Sanzioni disciplinari e Corte EDU: rapporto tra procedimento disciplinare e penale e limiti applicativi del ne bis in idem

Sabrina Apa
13 Marzo 2018

Avuto riguardo ai criteri indicati dalla Corte di Strasburgo, richiamati anche nelle pronunce della Corte Costituzionale, deve escludersi che le sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro abbiano natura penale ai fini dell'applicazione dell'art. 4 del Protocollo 7 perché il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell'autorità pubblica e, nei rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165/2001, ha natura privatistica-contrattuale. La sanzione disciplinare, infatti, è strettamente correlata al potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell'impresa o dell'ente, potere che comprende in sé quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento contrattuale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l'interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto.
Massima

Avuto riguardo ai criteri indicati dalla Corte di Strasburgo, richiamati anche nelle pronunce della Corte Costituzionale, deve escludersi che le sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro abbiano natura penale ai fini dell'applicazione dell'art. 4 del Protocollo 7 CEDU perché il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell'autorità pubblica e, nei rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165/2001, ha natura privatistica-contrattuale. La sanzione disciplinare, infatti, è strettamente correlata al potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell'impresa o dell'ente, potere che comprende in sé quello di reagire alle condotte del lavoratore che integrano inadempimento contrattuale. La previsione della sanzione disciplinare non è posta a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l'interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto.

Il caso

Il lavoratore, collaboratore amministrativo dell'Asl, era stato sottoposto a procedimento penale per i reati di truffa aggravata e di peculato sul presupposto di aver falsamente attestato la presenza in servizio del figlio, anch'egli dipendente, e di essersi appropriato della somma di € 592,80 per riparare la propria autovettura. L'Asl veniva portata a conoscenza dei fatti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino attraverso la trasmissione di copia della sentenza di primo grado, non definitiva, con la quale il lavoratore era stato ritenuto colpevole dei reati ascrittigli.

L'ufficio per i procedimenti disciplinari dell'azienda (U.P.D.) sottoponeva a vaglio critico le prove raccolte in sede penale, aprendo un procedimento disciplinare poi conclusosi, nel rispetto del termine di 120 giorni previsto dall'art. 55-bis, D.Lgs. n. 165/2001, (rilevando a tal fine la data di adozione dell'atto e non quella della comunicazione al dipendente), con l'irrogazione della sanzione espulsiva. Il giudice di prime cure riteneva legittimo il licenziamento disciplinare intimato al dipendente dall'Asl. Il lavoratore proponeva appello alla Corte distrettuale, la quale, ritenendo infondati i motivi di reclamo, osservava che doveva escludersi l'eccepita genericità della contestazione perché l'Azienda aveva richiamato le condotte addebitate in sede penale ed aveva allegato alla missiva il testo integrale della sentenza del Tribunale di Torino. La Corte d'Appello precisava altresì che non era stato in alcun modo leso il diritto di difesa dell'incolpato perché nel corso dell'audizione il lavoratore, invitato ad esaminare gli atti del procedimento, aveva dichiarato di essere già in possesso della documentazione acquisita dall'ufficio. Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione sulla base di cinque motivi, l'Azienda Sanitaria Locale resisteva con controricorso.Il ricorso veniva rigettato.

La questione

Il caso in esame consente di riflettere sulla natura della sanzione espulsiva emessa all'esito di un procedimento disciplinare avente ad oggetto la valutazione di prove raccolte nel processo penale a carico del lavoratore. Il discorso si inserisce all'interno della più vasta e complessa questione del rapporto tra procedimento penale e disciplinare, e dell'analisi dei confini applicativi del ne bis in idem, derivando da quella che attenta dottrina (Tenore) ha definito la “plurima valenza patologica” che può rivestire la condotta illecita tenuta dal lavoratore, rectius, dal pubblico dipendente, la quale, in virtù del principio di plurioffensività, può assumere rilievo oltre che nel settore disciplinare, anche nell'ambito civile, penale ed in quello amministrativo-contabile. In particolare, la dicotomia tra illecito disciplinare e penale, che qui interessa, è indice del fatto di come il primo presenti presupposti e contenuti diversi, potendo configurarsi anche laddove il comportamento del lavoratore non integri reato. A riguardo preme subito rilevare come, venuta meno la cd. pregiudiziale penale, risulti regolato per legge il possibile conflitto tra gli esiti dei procedimenti, in virtù dell'art. 55-ter, D.lgs. n. 165/2001, con la conseguenza che l'amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, e di avvalersi dei medesimi atti, in sede d'impugnativa giudiziale, al fine di dimostrare la fondatezza degli addebiti. Invero siffatta utilizzabilità, sottolinea la Suprema Corte, prescinde dalla formazione del giudicato in sede penale, potendo, il giudice del lavoro, fondare il proprio convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche qualora sia mancato il vaglio critico del dibattimento, posto che la parte può sempre contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti acquisiti in sede penale (Cass. civ., sez. lav., n. 5317/2017 che richiama Cass. civ., sez. lav., n. 2168/2013 e Cass. civ., sez. lav., n. 132/2008 e, in relazione alla utilizzabilità nel giudizio civile della consulenza tecnica disposta nel corso delle indagini preliminari, Cass. civ., n. 15714/2010).

Per procedere all'analisi del caso in esame, deve esaminarsi la quinta censura sollevata dal ricorrente, il quale, prospettando la questione di legittimità costituzionale degli artt. 55, 55-bis e 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001 per violazione dell'art. 117 Cost. in relazione all'art. 4, Prot. n. 7 CEDU, richiama la giurisprudenza della Corte di Strasburgo per sostenere che il procedimento disciplinare avviato in relazione ai fatti oggetto del processo penale avrebbe violato il principio del ne bis in idem. Sul punto la Cassazione osserva che tale questione di legittimità costituzionale, oltre a non risultare rilevante nella fattispecie, nella quale non si è formato alcun giudicato sulla responsabilità penale, appare anche manifestamente infondata. In proposito, richiamando il disposto dell'art. 4, Prot. n. 7 CEDU, secondo cui «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato», la Suprema Corte precisa che la norma fa riferimento alle sanzioni penali e che con tale locuzione devono intendersi, secondo la giurisprudenza della Corte Europea, oltre a quelle espressamente qualificate penali dai singoli ordinamenti, le sanzioni che realizzano la medesima funzione della pena. A riguardo deve osservarsi che la Corte EDU si è occupata di determinare l'esatta definizione del concetto di matière pénale, pervenendo a nuove soluzioni interpretative con riferimento alle nozioni di reato e pena. Sul punto la stessa Corte Costituzionale ha sottolineato che la Corte di Strasburgo ha individuato tre figure sintomatiche della natura penale di una sanzione (i c.d. criteri "Engel"): la qualificazione dell'illecito operata dal diritto nazionale; la natura della sanzione, alla luce della sua funzione punitiva-deterrente; la sua severità, ovvero la gravità del sacrificio imposto (Engel c. Olanda, 8 giugno 1976; i principi da essa enunciati sono stati confermati successivamente: Adolf c. Austria, 26 marzo 1982, par. 30; Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, par. 27; Lutz c. Germania, 25 agosto 1987, par. 54; Òzturk c. Germania, 21 febbraio 1984, par. 50; Putz c. Austria, 22 febbraio 1996, par. 31; Pierre-Bloch c. Francia, 21 ottobre 1997, par. 54; Garyfallou AEBE c. Grecia, 24 settembre 1997, par. 32; Corte cost. n. 276/2016). A riguardo i giudici di legittimità evidenziano che nell'applicare il criterio sostanziale, la Corte di Strasburgo ha valorizzato fattori diversi, affermando la natura penale nei casi in cui la norma sanzionatoria non sia diretta soltanto ad uno specifico gruppo o categoria, bensì presenti un carattere vincolante erga omnes, ove l'applicazione della misura sia riservata ad una pubblica autorità dotata per legge di poteri autoritativi; laddove la norma giuridica svolga una funzione deterrente oltre che repressiva; nonché nel caso in cui altri Stati membri classifichino la responsabilità della quale si discute come penale.

Le soluzioni giuridiche

Al fine di meglio comprendere l'esatta portata che assume la nozione di sanzione penale, risulta centrale richiamare alcuni casi emblematici. In primo luogo non può non farsi riferimento alla pronuncia “Grande Stevens ed altri contro Italia” (Corte EDU, 4 marzo 2014, C-18640/10), con la quale la Corte EDU ha dichiarato la violazione dell'art. 4, Prot. 7 CEDU, rilevando la natura penale delle sanzioni pecuniarie inflitte dalla Consob (punti da 94 a 101), e così desumendo che, divenute definitive le condanne inflitte dall'autorità amministrativa, «i ricorrenti dovevano essere considerati come "già condannati per un reato a seguito di una sentenza definitiva" ai sensi dell'articolo 4 del Protocollo n. 7» (punto 222). Sempre a titolo esemplificativo, ma in senso contrario, deve richiamarsi la decisione (Corte EDU, 13 settembre 2007, Moullet France) con la quale la Corte europea ha ritenuto che, eccetto che per i regimi disciplinari che prevedono sanzioni restrittive della libertà personale, la responsabilità disciplinare non risulta assimilabile a quella penale, negando conseguentemente carattere di natura penale alla sanzione del “collocamento a riposo”, e chiarendo come la pensione obbligatoria sia la più dura misura sulla scala delle sanzioni disciplinari, ma compendi una sanzione caratteristica di un illecito disciplinare, non potendo essere confusa con una sanzione penale.

Conforme all'orientamento della Corte EDU sembra anche la giurisprudenza di legittimità, la quale da un lato ha ricondotto nell'alveo del diritto civile le sanzioni disciplinari inflitte dagli ordini professionali, (Cass. civ., sez. II, n. 9041/2016; Cass. civ., n. 2927/2017), e, dall'altro, ha autorevolmente escluso che nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati il giudicato penale di condanna con pena accessoria dell'estinzione del rapporto di impiego, impedisca la prosecuzione del procedimento disciplinare e l'irrogazione della sanzione della rimozione (Cass. civ., S.U., n. 4004/2016). In proposito va notato che l'inserimento del procedimento disciplinare nell'alveo della “materia penale” determinerebbe l'applicazione dei principi relativi al giusto processo di cui all'art. 6 CEDU, con tutte le garanzie proprie del processo penale, e con la conseguenza che un soggetto assolto o condannato con sentenza definitiva non potrebbe essere nuovamente perseguito per lo stesso fatto in virtù del divieto di ne bis in idem.

Nel caso in esame, sulla scorta dei criteri indicati dalla Corte europea, la Cassazione si pronuncia negativamente in ordine alla natura penale delle sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro, osservando che il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell'autorità pubblica, rivestendo nei rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165/2001 natura privatistica-contrattuale. Invero, la sanzione disciplinare risulta strettamente correlata al potere direttivo del datore di lavoro, quale potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell'impresa o dell'ente, potere che racchiude al suo interno anche quello di reagire alle condotte del lavoratore integranti inadempimento contrattuale. A riguardo la giurisprudenza di legittimità fa leva sulla diversa finalità che orienta la sanzione penale rispetto a quella disciplinare, precisando come quest'ultima non funga da presidio ad interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolva alla funzione preventiva propria della pena, perseguendo, invece, solo l'interesse datoriale al corretto adempimento delle obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro. Dunque, stante la diversità ontologica che caratterizza la natura della sanzione disciplinare, nonché l'autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, la Suprema Corte statuisce che il lavoratore, condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato, non possa invocare l'art. 4, Prot. 7 CEDU al fine di sottrarsi al procedimento disciplinare che il datore di lavoro abbia avviato in relazione ai fatti contestati in sede penale. Invero, nel caso di specie non risulta operante il divieto di ne bis in idem, dal momento che lo stesso ha trovato applicazione fra procedimenti disciplinari avviati per le medesime condotte, non già fra processo penale e procedimento disciplinare (Cass. civ., sez. lav., n. 20429/2016; Cass. civ., sez. lav., n. 22388/2014), trattandosi in quei casi dell'attivazione di un nuovo procedimento disciplinare in relazione ad addebiti già sanzionati dal datore di lavoro.

Osservazioni

Con riferimento al funzionamento del procedimento disciplinare presso la p.a., va osservato l'atteggiarsi in termini di obbligatorietà dell'azione disciplinare (art. 55-sexies, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), in conformità ai principi costituzionali di buon andamento e legittimità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.), a differenza della discrezionalità che connota l'azione disciplinare nell'impiego privato. Sul punto la Suprema Corte rileva che l'art. 55-bis, comma 4, D.Lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, prevede che l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari «contesta l'addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2», ossia «con l'atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione». In proposito la giurisprudenza ha precisato che la comunicazione all'interessato dell'atto sanzionatorio, per sua natura recettizio, si colloca al di fuori del procedimento disciplinare, riguardando esclusivamente la fase successiva di perfezionamento e di efficacia nei confronti del destinatario della sanzione medesima, e non assume rilievo ai fini del rispetto del termine di decadenza (Cass. civ., sez. lav., n. 5637/2009). Tale principio, recentemente ribadito (Cass. civ., sez. lav., n. 16900/2016, Cass. civ., sez. lav., n. 19183/2016, Cass. civ., sez. lav., n. 5317/2017), costituisce applicazione della regola più generale secondo la quale «la decadenza è impedita dal compimento di un atto tipico entro un termine determinato: se l'atto ha carattere recettizio, la sua conoscenza (o conoscibilità) da parte del destinatario rileva, esclusivamente, ai fini della produzione degli effetti tipici dell'atto, a meno che essa non sia prevista, nella fonte che contempla la decadenza (legale, o negoziale, o provvedimentale), come elemento costitutivo della fattispecie impeditiva» (Cass. civ., S.U., n. 8830/2010). Nel caso di specie la Suprema Corte sottolinea che la disciplina fa coincidere la conclusione del procedimento con l'adozione dell'atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione e non prevede che quest'ultima debba essere portata a conoscenza dell'interessato entro il termine di decadenza, per cui l'effetto impeditivo si produce con la formazione dell'atto, a prescindere dalla sua successiva comunicazione. A riguardo la Cassazione rileva che la Corte distrettuale aveva correttamente applicato i principi di diritto sopra richiamati, avendo evidenziato, con ampia ed articolata motivazione, che gli elementi di prova raccolti in sede penale erano stati sottoposti a vaglio critico dall'U.P.D. che, nell'irrogare la sanzione espulsiva, aveva confrontato i dati riportati nei fogli di presenza con i tabulati dell'utenza in uso al figlio del lavoratore, dai quali era emerso che quest'ultimo risultava formalmente al lavoro mentre si trovava in altre località; aveva analizzato le dichiarazioni rese in sede penale dal teste, nonché considerato anche il comportamento tenuto dall'incolpato, il quale non aveva mai contestato nella loro materialità i fatti addebitatigli. In altre parole, la Corte territoriale aveva sottolineato che la sanzione espulsiva del datore di lavoro trovava fondamento non già nella sentenza di condanna, sic et simpliciter, bensì negli atti di indagine compiuti nel corso del procedimento penale, ritenuti sufficienti per dimostrare le condotte di rilievo disciplinare addebitate al lavoratore.

In conclusione sembra opportuno esaminare, sia pur brevemente, la portata del diritto di difesa del lavoratore in ambito disciplinare. Premesso che nel caso di specie attraverso la produzione degli atti di indagine compiuti in sede penale «il datore di lavoro aveva assolto all'onere della prova sullo stesso gravante, perché legittimamente erano stati acquisiti gli atti del processo penale e perché il lavoratore quanto ai fatti addebitatigli non aveva mosso alcuna contestazione, preferendo rimare silente», - la Cassazione ha osservato che «il mancato esercizio del diritto di difesa in sede disciplinare (nella specie per mancanza di una effettiva ed adeguata contestazione degli addebiti), non può considerarsi come ammissione dei fatti contestati da parte del lavoratore ex art. 416 c.p.c., e quindi non può impedirgli il pieno diritto di azione in sede processuale» (Cass. civ., sez. lav., n. 19697/2016). Sul punto la Suprema Corte ha precisato altresì che, attraverso il richiamo alla motivazione di Cass. civ., sez. lav., n. 3604/2010, in sede giudiziale «la parte cui sia stato mosso un addebito riferito a fatti circostanziati non può limitarsi ad una contestazione generica, ma deve rispondere a sua volta in maniera specifica, contrapponendo specifici elementi diversi tali da escludere l'esistenza di quegli posti a base dell'addebito» (Cass. civ., sez. lav., n. 3604/2010). La Cassazione ha ribadito che il canone della specificità, nella contestazione dell'addebito, non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell'accusa nel processo penale, dovendo così ritenersi ammissibile la contestazione per relationem, in quanto consente all'incolpato l'esercizio del diritto di difesa, ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell'interessato, perché emersi nel contraddittorio con lo stesso, come accade nei casi in cui il procedimento disciplinare venga attivato in relazione a condotte già emerse in sede penale (Cass. civ., sez. lav., n. 11868/2016, Cass. civ., sez. lav., n. 10662/2014, Cass. civ., sez. lav., n. 5115/2010). Dunque, secondo la Corte, non può sostenersi che il rinvio non sarebbe ammissibile nei casi in cui il processo penale sia ancora in corso perché la non definitività della sentenza penale di condanna è ostativa alla applicabilità delle norme volte a disciplinare il rapporto fra giudicati, ma non rileva ai fini della specificità della contestazione in quanto il fatto è specifico se esattamente individuato nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi non già se definitivamente accertato in sede giudiziale.

Guida all'approfondimento
  • V. Tenore, Illecito penale e procedimento disciplinare, in Noviello-Tenore, La responsabilità e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, 2002, p. 278.
  • V. Tenore, Considerazioni sui possibili (ma non operanti) riflessi della sentenza CEDU 4 marzo 2014 “Gabetti-Grande Stevens” sulla cumulabilità della sanzione disciplinare con quella penale in LexItalia.it - Rivista di diritto pubblico.
  • S. Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, art. 2106, in Schlesinger (diretto da), il Codice civile, commentario, Giuffrè, 2002.
  • Aran (2016), Il procedimento disciplinare dei dipendenti pubblici fra modifiche legislative e giurisprudenza della Corte di Cassazione 2015/2016, Aran, Occasional paper 6/2016.
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