lgs. n. 154/2013 sui procedimenti in corso, la giurisprudenza ne ha affermato l'operatività immediata, salvo gli effetti di un giudicato formatosi sul punto (Cass., sez. I, 26 giugno 2014, n. 14557, in un procedimento nel quale si controverteva sull'osservanza, da parte del figlio, del termine decadenziale per l'esercizio dell'azione).
Curatore speciale del minore
Al pari del testo previgente, il nuovo art. 244 c.c. legittima alla proposizione della domanda giudiziale anche un curatore speciale, in caso di minore età del figlio. La disciplina è stata peraltro modificata; in oggi il curatore può essere nominato su istanza del figlio, che abbia già raggiunto i 14 anni (inizialmente 16). In caso di minore età, l'istanza potrebbe essere avanzata anche dal pubblico ministero, ove ritenesse conforme all'interesse del minore vedersi privare di uno status che non gli appartiene, ma pure dall'”altro genitore”: la norma non è chiara sul punto, ancorché dovrebbe farsi riferimento al padre o alla madre, che siano dichiarati decaduti dall'azione, sempre che non siano decorsi 5 anni dalla nascita del figlio. La nomina del curatore speciale, in base all'art. 80 c.p.c., è di competenza dello stesso ufficio giudiziario davanti al quale verrà radicata la futura causa di merito; il procedimento è di volontaria giurisdizione. Legittimazione passiva
Il giudizio di disconoscimento della paternità presuppone un litisconsorzio necessario fra il padre, la madre ed il figlio. Il soggetto che agisce (sia personalmente che tramite un curatore speciale) dovrà evocare in giudizio gli altri due, come dispone l'art. 247 c.c.. Se il figlio è minorenne, lo stesso non potrà essere evocato in giudizio nella persona del genitore che ne ha la legale rappresentanza, stante il palese conflitto di interessi. Sarà allora necessario chiedere previamente al tribunale la nomina di un curatore speciale ai sensi dell'art. 78 c.p.c.: la competenza territoriale si individua sempre in ragione dell'art. 80 c.p.c.. Se una delle parti fosse deceduta, l'azione andrebbe proposta nei confronti dei soggetti cui l'art. 246 c.c. attribuisce legittimazione attiva sostitutiva; in mancanza occorrerà chiedere la nomina di un curatore speciale. Procedimento
La competenza a conoscere dell'azione di disconoscimento della paternità è, come già in precedenza, del tribunale ordinario, in composizione collegiale, essendo obbligatorio l'intervento del pubblico ministero ex art. 50-bis, n. 1), c.p.c.. Quanto alla competenza per territorio, occorre far riferimento alla regola generale dell'art. 18 c.p.c.. Il rito è quello ordinario contenzioso, come previsto espressamente dall'art. 38 comma 3 c.p.c. vertendosi in tema di azione di stato. La sentenza di accoglimento della domanda assume efficacia di cosa giudicata erga omnes, in quanto inerente allo status della persona (Cass. 26 marzo 2013, n. 7581). Onere della prova
Chi agisce in giudizio dovrà innanzitutto dimostrare la tempestività della domanda, in tutte quelle occasioni in cui il procedimento dovesse essere radicato dopo un anno dalla nascita del figlio (per scoperta successiva dell'adulterio della moglie, ovvero dell'impotentia generandi del marito). Nel merito, ogni prova è ammessa, con l'avvertenza che la sola dichiarazione della madre non è idonea ad escludere la paternità. Non potrà essere ammesso il giuramento o l'interrogatorio formale delle parti, stante l'indisponibilità dei diritti in contestazione, ma le stesse ben potranno essere sentite in sede di interrogatorio libero. Come intuitivo, di particolare importanza è la consulenza tecnica di tipo genetico sul DNA, che il giudice potrà disporre, anche senza una richiesta di parte; in oggi infatti le indagini in questione forniscono risultati pressoché incontrovertibili e le stesse si svolgono in modo del tutto non invasivo per il periziando (tramite prelievo di saliva ovvero di capelli). Come ha più volte affermato la giurisprudenza anche in relazione alle altre azioni di stato, il rifiuto ingiustificato di una delle parti a sottoporsi alla CTU rappresenta una circostanza, di cui il giudice ben potrà tener conto ai fini della decisione, ai sensi dell'art. 116 c.p.c. essendo il consenso preventivo dell'interessato sempre necessario (Cass. 13 settembre 2013, n. 21014). Va qui ricordato come l'abrogato art. 235 c.c., per il caso di adulterio, subordinasse l'espletamento di indagini genetiche alla preventiva dimostrazione dell'adulterio stesso; la previsione era stata peraltro dichiarata costituzionalmente illegittima, per violazione del diritto d'azione in giudizio (C. Cost. 6 luglio 2006, n. 266). In oggi, dunque, l'accesso alle prove genetiche non trova preclusione, ancorché sia sempre consigliabile fornire, ove possibile, elementi indiziari (documentali e istruttori) che possano suffragare l'esistenza di un rapporto della donna con altro uomo, onde evitare di dar corso a consulenze, che potrebbero confermare l'esistenza della paternità del marito, con aggravio di spese e forte impatto nelle relazioni familiari. Problemi più complessi sorgono se mai in caso di decesso del padre, con conseguente necessità di procedere ad analisi su reperti biologici, conservati in strutture ospedaliere o similari; precisa al riguardo la giurisprudenza non potersi configurare in questo caso un diritto dei congiunti ad opporsi all'accertamento scientifico. Il consenso potrebbe essere invece negato, ove si dovesse dar corso all'esumazione del cadavere, vantando i congiunti su di esso un diritto privato non patrimoniale, di natura non ereditaria, fondato sulla consuetudine e sul sentimento di pietà verso il defunto (Cass. 5 agosto 2008, n. 21128). Il giudice potrebbe peraltro, anche in questo caso, inferire elementi di prova dal mancato consenso all'esumazione. Ad ogni buon conto, nessun accertamento potrebbe essere compiuto ove il cadavere fosse stato cremato; allo stato non è possibile estrarre alcun DNA dalle ceneri. La consulenza potrebbe comunque risultare superflua ove a base della domanda vengano poste altre circostanze diverse dal mero adulterio della moglie (mancanza di contatti tra i coniugi, ovvero impotenza del marito nel momento del concepimento). Diritto internazionale privato
L'art. 33 comma 1 l. 31 maggio 1995, n. 218, come modificato dal d.lgs. n. 154/2013, ribadisce che lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale di lui, senza più peraltro il riferimento temporale al momento della nascita. È inoltre previsto che lo status, se più favorevole al figlio, possaessere determinato dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita (criterio temporale che invece qui rileva). Dispone l'art. 33 comma 2 l. n. 218/1995 che la legge individuata in base al primo comma regola i presupposti e gli effetti dell'accertamento e della contestazione dello stato di figlio. La legge in questione disciplina dunque tutto quanto attiene alla dimostrazione dell'esistenza, così come dell'inesistenza del rapporto biologico di filiazione (ivi compresa il disconoscimento della paternità). Potrebbe tuttavia verificarsi che la legge individuata non permetta la contestazione dello stato, escludendo cosi il diritto del figlio ad eliminare uno status che non risponde al vero. In questo caso troverà applicazione la legge italiana. Il principio sopra esposto è stato in parte reiterato nel comma 3: se lo stato di figlio è stato acquisito in forza della legge nazionale di uno dei genitori, la contestazione dello stato dovrà avvenire in forza di essa (e non di quella nazionale del figlio); se peraltro detta legge non consenta la contestazione, si applica la legge italiana. È da precisare che l'applicazione di quest'ultima presuppone che l'azione di status sia stata ritualmente radicata davanti ad un tribunale italiano, avente quindi giurisdizione.
Casistica
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