La mancata definitività dell'accertamento societario e la definizione delle singole quote
01 Febbraio 2018
Società con ristretta base azionaria con contenzioso in atto in appello non ancora definito, il socio può discutere l'accertamento con l'Ufficio e trovare un accordo per definire la sua quota?
In materia di società di capitali a ristretta base azionaria, la Cassazione ha affermato che “pur non sussistendo differenza di una società di persone – una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, non può considerarsi illogica – tenuto conto della complicità che normalmente avvince un gruppo così composto – la presunzione (semplice) di distribuzione degli utili extracontabili ai soci” (Corte di Cassazione, sentenza 29 gennaio 2008, n. 1906).
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, nella fattispecie in esame “la prova della distribuzione, o no, degli utili … non potendo essere tratta dai criteri della normalità della gestione sociale (proprio perché l'utile occulto è un indice della situazione di anormalità della gestione rispetto agli esatti criteri determinati dalla legge), può ben darsi, nei casi indicati, mediante elementi presuntivi. Ne consegue, quindi, l'ammissibilità della prova presuntiva della distribuzione di utili sociali extrabilancio, secondo l'insegnamento di questa Corte … restando a carico dei soci, soprattutto se amministratori, la prova della destinazione di detti utili a finalità diversa dalla distribuzione” (Corte di Cassazione, 7 ottobre 1992, n. 10941).
In altri termini, la ristretta compagine sociale fonda già da sé la presunzione semplice della distribuzione di utili non contabilizzati, salva la prova contraria a carico dello stesso socio. E ciò in quanto lo scarso numero dei soci “si converte nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari e nell'onere per il socio di conoscere tali affari; il socio può però fornire la prova dei fatti impeditivi dell'attribuibilità...” (ex multis, tra le pronunce più recenti, Cass. civ. n. 8473/2014, n. 18032/2013 ecc.).
Sotto il profilo dell'onere probatorio la Corte di Cassazione ha inoltre affermato la necessità che il contribuente, per vincere la presunzione, provi che gli utili che si presumono distribuiti siano stati in realtà reinvestiti o accantonati, non risultando sufficiente “la mera deduzione del profilo per cui l'esercizio sociale ufficiale si fosse concluso eventualmente con perdite contabili” (tra le tante, Corte di Cassazione, sentenza 9 luglio 2010, n. 16234, sentenza 17 aprile 2009, n. 9130 e sentenza 16 marzo 2007, n. 6197).
Ne discende che, in assenza di documentazione contabile e di una valida delibera assembleare, la distribuzione dei maggiori utili accertati in capo ai soci “deve presumersi avvenuta nello stesso periodo d'imposta in cui gli utili sono stati conseguiti” (per tutte, Corte di cassazione, sentenza 9 giugno 2009, n. 13223).
In merito alla violazione del divieto della doppia presunzione, la Corte di Cassazione ha da tempo escluso che la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili violi il divieto di presunzione di secondo grado. Ciò in quanto il fatto noto da cui discende la presunzione semplice della distribuzione degli utili sociali ai soci è costituito dal dato oggettivo della ristretta compagine sociale e non dall'accertamento – sia esso condotto con metodo analitico o induttivo – dei maggiori utili sociali che, al contrario, ne costituisce solo il presupposto logico. Più specificamente, la Corte di Cassazione ha ritenuto che in dette fattispecie “il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale” (cfr. ex plurimis, Cass. civ., n. 7418/2011, n. 26428/2010, n. 25337 e 25338/2010 ecc.).
Quanto al rapporto tra accertamento dei maggiori utili in capo alla società e accertamento dei redditi contestati ai soci, la Corte di cassazione, pur escludendo che il primo costituisca il fatto noto su cui fondare la presunzione semplice di cui all'art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973, ha ritenuto che “affinché tale presunzione possa operare occorre, pur sempre, sia che la ristretta base sociale e/o familiare – cioè il fatto noto alla base della presunzione – abbia formato oggetto di specifico accertamento probatorio… – sia che sussista un valido accertamento a carico della società in ordine (nel casodi specie) ai ricavi non contabilizzati, il quale costituisce il presupposto per l‟accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi” (cfr. Cass. civ., 31 marzo 2011, n. 7418).
La mancata definitività dell'accertamento societario non condiziona l'accertamento emesso nei confronti del soci: infatti, in materia di imposte sui redditi, nell'ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale è ammissibile la presunzione di distribuzione ai soci di utili extracontabili ove sussista, a carico della società medesima, un valido accertamento di utili non contabilizzati, che ricorre anche quando esso derivi dalla quantificazione dei profitti contenuta in altra sentenza, pronunziata nei confronti della società, non ancora passata in giudicato (cfr., in senso conforme Cass. civ., 5581/2015).
La spiegazione di una tale conclusione è contenuta nella citata sentenza n. 5581 in cui la Cassazione precisa che la sussistenza di utili extracontabili, in sostanza, costituisce il presupposto non della presunzione di distribuzione degli stessi tra i soci, ma dell'accertamento della concreta percezione di una determinata somma, da ciascun socio, in ragione della sua quota di partecipazione agli utili sociali.
Secondo la Cassazione (cfr. ex multis, Cass. civ. 24572/2015) “l'accertamento tributario nei confronti di una società di capitali a base ristretta, nella specie riferito ad utili extracontabili – costituisce un indispensabile antecedente logico-giuridico dell'accertamento nei confronti dei soci, in virtù dell'unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, con la conseguenza che, non ricorrendo, com'è per le società di persone, un'ipotesi di litisconsorzio necessario, in ordine ai rapporti tra i rispettivi processi, quello relativo al maggior reddito accertato in capo al socio deve essere sospeso ai sensi dell'art. 295 c.p.c., applicabile nel giudizio tributario in forza del generale richiamo dell'art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992” (ora espressamente previsto dall'art. 39, comma 1-bis del D.Lgs. n. 546/1992).
Non siamo però in presenza di un litisconsorzio necessario, previsto dall'art. 14 del D.Lgs. n. 546/1992. Cioè non può dirsi che l'oggetto del ricorso riguardi inscindibilmente società e soci non essendovi una conseguenzialità diretta ed immediata nella tassazione dei soci basata sul presupposto in capo alla società. Cosa invece che si verifica per le società di persone.
Tale soluzione appare coerente con gli stessi principi costituzionali e segnatamente con l'art. 23. Non si vede infatti come si possa esaminare congiuntamente la posizione di soggetti diversi cui la legge non riserva collegamenti. Ben si potrebbe infatti definire in adesione o in conciliazione la posizione della società e proseguire il giudizio sulla posizione dei soci (e viceversa), per i più diversi motivi, anche di mera convenienza. Altra e diversa cosa accade invece per le società di persone per le quali il collegamento esiste in base all'art. 5 del TUIR.
Qualora invece il socio voglia attendere l'esito (definitivo) dell'accertamento societario per determinare il proprio eventuale debito di imposta, potrà richiedere la sospensione del proprio giudizio ex art. 295 c.p.c. (ora art. 39, comma 1-bis del D.Lgs. n. 546/1992), fino a quando non sia definito il giudizio sull'accertamento societario sperando nell'annullamento di quest'ultimo. |