Appropriazione indebita (e non infedeltà patrimoniale) per l’amministratore che si impossessi di somme della società

Ciro Santoriello
27 Dicembre 2017

Integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato.
Massima

Integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato.

Il caso

La questione portata all'esame della Suprema Corte si presentava, sotto il profilo dell'accertamento fattuale, di non particolare complessità. L'amministratore di una società aveva permesso ad un terzo soggetto, che era in realtà l'effettivo dominus della persona giuridica di effettuare prelevamenti dai conti sociali, giustificando tali prelievi con artifici contabili chiaramente mendaci.

Il problema che la vicenda poneva era però rappresentato dalla qualificazione giuridica da riconoscere a tale condotta, posto che l'impresa depauperata non era stata dichiarata fallita – nel qual caso, evidentemente, si sarebbe stati in presenza di una fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione in concorso fra i due soggetti. In sede di merito, infatti, l'amministratore era stato condannato per il reato di appropriazione indebita aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p., ma la difesa contestava tale qualificazione sostenendo che nel caso di specie ricorreva il delitto di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 c.c., per il quale da un lato non poteva procedersi per mancanza di querela e dall'altro doveva ritenersi mancante la tipicità del fatto in quanto la società danneggiata dalla vicenda faceva parte di un gruppo di imprese ed il soggetto che aveva materialmente prelevato le somme era il dominus delle società controllanti l'impresa da cui provenivano le somme di denaro ed aveva agito, nell'impossessarsi del denaro, nell'interesse dell'intero gruppo.

La questione

L'art. 2634 c.c. prevede che “1. gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni. 2. La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale. 3. In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo. 4. Per i delitti previsti dal primo e secondo comma si procede a querela della persona offesa”.

Prima dell'entrata in vigore di tale disposizione il nostro ordinamento non conosceva figure di questo tipo, nonostante la dottrina ne avesse più volte sollecitato l'introduzione (NUVOLONE, L'infedeltà patrimoniale nel diritto penale, Milano, 1941, 57). Le ragioni addotte dal legislatore per giustificare l'introduzione della fattispecie in commento erano rinvenibili nella incapacità delle altre figure delittuose presenti “a fornire adeguate risposte alle esigenze di protezione del patrimonio sociale contro gli abusi posti in essere da parte dei titolari dei poteri gestori” (ZANOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia, Milano 2006, 258; BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni civili, Milano 2006, 76). In particolare e per quanto di interesse in questa sede, si riteneva che il ricorso, per sanzionare condotte di tal fatta, alla figura di appropriazione indebita – utilizzo operato sostenendo che la violazione della disposizione codicistica sussisteva anche quando l'amministratore costituiva riserve di denaro extrabilancio, con gestione occulta, per poi distrarle in favore di terzi per scopi estranei all'oggetto sociale ed alle finalità aziendali, così procurandosi un ingiusto profitto (MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 193; MILITELLO, Gli abusi nel patrimonio di società controllate e le relazioni fra appropriazione e distrazione, ivi, 1991, 266) – fosse il risultato di una forzatura esegetica di dubbia compatibilità rispetto al principio di legalità (SCOPINATO, Infedeltà patrimoniale, in SCHIANO DI PEPE, Diritto penale delle società, II ed., Milano 2003, 283; FOFFANI, Infedeltà patrimoniale e conflitto si interessi nella gestione di impresa, Milano 1997, 578; IACOVIELLO, La responsabilità degli amministratori nella formazione di fondi occulti, in Cass. Pen., 1995, 3561; PEDRAZZI, Sui limiti dell'appropriazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1997, 1444. Contra, MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale cit., 206).

Il profilo su cui più insisteva la dottrina era rappresentato dall'impossibilità di ricondurre i comportamenti distrattivi tenuti dagli amministratori di società nell'alveo della previsione di cui all'art. 646 c.p., con riferimento all'ipotesi di utilizzo del patrimonio sociale per finalità diverse da quelle alle quali lo stesso era destinato ed in particolare in relazione alla costituzione di fondi extrabilancio ed all'erogazione degli stessi in favore di pubblici ufficiali o di partiti politici o di organo di stampa o di società controllate, con un indiretto vantaggio per la società controllante (CANTONE, Formazione di riserve occulte da parte dell'impresa destinate all'illecito finanziamento dei partiti politici. Profili di rilevanza penale, in Cass. Pen. 1997, 278; MILITELLO, Aspetti penalistici dell'abusiva gestione nei gruppi societari: fra appropriazione indebita ed infedeltà patrimoniale, in Foro It., 1989, II, 421; FOFFANI, Infedeltà, cit., 578).

A fronte di tali considerazioni, tuttavia, la giurisprudenza replicava nel senso “integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato” (Cass., sez. II, 14 novembre 2013, Biondo, in Mass. Uff., n. 257646. In precedenza, nello stesso senso, Cass., sez. II, 4 aprile 1997, Bussei, in Cass. Pen., 1998, 440; Cass., sez. V, 9 luglio 1992, Boyer, ivi, 1993, 1985). A fronte di tale conclusione, la giurisprudenza – aderendo per questo aspetto alle considerazioni della dottrina – sottolineava tuttavia come non potesse essere qualificata distrattiva, e tantomeno appropriativa, “un'erogazione di denaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, rispond[esse] ad un interesse riconducibile anche indirettamente all'oggetto sociale … per cui né il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società, né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integrano gli estremi dell'appropriazione indebita” (Cass., sez. II, 23 giugno 1989, Bernabei, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, 266; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, in Foro It. 1998, II, 517. In dottrina, in senso favorevole a quest'ultimo orientamento, LA SPINA, Questioni in tema di abusi patrimoniali degli amministratori di società (in occasione della pronuncia definitiva sulle responsabilità penali di Sergio Cusani), in Foro It., 1998, II, 517; MONARI, Utilizzo di somme extrabilancio ed appropriazione indebita, in Cass. Pen., 1998, 3101).

Le soluzioni giuridiche

La decisione della Cassazione, nel rigettare in toto il ricorso, ha ricostruito sia pur brevemente da un lato i confini del reato di infedeltà patrimoniale e dall'altro ribadito il suo – da ritenere ormai consolidato – orientamento in tema di appropriazione indebita di fondi sociali da parte dell'amministratore della persona giuridica.

Con riferimento a quest'ultimo profilo, la Suprema Corte non rinviene ragioni per discostarsi dal già citato principio secondo cui l'appropriazione di beni rientranti nel patrimonio societario da parte del gestore dell'impresa è condotta sussumibile nella fattispecie di cui all'art. 646 c.p.. Non solo; secondo la Cassazione, l'amministratore di una società è altresì tenuto, se non vuole rispondere del reato di applicazione indebita, ad impedire anche che siano terzi soggetti ad appropriarsi approvino di beni o di somme di denaro rientranti nel patrimonio della società e pertanto risponde, ex art. 40 cpv. c.p., del delitto di appropriazione indebita anche l'amministratore della società a responsabilità limitata che non abbia impedito la distrazione di somme del patrimonio sociale a favore di terzi che non siano titolari di diritti di credito ovvero che non abbiano effettuato alcuna prestazione a vantaggio della società

Ribadito tale principio, la Cassazione prende ad esaminare la seconda delle censure formulate dalla difesa, la quale, come si ricorderà, sosteneva che la vicenda non presentasse profili di rilievo penale in quanto il soggetto che si era impossessato delle somme era l'amministratore della società che controllava la persona giuridica il cui patrimonio era stato oggetto di aggressione. Tale circostanza – il fatto cioè che società avvantaggiata dalla vicenda e società penalizzata dalla distrazione – fossero inserite nell'ambito di un medesimo gruppo di imprese avrebbe reso, a dire della difesa, legittimo il comportamento contestato.

Secondo la Cassazione, invece, società controllante e società controllata sono entità giuridicamente autonome sia sul piano organizzativo che patrimoniale sicché del tutto ingiustificabili sono eventuali prelievi effettuati dall'amministratore della prima a danno dell'impresa controllata e consentiti dall'amministratore di quest'ultima. L'autonomia patrimoniale fra le diverse compagini – quand'anche sussistente fra loro un rapporto di collegamento – impedisce sempre la distrazione di somme di una società a vantaggio di soggetti privi di diritti di credito direttamente esercitabili nei confronti della stessa società non potendo la società a responsabilità limitata essere utilizzata quale "cassa" anche da parte di soggetti che solo indirettamente esercitano poteri di controllo di fatto sulla stessa, altrimenti consentendosi una indebita sottrazione di patrimonio sociale.

Osservazioni

La decisione della Cassazione offre l'occasione per una duplice riflessione.

In primo luogo, è il caso di soffermarsi sui rapporti fra la fattispecie di infedeltà patrimoniale ed il delitto di appropriazione indebita, profilo in qualche modo richiamato dalla difesa nell'atto di ricorso.

In proposito, la dottrina prevalente ritiene che l'innegabile diversità strutturale fra due reati andrebbe ricondotta al rapporto di specialità, per la presenza nella fattispecie di cui al codice civile di diversi elementi specializzanti, come i soggetti attivi qualificati, il presupposto attivo della condotta – costituito dal conflitto di interesse -, il dolo specifico di vantaggio ed il dolo intenzionale di danno (ALDOVRANDI, Art. 2634 c.c., in AA.VV., I reati societari, a cura di LANZI –CADOPPI, Padova 2007,207; CIPOLLA, Brevi note in tema di rapporti fra l'appropriazione indebita ed il nuovo reato di infedeltà patrimoniale societaria, in Cass. Pen., 2005, 467). Secondo altra posizione, tuttavia, la differenza andrebbe rinvenuta distinguendo i contesti operativi dei due reati in esame, nel senso che il reato di infedeltà sarebbe configurabile laddove l'amministratore, per perseguire una finalità di profitto, si avvale degli schemi negoziali tipici della gestione di impresa, mentre l'art. 646 c.p. farebbe riferimento ad ipotesi di arbitraria acquisizione dei beni sociali, quando cioè l'amministratore si comporta, con riferimento al patrimonio della società uti dominus, come un qualsiasi ordinario soggetto attivo del delitto di appropriazione indebita (BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni civili, Milano 2006, 201; DI AMATO, Diritto penale dell'impresa, Milano 2003, 178).

La giurisprudenza invece si è pronunciata nel senso dell'esistenza di un rapporto di specialità unilaterale, essendo la previsione di cui all'art. 2634 c.c. speciale rispetto a quella di cui all'art. 646 c.p. che in termini di specialità reciproca o bilaterale, sostenendo in quest'ultimo caso che “le norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale e dell'appropriazione indebita sono in rapporto di specialità reciproca. L'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice "vantaggio" in luogo del "profitto". L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza nell'appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale” (Cass., sez. I, 24 giugno 2004, B., in Dir. Pen. Proc., 2004, p. 1217; Cass., sez. II, 26 ottobre 2005, Pacini Battaglia, inedita).

In secondo luogo, la Suprema Corte, nel confermare la decisione di condanna, afferma la penale rilevanza di condotte dell'amministratore che trasferisca somme di denaro da una società ad un'altra, sostenendo che l'esistenza di un collegamento fra le due persone giuridiche coinvolte renderebbe lecita la sua scelta: secondo la Cassazione, infatti, come si legge nella decisione, “società controllante e società controllata sono entità giuridicamente autonome sia sul piano organizzativo che patrimoniale sicché del tutto ingiustificabili sono eventuali prelievi” effettuati a carico dell'una ed a vantaggio dell'altra.

Si ricorda tuttavia che la possibilità di riconoscere un qualche rilievo all'esistenza, fra le società coinvolte in vicende analoghe a quella decise dalla sentenza in commento, di un collegamento è ammessa dal legislatore ed in particolare quando il reato contestato sia quello di infedeltà patrimoniale. Il terzo comma dell'art. 2634 c.c., infatti, dispone che “non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo”.

La dottrina penalistica per molto tempo ha sollecitato l'adozione di una disciplina in tema di conflitto di interessi nell'ambito dei gruppi di società, giacché già il semplice fatto che la società controllante disponga del potere di nomina degli amministratori della controllata rende pressoché endemica una qualche forma di interessamento di questi ultimi alle vicende della controllante o del gruppo (ACCINNI, Profili penali del conflitto di interessi nei gruppi di società, in Riv. Soc., 1991, 1016; CONTI, Responsabilità penali degli amministratori e politiche di gruppo, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 1995, 445; MILITELLO, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppo come fattore criminogeno, ivi, 1998, 367; PEDRAZZI, Dal diritto penale delle società al diritto penale dei gruppi: un difficile percorso, in Diritto penale, III, Scritti di diritto penale dell'economia, Milano 2003, 827), ma il problema che si poneva era quello di discriminare i casi di utilizzo fraudolento e delittuoso dell'organizzazione societaria di gruppo dai casi in cui le operazioni fra le diverse società collegate rispondevano a finalità lecite e costituivano normale modalità di svolgimento dell'attività commerciale. La dottrina, in proposito, era arrivata a sostenere la necessità di considerare le ordinarie modalità di funzionamento e condotta dei gruppi di società, di modo da verificare effettivamente il grado di compatibilità fra l'interesse della società e l'interesse del gruppo unitariamente considerato: le volte in cui tali interessi non fossero stati in rapporto di elusione, anche alla luce dei vantaggi che la società cui l'operazione ineriva riceveva conseguentemente al soddisfacimento di interessi facenti capo al gruppo o a società collegate, doveva ritenersi insussistente qualsiasi ipotesi delittuosa, ed in particolare la violazione del precetto di cui all'art. 2631 c.c. e la fattispecie di bancarotta fraudolenta (ACCINNI, Profili penali, cit., 1051; BUSSON, Operazioni infragruppo e bancarotta mediante distrazione, in Dir. Pen. Proc., 2001, 762; FOFFANI, Infedeltà,cit., 126).

A tale impostazione aderisce evidentemente anche l'attuale formulazione dell'art. 2634, che accoglie la cosiddetta teoria dei vantaggi compensativi, qualificando come non ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo “se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo”.

La dottrina ritiene che il vantaggio di cui fa menzione la disposizione va riferito solo all'ente danneggiato dalla condotta di infedeltà (CODAZZI, Vantaggi compensativi ed infedeltà patrimoniale (dalla compensazione virtuale alla compensazione reale): alcune riflessioni alla luce della riforma del diritto societario, in Giur. Comm., 2004, II, 610), ma la giurisprudenza è andata in senso contrario sostenendo che “solo ai fini del reato societario di cui all'art. 2634 c.c. il legislatore impone la valutazione degli interessi antagonisti delle società per escludere l'ingiustizia del profitto dell'agente ove il danno della società sacrificata sia compensato da vantaggi conseguiti o fondatemente previsti a beneficio del gruppo stesso” (Cass., sez. V, 24 aprile 2003, Tavecchia, in Giust. Pen., 2004, II, 580).

Quanto alla tipologia di vantaggi cui la norma riconnette rilevanza – e possono avere natura non patrimoniale, purché però funzionali ad utilità economicamente valutabili per la società - non è previsto che essi siano il frutto di una specifica operazione economica o negoziale collegata a quella da cui è derivato il danno in capo alla società svantaggiata; tuttavia occorre far comunque riferimento ad attività già compiute oppure ad operazioni in itinere già programmate, perché altrimenti diventerà difficile prospettare vantaggi conseguiti o vantaggi fondatamente prevedibili.

Per vantaggi conseguiti si fa riferimento ad un dato storico già definito – e quindi anteriore o al più contestuale al compimento del dannoso atto di disposizione patrimoniale, mentre la definizione di vantaggi fondatamente prevedili è decisamente più vaga, tanto che l'espressione viene criticata in quanto allude a fattori di natura soggettiva e psicologica inevitabilmente variabili. Proprio ad evitare una interpretazione eccessivamente largheggiante dell'espressione “vantaggio fondatamente prevedibili”, la giurisprudenza sostiene che “la disposizione del comma 3 dell'art. 2634 c.c., che esclude la configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale, trova applicazione in presenza di concreti vantaggi compensativi dell'appropriazione e del conseguente danno provocato alle singole società, non essendo sufficiente la mera speranza, ma che i vantaggi corrispondenti, compensativi della ricchezza perduta, siano "conseguiti" o "prevedibili" fondatamente e, cioè, basati su elementi sicuri, pressoché certi e non meramente aleatori o costituenti una semplice aspettativa; deve trattarsi, quindi, di una previsione di sostanziale certezza”.

In particolare, due sono i profili che devono essere accertati per riconoscere all'amministratore di una società la sussistenza dei cosiddetti vantaggi compensativi di cui all'art. 2634 c.c.. In primo luogo, se si accerta che l'atto non risponde all'interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell'immediato un danno al patrimonio sociale, il medesimo amministratore deve dimostrare innanzitutto l'esistenza di un gruppo alla luce della quale anche quell'atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi (per l'attribuzione di quest'onere probatorio in capo all'amministratore, Cass., sez. V, 2 ottobre 2017, n. 45288); in secondo luogo deve allegare e provare che gli ipotizzati benefici indiretti della società fallita risultino non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma altresì idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta, in guisa tale da non renderla capace di incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell'agente) sulle ragioni dei creditori della società e ciò in quanto l'interesse che può escludere l'effettività della distrazione non può ridursi al fatto stesso della partecipazione al gruppo, né può identificarsi nel vantaggio della società controllante, perché il collegamento tra le società e l'appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa dalla quale muovere per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l'atto di disposizione del proprio patrimonio perdurando l'autonomia soggettiva delle singole società facenti parte del gruppo (Cass., sez. V, 25 luglio 2016, n. 32131; Cass., sez. V, 8 novembre 2016, n. 46689).

La dottrina, in prevalenza, non condivide tale impostazione di particolare severità assunta dalla giurisprudenza, sostenendo che la valutazione sull'esistenza dei vantaggi fondatamente prevedibili andrebbe comunque condotta mediante un giudizio ex ante di prognosi postuma, in relazione al complesso delle circostanze esistenti al momento del compimento dell'atto di gestione (LEMME, La giurisprudenza apre al gruppo d'impresa, in Dir. Pen. Proc., 2005, 750; MASUCCI, Vantaggi del gruppo e dell'impresa collegata nel governo penale degli abusi di gestione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 885; NAPOLEONI, Geometrie parallele e bagliori corruschi del diritto penale dei gruppi (bancarotta infragruppo, infedeltà patrimoniale e “vantaggi compensativi”), in Cass. Pen., 2005, 3787). All'uopo si suggerisce il ricorso agli indici desumibili dai principi economici – finanziari e statistici, dagli standard di ragionevolezza ed avvedutezza imprenditoriale ovvero all'utilizzo del parametro dell'homo eiusdem professioni et condicionis.

Quanto alla possibilità di fare della previsione di cui all'art. 2634, comma 3, c.c. un'applicazione generalizzata, che trascenda il ristretto ambito della fattispecie d'infedeltà patrimoniale, la giurisprudenza, superando un primo orientamento contrario (Cass., sez. V, 24 aprile 2003, Tavecchia, in Cass. Pen., 2004, 2112; Cass., sez. V, 23 giugno 2003, Sama, ibidem, 457) ed andando incontro agli auspici della dottrina che ha sempre sostenuto con convinzione la possibilità di applicare la previsione in parola ad ogni ipotesi di appropriazione di beni sociali realizzata per finalità vantaggiose per il gruppo, anche per il reato di bancarotta riconosce rilievo all'esistenza, a fronte di fatti distrattivi commessi a vantaggio di una società del gruppo con sacrificio di un'altra persona giuridica collegata, di dirette contropartite "idonea a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell'operazione compiuta" Sostenendo tutta via che per escludere la natura distrattiva di un'operazione infragruppo non è sufficiente allegare tale natura intrinseca, dovendo invece l'interessato fornire l'ulteriore dimostrazione del vantaggio compensativo ritratto dalla società che subisce il depauperamento in favore degli interessi complessivi del gruppo societario cui essa appartiene (Cass., sez. V, 06 dicembre 2011, n. 48518), precisando che (Cass., sez. V, 09 maggio 2012, n. 29036) "in tema di bancarotta fraudolenta, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo gruppo, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l'interessato a dover fornire la prova di tale circostanza" (in proposito BRICCHETTI, Tutela penale dell'impresa: bancarotta e operazioni infragruppo, in Dir. prat. soc., 2007, fasc. 1, 28 ss.. Si vedano anche BRICCHETTI, Bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e operazioni infragruppo, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2009, 1; BENUSSI, La Cassazione ad una svolta: la clausola dei vantaggi compensativi è esportabile nella bancarotta per distrazione, in Riv It. Dir. Proc. Pen., 2007, 424; NAPOLEONI, Geometrie parallele e bagliori corruschi, cit., 3787).

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