Il captatore informatico “entra” nel sistema codicistico: un male necessario?
22 Gennaio 2018
Abstract
Ormai utilizzato da anni, il captatore informatico entra formalmente nel sistema codicistico con il d.lgs. 216/2017. Il decreto si limita a disciplinare un particolare uso del trojan, ossia quello finalizzato a consentire intercettazioni tra presenti a mezzo di installazione su un dispositivo elettronico portatile. Il decreto inserisce il nuovo istituto nel contesto codicistico e detta una serie di disposizioni dirette sulle modalità di utilizzo dello stesso e indirette sulle specifiche tecniche che dovranno caratterizzare i captatori. Introduzione
Con il d.lgs. 216/2017 il Governo ha attuato la delega, prevista dalla l. 103/2017 in tema di intercettazioni. Una delega articolata su più punti, uno dei quali – la disciplina del captatore informatico – rappresenta indubbiamente una delle innovazioni più importanti (o almeno più significative) dell'intera riforma. Riforma che, per altro, in base della disposizione transitoria dell'art. 9 del decreto, sarà applicabile (con esclusione delle intercettazioni nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) solo per provvedimenti autorizzativi emessi dopo il centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del d.lgs. 216/2017. Come è noto, l'utilizzo del cosiddetto trojan – o, appunto, captatore informatico –, pur ampiamente praticato nella realtà investigativa, non era stato in precedenza oggetto di alcuna regolamentazione a livello normativo; uno strumento in grado di offrire un'ampia gamma di funzionalità: la captazione del traffico dati (sia in entrata sia in uscita); l'attivazione della telecamera installata ab origine sul dispositivo; la “perquisizione” degli hard disk; la possibilità di estrarre copia integrale del loro contenuto; l'intercettazione di tutto quanto digitato sulla tastiera; la possibilità di fotografare le immagini ed i documenti visualizzati; oltre che consentire la geo-localizzazione del dispositivo. Soprattutto uno strumento dal cui utilizzo non è più possibile prescindere, in quanto un numero sempre maggiore di comunicazioni ha luogo con modalità criptate, tali da vanificare l'effettuazione di un'intercettazione con forme tradizionali. L'utilizzo dei trojan risulta, pertanto, indispensabile in numerose tipologie d'indagine, tanto da essere considerato non solamente integrativo, quanto sostitutivo dei tradizionali mezzi di ricerca della prova; mezzi che scontano il fatto di essere riferibili a un passato tecnologico inevitabilmente destinato all'obsolescenza anche in chiave giuridica. Un'indagine efficace deve essere svolta con strumenti adeguati al progresso tecnico-scientifico, atteso che frequentemente ormai il grado di capacità tecnica che emerge in vari contesti criminali è direttamente proporzionale alla capacità delinquenziale espressa dai medesimi. In molti casi, l'unico strumento efficace è proprio il trojan o captatore, un programma installato su uno o più dispositivi nella disponibilità del soggetto nei confronti dei quali l'accertamento è diretto; un programma con il quale è possibile monitorare – con modalità occulte e in continuo – sia il flusso di comunicazioni riguardanti sistemi informatici o telematici (compresi chat, sms, messaggi su social network e simili) sia il contenuto dei medesimi, consentendo l'acquisizione, mediante copia, di dati presenti o futuri all'interno delle memorie di un dispositivo informatico. Modalità definite rispettivamente online surveillance e online search. Il quadro giuridico di riferimento, è nondimeno, allo stato incompleto, in quanto, entro trenta giorni dall'entrata in vigore del decreto oggetto di commento è prevista la pubblicazione di un disciplinare tecnico contenuto in un decreto ministeriale. Decreto, quest'ultimo che sarà indubbiamente di particolare interesse tecnico, in quanto solo con lo stesso si potranno comprendere chiaramente le modalità di funzionamento del modulo di acquisizione e le caratteristiche dei programmi di cui le procure della Repubblica disporranno. Con scelta per certi aspetti singolare, il d.lgs. 216/2017 non contiene le due definizioni fondamentali della nuova disciplina: quella di captatore informatico e quella di dispositivo elettronico portatile; l'interprete deve, pertanto, fare riferimento alle indicazioni fornite dalla Suprema Corte (Cass. pen., Sez. unite, 1 luglio 2016, n. 26889); una decisione nella quale il captatore informatico era definito come «un software costituito da due moduli principali: un primo programma di piccole dimensioni che infetta il dispositivo bersaglio e un secondo funzionale a controllare il dispositivo stesso»; software caratterizzato, poi da una serie di potenzialità, quali la captazione traffico dati, l'attivazione di microfoni e webcam, la possibilità di perquisizione e duplicazione delle memorie interne, la visualizzazione di ciò che viene digitato sulla tastiere. Il testo del decreto menziona sempre – e solo – i dispositivi elettronici portatili. Un concetto indubbiamente molto ampio, che copra una gamma vastissima di apparati e un altrettanto vasto range di tipologie di comunicazioni. Nondimeno, resta il problema dell'applicabilità della nuova normativa ai pc “fissi”, che pure restano molto diffusi e che consentono – allo stesso modo – le comunicazioni telematiche (e telefoniche), rispetto alle quali occorre comprendere se siano utilizzabili i captatori informatici. In realtà non possono esservi dubbi sul fatto che il Legislatore ha inteso regolamentare uno solo degli usi del captatore informatico, quale modalità specifica di esecuzione della intercettazioni tra presenti, in relazione esclusivamente i dispositivi elettronici portatili. Nulla ha inteso dire sull'uso dei captatori su pc “fissi” e su funzionalità dei medesimi differenti rispetto alla realizzazione di una intercettazione tra presenti. Devono, pertanto, ritenersi applicabili le indicazioni di carattere generale fornite dalle Sez. unite sul piano strettamente procedurale (esaminate al par. 4.3), laddove, in chiave tecnica, ci si dovrà affidare, quanto ad affidabilità e sicurezza delle attività svolte, ai principi della migliore tecnica disponibile che sino a oggi hanno costituito il punto di riferimento – in assenza di indicazioni normative specifiche – degli operatori del settore. Ciò significa, da un lato, che per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. (e, verosimilmente, anche per i delitti in tema di criminalità organizzata, come precisato dalle Sez. unite) potrà essere disposto l'utilizzo di captatore su un pc. In realtà, anche nelle intercettazioni tra presenti di cui all'art. 266, comma 2, c.p.p. si deve considerare la possibilità di disporre con captatore installato su un pc “fisso”, a condizione che in tale luogo vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa. Le intercettazioni ambientali
Particolare attenzione, nella delega così come nel d.lgs. 216/2017, è attribuita al luogo ove le intercettazioni a mezzo del captatore possono essere disposte. Si tratta della ricaduta in termini normativi del dibattito che aveva trovato luogo in esito alle decisioni al riguardo dalle Sez. unite di cui al punto precedente. La decisione delle Sez. unite (Cass. pen., Sez. unite, 1 luglio 2016, n. 26889) era venuta incontro alle esigenze investigative proponendo un'interpretazione estensiva del concetto di delitti in tema di criminalità organizzata, non rigidamente declinata sul piano normativo. In questo senso, l'uso di intercettazioni captate attraverso i trojan era stato ritenuto legittimo nei procedimenti relativi alla criminalità organizzata, intendendosi per crimine organizzato non soltanto i reati di mafia e terrorismo ma tutti quelli «facenti capo a un'associazione per delinquere, correlata alle attività criminose più diverse». Pertanto, per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, in base alle indicazioni della Suprema Corte avrebbero dovuto intendersi sia quello elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., sia quelli comunque facenti capo a un'associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato, dovendosi ritenersi al riguardo sufficiente la costituzione di un apparato organizzativo, la cui struttura sia tale da assumere un ruolo preminente rispetto ai singoli partecipanti (in questo senso v. Cass. pen., Sez. unite, 11 maggio 2005, n. 17706). L'indicazione della delega, tuttavia, non è stata sintonica rispetto a quella della Suprema Corte; il Legislatore ha stabilito che l'attivazione del dispositivo potrà sempre essere ammessa:
nel rispetto dei requisiti di cui all'articolo 266, comma 1, c.p.p. È stata così esclusa un'interpretazione estensiva del concetto di associazione per delinquere a favore di un richiamo espresso alla categoria di reati di competenza della procura distrettuale. L'art. 4, lett. a), della riforma ha previsto due interventi sull'art. 266 c.p.p., che lo hanno modificato nel senso seguente: «2. Negli stessi casi è consentita l'intercettazione di comunicazioni tra presenti, che può essere eseguita anche mediante l'inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile. Tuttavia, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall'articolo 614 del codice penale, l'intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa. 2-bis. L'intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile è sempre consentita nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater». Una scelta molto chiara, che avrebbe dovuto escludere problemi interpretativi di particolare momento ma che indubbiamente restringe significativamente l'ambito di potenziale applicazione delle nuove disposizioni. Un'indicazione, tra l'altro, che complica non di poco la corretta esecuzione delle attività, laddove esclude aprioristicamente, per tutti i reati non di competenza distrettuale, la possibilità di intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora a mezzo di captatore su dispositivo elettronico portatile, salvo vi sia fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa. L'inserimento del captatore informatico deve essere ricondotto alle modalità di esecuzione delle intercettazioni, disciplinate dall'art. 267 c.p.p.; i risultati delle operazioni devono soggiacere alle stesse regole, sotto lo specifico profilo della tutela della riservatezza sia dei terzi che delle persone coinvolte dall'accertamento penale. La disciplina al riguardo è contenuta, in primo luogo, nell'art. 267 c.p.p., al quale, al comma 1, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il decreto che autorizza l'intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile indica le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini; nonché, se si procede per delitti diversi da quelli di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono». L'autorizzazione all'uso del captatore impone una motivazione “rafforzata”, che dia atto delle necessità di avvalersi di tale strumento. Necessità che, alla luce dell'efficienza criminale dei soggetti destinatari dell'intercettazione o delle condizioni specifiche di tempo e di luogo nella quale la stesse dovrebbe svolgersi, potrebbe rivelarsi non impossibile da esplicitare. L'aspetto maggiormente delicato della norma menzionata è quello che riguarda la preventiva indicazione, nell'autorizzazione (e, dunque, nella richiesta di autorizzazione) dei luoghi e del tempo«anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono». Il Legislatore non ha espressamene richiamato, nel testo approvato, la seguente indicazione delle delega: «l'attivazione del microfono avvenga solo in conseguenza di apposito comando inviato da remoto e non con il solo inserimento del captatore informatico, nel rispetto dei limiti stabiliti nel decreto autorizzativo del giudice». Più che di omissione o dimenticanza, si potrebbe ipotizzare una scelta di sintesi logica. Nel momento in cui il provvedimento di autorizzazione deve necessariamente essere integrato con il dato cronologico e di localizzazione dell'attività, un corretto e puntale rispetto di tali precisazioni non può che avvenire tramite un sistema di attivazione a uomo presente e non in conseguenza del semplice inserimento del captatore sul device. Si tratta di dare concreta attuazione – in particolare in relazione ai tempi e ai luoghi di attivazione della captazione – al progetto investigativo che deve essere indicato dal P.M. e autorizzato dal Gip; progetto che implica l'individuazione anche in forma indiretta dei luoghi in cui si sposterà il dispositivo mobile controllato, e sempre che si proceda «per delitti diversi da quelli di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater». Per questo ultimi, come già precisato, non è ravvisabile alcun problema di specificazione degli ambienti controllati, ravvisabile, al contrario, tutte le volte in cui l'intercettazione debba essere autorizzata in ambito, in senso lato, domestico, a condizione che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa. La previsione dell'attivazione del microfono da remoto sta dunque a significare che, nel rispetto delle indicazioni contenute nel decreto autorizzativo, la captazione delle comunicazioni o conversazioni non può iniziare già dal momento dell'inserimento del captatore informatico. Questa è operazione preliminare necessaria ma non sufficiente per procedere all'ascolto, dovendosi tener conto dei limiti di spazio e di tempo disegnati dal decreto autorizzativo». È, per altro, evidente che la necessità di inserire nella richiesta di autorizzazione alle captazioni anche il menzionato progetto investigativo richiederà un maggiore impegno sia per la P.G. che per il P.M., in quanto il Gip dovrà essere posto nella condizione di effettuare una valutazione sull'idoneità del progetto a assicurare il rispetto delle condizioni di utilizzo del captatore. Solo la prassi applicativa delle nuove disposizioni consentirà di verificare se e in quali termini tale profilo di valutazione potrà determinare specifiche criticità. Le intercettazioni in via di urgenza
La delega in tema di intercettazioni era corredata dall'intervento su alcuni aspetti strettamente procedurali: taluni scontati; altri, al contrario, di grande momento. Tra questi è stata richiamata la possibilità (connaturata al sistema in generale) per il P.M., ove ricorrano concreti casi di urgenza, di «disporre le intercettazioni di cui alla presente lettera, limitatamente ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale, con successiva convalida del giudice entro il termine massimo di quarantotto ore, sempre che il decreto d'urgenza dia conto delle specifiche situazioni di fatto che rendano impossibile la richiesta al giudice e delle ragioni per le quali tale specifica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini» (art. 1, comma 84, lett. e), n. 6), l. 103/2017). Il testo del nuovo art. 267 c.p.p. prevede: «2-bis. Nei casi di cui al comma 2, il pubblico ministero può disporre, con decreto motivato, l'intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile soltanto nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater. A tal fine indica, oltre a quanto previsto dal comma 1, ultimo periodo, le ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice. Il decreto è trasmesso al giudice che decide sulla convalida nei termini e con le modalità indicate al comma 2». La prassi giudiziaria evidenzia con frequenza, in effetti, la necessità di disporre – specie per reati di singolare gravità – intercettazioni in via di urgenza, ossia da avviare in un tempo non compatibile con quello indispensabile alla formulazione e trasmissione della richiesta e alla successiva emissione del provvedimento autorizzativo. In tali casi il P.M. – motivando sulle condizioni previste dall'art. 267 c.p.p. – può disporre l'intercettazione con la procedura ex abrupto. Ai sensi dell'art. 267, comma 2, c.p.p. nei casi di urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, il P.M. dispone l'intercettazione con decreto motivato contestuale e non successivamente modificabile o sostituibile, che va comunicato immediatamente e comunque entro ventiquattro ore al Gip. In relazione alla scelte effettuate dal legislatore delegato, si rileva, non senza stupore, che l'intercettazione in via di urgenza a mezzo di captatore non è prevista per le intercettazioni “ordinarie”, neppure laddove si possa presumere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa; una lacuna – sul piano sistematico – che potrebbe creare, in specifiche quanto delicate situazione investigative, non poche criticità. Non mancano, in effetti, delitti esclusi dal richiamo operato degli artt. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. caratterizzati da una particolare gravità, tali da suscitare un forte allarme sociale e per i quali, pur tuttavia, il P.M. non potrà in tali casi disporre le intercettazioni in via di urgenza con il peculiare strumento tecnico introdotto dalla riforma. L'attuazione della delega impone al P.M. di integrare il provvedimento previsto nei casi ordinari; in questo senso, oltre che sul «fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio per le indagini», il P.M. dovrà altresì motivare il provvedimento (oltre ovviamente con riferimento ai presupposti generali previsti dall'art. 267, comma 1, c.p.p.) con riguardo alle «ragioni di urgenza che rendono impossibile attendere il provvedimento del giudice». Non è semplice distinguere tra le menzionate ragioni di urgenza e le conseguenze gravi e pregiudizievoli dipendenti da un eventuale ritardo. Si tratta, più che altro, di prospettive espressive, più che di differenze sostanziali. Nel primo caso ci si deve soffermare sugli elementi in divenire che possono compromettere le indagini, laddove, nel secondo, l'attenzione dovrebbe concentrarsi sulla rilevanza causale degli elementi che impongono l'urgenza rispetto al conseguimento dell'esito delle investigazioni. Anche senza l'integrazione proposta dalla riforma, nondimeno, sul piano logico sarebbe stato comunque consigliabile, se non necessario, affrontare le due tematiche in una prospettiva unitaria. Di grande rilievo l'indicazione di cui al punto 7 della lett. e) della delega, per la quale, nel disciplinare le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili, il Legislatore delegato avrebbe dovuto assicurare che «i risultati intercettativi così ottenuti possano essere utilizzati a fini di prova soltanto dei reati oggetto del provvedimento autorizzativo e possano essere utilizzati in procedimenti diversi a condizione che siano indispensabili per l'accertamento dei delitti di cui all'articolo 380 del codice di procedura penale». La prima statuizione («i risultati intercettativi così ottenuti possano essere utilizzati a fini di prova soltanto dei reati oggetto del provvedimento autorizzativo»), se attuata letteralmente, avrebbe potuto avere un impatto dirompente sul sistema, in quanto destinata a creare un “doppio binario” in tema di utilizzabilità. In concreto, per le intercettazioni a mezzo di captatore la delega ha escluso la possibilità di utilizzare le stesse – laddove legittimamente disposte e nell'ambito del medesimo procedimento – ove al termine delle indagini risulti modificato il titolo di reato in contestazione, con previsione di reati che non avrebbero consentito tale forma di captazione. Una scelta potenzialmente foriera di ricadute certamente discutibili, considerando che la soluzione prospettata avrebbe determinato l'inutilizzabilità, sulla base di elementi sopravvenuti, di atti perfettamente legittimi al momento della loro autorizzazione. Al riguardo – come già ampiamente trattato al par. 3.3 – si sottolinea che in termini generali devono ritenersi utilizzabili i risultati delle intercettazioni disposte in riferimento ad un titolo di reato per il quale le medesime sono consentite, anche quando al fatto venga successivamente attribuita una diversa qualificazione giuridica, con la conseguente mutazione del titolo in quello di un reato per cui non sarebbe stato invece possibile autorizzare le operazioni di intercettazione (Cass. pen., Sez. I , 20 febbraio 2009, n. 19852; conf. Cass. Pen., Sez. I, 19 maggio 2010, n. 24163; Cass. pen., Sez. VI, 5 aprile 2012, n. 22276). In effetti, sul piano logico-sistematico, non sono facilmente individuabili ragioni per impongano di differenziare, sotto il profilo in oggetto, la disciplina delle intercettazioni a mezzo di captatore rispetto a quelle tradizionali. Il Legislatore delegato ha parzialmente “corretto” l'indicazione fornita dalla l. 103/2017, dando attuazione alla delega nei seguenti termini: «all'articolo 270, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente comma: ‘1-bis. I risultati delle intercettazioni tra presenti operate mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile non possono essere utilizzati per la prova di reati, anche connessi, diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza'.» Si è così proceduto a un sostanziale “cumulo” delle due indicazioni contenuta nella delega; l'elemento di discontinuità, rispetto al sistema, costituito dall'impossibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni a mezzo di captatore a fronte del mutamento del titolo di reato per il quale l'attività era stata autorizzata trova un limite nella condizione generale dell'essere i risultati stessi indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. Una specifica riflessione merita il caso in cui, a seguito di acquisizione di intercettazioni a fronte di un reato riconducibile all'ambito sopra delineato, intervenga una derubricazione del reato in un'ipotesi esclusa da tale ambito. Ipotesi che ben potrà verificarsi anche nei casi disciplinati con la riforma. Per la Suprema Corte, qualora – disposta legittimamente, ai sensi dell'art. 270, comma 1, c.p.p. – l'acquisizione dei risultati di intercettazioni effettuate in altro procedimento, sulla base del riferimento al titolo di reato per il quale si procede, quest'ultimo, a seguito di diversa qualificazione giuridica del fatto, sia stato riqualificato in un altro per il quale l'acquisizione non sia stata consentita, ciò non comporterebbe l'inutilizzabilità dei suddetti risultati, non dandosi luogo, in tale situazione, alla operatività del divieto previsto dall'art. 271, comma 1, c.p.p. per l'ipotesi di intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge (Cass. pen., Sez. VI, 24 giugno 2005, n. 33751). Si potrebbe, pertanto, ritenere che l'utilizzazione in altro procedimento (o, nel caso di specie, per la prova di un differente reato) dei risultati delle intercettazioni non sarebbe preclusa dall'eventuale successiva derubricazione, nel processo ad quem in altra imputazione per la quale non sia prevista l'obbligatorietà dell'arresto in flagranza, perché si tratterebbe di condizione processuale, la cui sussistenza andrebbe accertata nel momento dell'acquisizione (Cass. pen., Sez. II, 9 giugno 2011, n. 25802). Un'interpretazione, tuttavia, che sul piano sistematico potrebbe non essere applicata alle nuove disposizioni, introdotte con la riforma. Sul piano formale, prima della riforma, come precisato dal comma secondo e terzo dell'art. 270 c.p.p., ai fini della utilizzazione delle predette intercettazioni «i verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono depositati presso l'autorità competente per il diverso procedimento. Si applicano le disposizioni dell'art. 268, commi 6, 7 e 8. Il P.M. e i difensori delle parti hanno altresì facoltà di esaminare i verbali e le registrazioni in precedenza depositati nel procedimento in cui le intercettazioni furono autorizzate». Con la riforma, il comma secondo è stato modificato – con un richiamo ai nuovi articoli di riferimento – nei seguenti termini: art. 270, comma 2: «Ai fini della utilizzazione prevista dal comma 1, i verbali e le registrazioni delle intercettazioni sono depositati presso l'autorità competente per il diverso procedimento. Si applicano le disposizioni degli articoli 268-bis, 268-ter e 268-quater». I principi tecnico-operativi indicati dalla delega
Il Legislatore si è fatto espressamente carico di criticità evidenziate da alcune recenti decisioni sul tema e delle perplessità espresse dalla dottrina, con particolare riguardo alla possibilità indiscriminata di captazione, anche in luoghi di privata dimora e in assenza del presupposto della commissione del reato. In questo senso la delega prevedeva:
Un'attività, quindi, definibile a uomo presente; non, pertanto, una semplice attivazione iniziale con conseguente indiscriminato utilizzo ma un controllo costante sul monitoraggio. Inutile dire che tali indicazioni comportano, ove applicate, un dispendio di personale di straordinario rilievo e che le stesse aumentano il rischio che il soggetto intercettato (o qualcuno a lui vicino) possa percepire la presenza della P.G. Due ulteriori indicazioni avevano, poi, una specifica valenza tecnica. In primo luogo, per il trasferimento delle registrazioni, era previsto che sarebbe dovuto essere effettuato «soltanto verso il server della procura così da garantire originalità ed integrità delle registrazioni». La delega aveva inoltre previsto la disattivazione, al termine della registrazione, del captatore informatico; disattivazione che avrebbe dovuto essere completa rendendo il captatore definitivamente inutilizzabile su indicazione del personale di polizia giudiziaria operante. Non si è voluto correre il rischio che captatori possano essere lasciati disattivati ma pronti a essere resi nuovamente operativi sui device dei soggetti intercettati. Analogamente, profili di possibile rischio sul piano tecnologico, in base a quanto precisato dalla l. 103/2017, dovrebbero essere scongiurati dalla previsione di utilizzo in via esclusiva di programmi informatici conformi a requisiti tecnici stabiliti con decreto ministeriale, da emanarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs. 216/2017. In via preliminare, si deve al proposito sottolineare le modalità con le quale è stata data attuazione, in chiave tecnica, alla delega. Al riguardo sono stati inseriti nell'art. 89 disp. att. c.p.p., alcuni commi ulteriori. In primo luogo il comma 2-bis «Ai fini dell'installazione e dell'intercettazione attraverso captatore informatico in dispositivi elettronici portatili possono essere impiegati soltanto programmi informatici conformi ai requisiti tecnici stabiliti con decreto del Ministro della giustizia». Norma che deve essere posta in relazione all'art. 7 del decreto (Disposizioni di attuazione per le intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico e per l'accesso all'archivio informatico): «1. Con decreto del Ministro della giustizia, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono stabiliti i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all'esecuzione delle intercettazioni mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile. 2. I requisiti tecnici sono stabiliti secondo misure idonee di affidabilità, sicurezza ed efficacia al fine di garantire che i programmi informatici utilizzabili si limitano all'esecuzione delle operazioni autorizzate». Il fatto che il Legislatore, visti i tempi di obsolescenza tecnologica, abbia dato tali indicazioni al riguardo è certamente scelta logica e condivisibile. Resta da capire come un decreto da emanare entro una specifica data possa tenere costantemente conto dell'evoluzione della tecnica. Per garantire un'assistenza qualificata costante e dunque il rispetto delle indicazioni contenute nell'autorizzazione, non a caso all'art. 268, al comma 3-bis, è stato aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Per le operazioni di avvio e di cessazione delle registrazioni con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, riguardanti comunicazioni e conversazioni tra presenti, l'ufficiale di polizia giudiziaria può avvalersi di persone idonee di cui all'articolo 348, comma 4».Proprio l'oggettiva difficoltà, in alcune situazione, a garantire un'attivazione tempestiva e puntuale hanno imposto la previsione dell'ausilio tecnico inserite nel decreto attuativo. L'espressa previsione dell'obbligatoria indicazione dei luoghi in cui avviene la captazione è evidentemente funzionale a rendere possibile il controllo della corrispondenza delle attività svolte con il contenuto del decreto di autorizzazione. Il contenuto della delega sul punto è stato completato con la previsione dell'art. 89, comma 1, delle disposizioni di attuazione, che è stato integrato della seguente disposizione: «Quando si procede ad intercettazione delle comunicazioni e conversazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, il verbale indica il tipo di programma impiegato e i luoghi in cui si svolgono le comunicazioni o conversazioni». Nell'ambito dell'art. 5 del decreto (Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) sono state infine apportate una serie di modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 relative alla problematica in oggetto. In particolare, per quel che invece attiene alla disattivazione del captatore, l'articolo 89 novellato riprende fedelmente il contenuto dei criteri di delega, con particolare riguardo alle seguenti indicazioni:
Anche il momento di attuazione dei principi riportati è stato collocato nell'ambito dell'art. 89 disp. att. c.p.p., ai quali sono stati aggiunti i commi 2-ter, 2-quater e 2-quinquies. «2-ter. Nei casi previsti dal comma precedente le comunicazioni intercettate sono trasferite, dopo l'acquisizione delle necessarie informazioni in merito alle condizioni tecniche di sicurezza e di affidabilità della rete di trasmissione, esclusivamente verso gli impianti della procura della Repubblica. Durante il trasferimento dei dati sono operati controlli costanti di integrità, in modo da assicurare l'integrale corrispondenza tra quanto intercettato e quanto trasmesso e registrato. 2-quater. Quando è impossibile il contestuale trasferimento dei dati intercettati, il verbale di cui all'articolo 268 del codice dà atto delle ragioni tecniche impeditive e della successione degli accadimenti e delle conversazioni intercettate. 2-quinquies. Al termine delle operazioni si provvede, anche mediante persone idonee di cui all'articolo 348 del codice, alla disattivazione del captatore con modalità tali da renderlo inidoneo a successivi impieghi. Dell'operazione si da atto a verbale». Si tratta di indicazioni la cui formulazione è espressiva di una duplice preoccupazione. In primo luogo quella connaturata alla natura del captatore (non dimentichiamoci che la stessa relazione illustrativa lo definisce insidioso mezzo) considerato a torto a ragione quasi un male necessario. D'altro, la preoccupazione normata descritta dall'art. 268, comma 3, c.p.p., per il quale «Le operazioni possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica. Tuttavia, quando tali impianti risultano insufficienti o inidonei ed esistono eccezionali ragioni di urgenza, il pubblico ministero può disporre, con provvedimento motivato, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria». Una violazione sanzionata con l'inutilizzabilità dell'art. 271, comma 1, c.p.p. («I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli articoli 267 e 268 commi 1, 1-bis e 3») e la cui valutazione rappresenta uno dei temi sul quali la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi con maggiore frequenza. Per tali ragioni non è stato solo previsto il trasferimento delle captazioni sull'impianto della procura della Repubblica ma lo stesso è stato corredato da verifiche di adeguatezza preventive, contestuali nonché da un obbligo di specifica motivazione laddove l'operazione standard non possa trovare luogo. Una costante preoccupazione che giustifica, infine, anche il disposto dell'art. 89, comma 2-quinquies: ancora una volta, il mezzo insidioso deve essere posto nella condizione di non nuocere e quindi di non potere essere riattivato su device rispetto ai quali l'autorizzazione sia cessata. Una norma più che altro simbolica, atteso che un'eventuale riattivazione non autorizzata avrebbe comunque dato luogo autonomamente non solo all'inutilizzabilità degli esiti delle captazioni, quando anche a conseguenza sul piano disciplinare e penale per gli autori delle condotte. La disciplina della distruzione ex art. 271 c.p.p.
Il Legislatore ha, infine, completato la disciplina in tema di captatori intervenendo sul testo dell'art. 271 c.p.p., in tema di distruzione: «1. I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli articoli 267 e 268, commi 1 e 3. 1-bis. Non sono in ogni caso utilizzabili i dati acquisiti nel corso delle operazioni preliminari all'inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile e i dati acquisiti al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo. […]. 3. In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1, 1-bis, e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato». Sussiste un immediato obbligo di distruzione di quegli esiti di intercettazioni che presentino un vizio tipizzato dal Legislatore, che ovviamente deve essere valutato e colto alla luce della formulazione del primo comma di tale articolo. Il legislatore ha voluto dimostrare tangibilmente – con la previsione di distruzione – la propria percezione del pericolo correlato a uno strumento – quale il captatore – ritenuto tanto indispensabile quanto potenzialmente devastante se non correttamente utilizzato. In generale, con l'art. 271, comma 1, c.p.p. il Legislatore ha stigmatizzato negativamente alcune “patologie” nell'applicazione della disciplina delle intercettazioni in grado di travolgere l'utilizzabilità degli esiti delle stesse. È stata così stabilita l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge – in relazione quindi all'art. 266 c.p.p. – nonché per l'inosservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, c.p.p. A fronte, quindi, dell'accertamento di uno qualsiasi dei casi di inutilizzabilità previsti dall'art. 271 c.p.p.- e dunque anche per le ipotesi introdotte dalla riforma- sussiste per l'organo giudicante, in ogni stato e grado del procedimento, un obbligo di distruzione degli esiti di intercettazioni che presentino tale vizio, salvo che le registrazioni in oggetto costituiscano di per sé corpo di reato al fine di escludere qualunque altra forma di impiego nello stesso processo. Per altro, la distruzione della documentazione delle intercettazioni inutilizzabili presuppone che l'inutilizzabilità sia dichiarata con decisione processualmente insuscettibile di modifiche e, pertanto, non può essere ordinata nel caso in cui detta decisione sia intervenuta nel giudizio abbreviato richiesto solo da alcuni dei coimputati (Cass. pen., Sez. VI, 2 aprile 2009, n. 14461). |