Controlli a distanza: il limite oggettivo invalicabile
22 Febbraio 2018
Un datore di lavoro, avendo subito dei furti di documenti all'interno della propria azienda, aveva installato delle telecamere nascoste nell'ufficio di una lavoratrice al fine di identificare l'autore dei fatti. La donna, dovendosi scoprire le gambe per applicare una pomata curativa a seguito di infortunio al ginocchio, aveva riferito di essersi sentita violata nella propria riservatezza. Il datore, condannato al pagamento di un'ammenda di 600 euro ai sensi dall'art. 171 del D.Lgs. n. 196/2003, ricorreva in Cassazione.
La Corte, nell'analizzare i motivi di ricorso, illustra l'evoluzione normativa in tema di controlli a distanza, richiamando dapprima l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori nella sua versione originaria e contemplando l'art. 114 del D.Lgs. n. 196/2003, per considerare poi l'art. 23 D.Lgs. n. 151/2015) che, riscrivendo il sopracitato art. 4, ha fatto rientrare nell'ambito applicativo della norma anche i “controlli difensivi”, volti all'accertamento delle condotte illecite che non siano meri inadempimenti della prestazione lavorativa, facendo diventare la “tutela del patrimonio aziendale” un valido motivo giustificatore dell'installazione degli apparecchi audiovisivi. La Cassazione ha richiamato, inoltre, quanto disposto in precedenza dalle stesse Sezioni penali (n. 20722/2010; n. 34842/2011; n. 2890/2015), che hanno ammesso la possibilità di effettuare videoriprese nell'esercizio di un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da condotte scorrette dei lavoratori, consentendone l'utilizzabilità dei risultati in sede di processo penale. Chiamata a decidere sulla questione, la Corte ha stabilito che i “controlli difensivi", posti in essere dal datore mediante l'installazione di apparecchiature nei luoghi di lavoro, possono essere effettuati solo se la videoripresa non è mirata a verificare l'espletamento dell'obbligazione derivante dal contratto di lavoro e avviene nel rispetto del principio di libertà e dignità del lavoratore, che costituisce un “limite oggettivo invalicabile all'esercizio incondizionato del diritto del datore di lavoro a tutelare il patrimonio aziendale”.
Alla luce di queste motivazioni la Cassazione ha rigettato il ricorso del datore. |