Il ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue: “così è se vi pare” (o almeno se così riterrà il singolo giudice nazionale)
Ciro Santoriello
23 Aprile 2018
L'art. 4 protocollo n. 7 integrativo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per ...
Abstract
L'art. 4 protocollo n. 7 integrativo della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».
Medesimo principio è presente nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il cui art. 50 prevede che «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».
Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'impostazione iniziale …
La ricostruzione dell'ambito e dei presupposti di operatività del principio del ne bis in idem è stata, ovviamente, principalmente operata dalla stessa Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, nell'interpretazione del citato articolo 4 della Convenzione europea, ha per lungo tempo insistito per un deciso ampliamento dell'ambito di applicazione dello stesso, sostenendo che, in presenza di due presupposti – a) la natura sostanzialmente penale di entrambe le sanzioni inflitte o da infliggersi; b) la presa in considerazione da parte dell'ordinamento nazionale di un medesimo fatto storico considerato nelle sue coordinate spazio-temporali – l'inizio (o la prosecuzione) di un successivo procedimento dopo che il primo fosse giunto a una pronuncia definitiva avrebbe automaticamente costituito una violazione dell'art. 4 prot. 7 Cedu.
In proposito, con riferimento alla nozione di stesso fatto i giudici di Strasburgo – diversamente da quanto sostenuto dalla nostra Cassazione che pare richiedere perché possa parlarsi di violazione del principio del ne bis in idem che le vicende per cui si procede siano completamente sovrapponibili in tutti i suoi elementi per cui è necessario che fra i fatti per cui si procede vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. pen., Sez. III, 20 luglio 2015 n. 31378; Cass. pen., Sez. II, 22 giugno 2015, n. 26235; Cass. pen., Sez. VI, 23 luglio 2014, n. 32715) – hanno da sempre ribadito che l'articolo 4 del protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito» nella misura in cui alla base di quest'ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi (Cfr. Cedu, Grande Camera, Sergueï Zolotoukhine c. Russia, n. 14939/03). Ciò significa dunque che perché vi sia identicità del fatto perseguito dal medesimo ordinamento in sedi diverse – non è necessaria una identità delle accuse in tutti i loro elementi ma più semplicemente – che i fatti ascritti al soggetto giudicato in più procedimenti siano riconducibili alla stessa condotta.
Detto in breve, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, perché non possa dirsi violato il principio del nebis in idem non è sufficiente che sui fatti oggetto di diversi procedimenti corra una diversità quale che essa sia ma occorre che vi sia una radicale distinzione fra le condotte sottoposte a giudizio, nel senso che esse non offendano il medesimo bene giuridico, abbiano una diversa connotazione naturalistica, si collochino in ambiti temporali diversi, siano diverse le persone fisiche sottoposte a giudizio.
In secondo luogo – anche in questo caso in maniera diversa rispetto a quanto sostenuto dalla Cassazione, secondo cui il principio del ne bis in idem si riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l'ipotesi dell'applicazione congiunta di una sanzione penale e di una sanzione amministrativa – la giurisprudenza Cedu, pur riconoscendo che è consentito il concorso tra una sanzione penale e una di diversa tipologia (ad esempio amministrativa o fiscale), afferma che per escludere la natura penale di una sanzione non è sufficiente che essa sia qualificata come non penale dal diritto interno, occorrendo viceversa riguardare la natura in sé della sanzione, nonché il grado e la severità con cui la stessa può essere applicata. In sostanza, la Corte europea da tempo utilizza una nozione sostanziale di materia penale e, dunque, di reato e di pena, escludendo rilievo alla circostanza che l'illecito o la misura sanzionatoria siano o meno considerati come reato o come pena nel singolo ordinamento nazionale: lo scopo della nozione sostanziale di materia penale accolto dalla Corte europea è, infatti, assicurare la massima estensione delle garanzie convenzionali annullando gli effetti di un'eventuale “frode delle etichette” (Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi).
In particolare, per quanto concerne la nozione di pena, i giudici di Strasburgo riconoscono speciale importanza al legame della misura applicata o applicanda con la condanna per un'infrazione e alla natura e allo scopo della misura stessa, che deve essere punitivo (o repressivo) e dissuasivo, invitando poi anche a valutare quale sia la gravità della misura nazionale – nel senso che la sua particolare afflittività obbligherebbe l'interprete ad attribuire alla stessa la qualifica di sanzione criminale (Corte dei diritti dell'uomo n. 307 del 9 febbraio 1995 Welch v. Regno Unito nonché 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia).
… e dopo la decisione A e B c. Norvegia
Questo quadro della giurisprudenza di Strasburgo è però significativamente mutata dopo la pronuncia della stessa Corte europea dei diritti dell'uomo A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016, la quale, accanto ai presupposti già citati inerenti l'identità del fatto storico e la natura sostanzialmente penale delle sanzioni in questione, ha introdotto un nuovo presupposto, sostenendo che la violazione del divieto del bis in idem non sussiste comunque qualora i procedimenti in questione presentino, avendo riguardo alle peculiarità dei casi di specie, una «sufficiently close connection in substance and time» ovvero i due procedimenti siano avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto.
Con questa decisione, la Corte Edu ha in primo luogo profondamente modificato la natura del principio del ne bis in idem. Prima della pronuncia in parola, infatti, l'art. 4 del protocollo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo doveva ritenersi violato per il solo fatto che il medesimo soggetto venisse sottoposto due volte a un processo, di natura sostanzialmente penale, per lo stesso fatto e ciò a prescindere che lo stesso venisse poi condannato in entrambe le occasioni; di contro, dopo la sentenza A e B c. Norvegia il divieto di bis in idem ha assunto una natura, per così dire, di carattere sostanziale, giacché tale divieto non può oggi dirsi violato se la risposta sanzionatoria, derivante dal cumulo delle due pene inflitte nei diversi procedimenti, appaia comunque complessivamente proporzionata alla gravità dei fatti.
Sulla scorta di questa considerazione la Corte europea, e questo è il secondo profilo rilevante della pronuncia in parola, ha rimesso ai singoli giudici nazionali l'individuazione di eventuali violazioni dell'art. 4 protocollo 7 più volte citate. Infatti, mentre secondo la giurisprudenza precedente si era in presenza di un'osservanza del divieto di bis in idem per il solo fatto che un soggetto era sottoposto a processo per un medesimo fatto, dopo la pronuncia della A e B contro Norvegia il giudice, prima di riscontrare tale violazione, dovrà verificare a) se i due procedimenti perseguono scopi differenti ed esaminano profili diversi della medesima condotta antisociale; b) se la normativa nazionale rendeva prevedibile lo svolgimento di un doppio giudizio; c) se i due procedimenti sono stati condotti in modo da evitare, per quanto possibile, la duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova in conseguenza di un collegamento di natura cronologica fra i procedimenti; d) se la pena risultante dalle sanzioni applicate al termine dei due processi risulti proporzionata; e) se le fattispecie oggetto dei due procedimenti appartengano al ‘nucleo duro' del diritto penale e siano caratterizzate da forme accentuate di stigma sociale.
In conclusione, l'attuale approdo della giurisprudenza di Strasburgo è nel senso che nessuna conseguenza in ordine alla violazione del principio del ne bis in idem può essere tratta dal fatto che per un medesimo episodio il presunto responsabile sia sopposto ad un due distinti procedimenti, entrambi finalizzati a infliggere una sanzione di natura sostanzialmente penale. La violazione, o meno, del bis in idem è infatti rimessa all'apprezzamento del singolo giudice procedente, che dovrà verificare o meno la sussistenza di una connessione temporale e sostanziale sufficientemente stretta fra i procedimenti in questione (il profilo di novità di tale giurisprudenza è stato prontamente colto anche dalla nostra Corte costituzionale, la quale con la sentenza n. 43 del 24 gennaio 2018 ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo che aveva denunciato l'art. 649 c.p.p. nella parte in cui tale disposizione non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell'imputato al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell'ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione di carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dei relativi Protocolli, onde consentirgli di valutare se la questione mantenesse una sua rilevanza dopo la decisione della Grande Camera sovra menzionata).
Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue e le tre decisioni della Grande Sezione del 20 marzo 2018
Come detto, il principio del ne bis in idem non è presente solo nella Carta dei diritti dell'uomo ma compare anche nell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
L'interpretazione di tale disposizione, ovviamente, è rimessa principalmente alla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, la quale tuttavia ha da sempre orientato la sua lettura in maniera conforme agli insegnamenti dei giudici di Strasburgo in relazione all'art. 4 prot. 7 Cedu e d'altronde, laddove la Carta fondamentale dei diritti dell'Unione europea contenga diritti corrispondenti a quelli previsti dalla Carta europea dei diritti dell'uomo l'art. 52 impone che il significato e la portata degli stessi siano uguali a quelli conferiti nella seconda Convenzione. Alla luce dei richiami che la Corte di giustizia Ue ha fatto spesso, nella presente materia, alle conclusioni assunte dalla Cedu vi era una grande attesa da parte degli operatori del diritto per comprendere quale sarebbe stato l'atteggiamento della Corte di giustizia dopo il revirement operato con la più volte citata sentenza A e B c. Norvegia.
A circa un anno e mezzo dalla decisione innovativa dei giudici di Strasburgo la Corte di giustizia si è trovata a pronunciarsi sul principio del ne bis in idem, peraltro con specifico riferimento ai rapporti fra la Carta dei diritti fondamenti dell'Unione europea e l'ordinamento italiano che, come è noto, prevede in relazione a diverse ipotesi un doppio binario. In particolare, il 20 marzo 2018 la Corte di Lussemburgo ha pronunciato tre decisioni – originate per l'appunto da rinvii pregiudiziali di giudici italiani – che inerivano rispettivamente il tema del doppio binario sanzionatorio in materia di a) reati tributari con specifico riferimento al delitto di cui all'art. 10-bis d.lgs. 74/2000 (causa Menci, C-524/15); b) fattispecie di market abuse in relazione all'illecito qualificato come amministrativo d all'art. 187-ter d.lgs. 58/1998 e al delitto di manipolazione di mercato di cui all'art. 185 del medesimo decreto legislativo (causa Garlsson Real Estate e a., C-537/16); c) reato di abuso di informazioni privilegiate di cui all'art. 184 d.lgs. 58 del 1998 e sanzioni inflitte dalla Consob ai sensi dell'art. 187-ter del medesimo testo normativo (cause Di Puma, C-596/16, e Zecca, C-597/16).
Come vedremo le decisioni presentano fra loro profili di differenza significativi anche se sono presenti alcune indicazioni di carattere generale, che evidenziano i presupposti indefettibili senza i quali non è dato nemmeno ipotizzare una violazione del divieto di bis in idem. In particolare, tanto il concetto di sanzione penale che quello di idem factum sono assunti dalla medesimo significato loro conferito dalla giurisprudenza di Strasburgo, per cui il concetto di idem factum va riferito al fatto storico in sé considerato e non alla sua qualificazione giuridica (sul punto, specificamente, Menci §§ 34-39 e Garlsson Real Estate §§ 36-41) mentre la natura penale di una sanzione viene ricavata dalla sua natura afflittiva o meno nel senso che tanto è più gravosa la misura applicata al singolo tanto più difficile è negarne la natura penale (Menci §§ 26-33 e Garlsson Real Estate §§ 28-35).
Tuttavia, la Corte di giustizia si allontana in modo significativo dalla riflessione condotta dalla Corte europea affermando chiaramente che il diritto eurounitario non consente di rinvenire immediatamente una violazione del principio del ne bis in idem nell'ipotesi di cumulo di sanzioni sostanzialmente penali relative allo stesso fatto storico e ciò in quanto il diritto a non essere processato due volte per il medesimo fatto può, nell'ambito dell'Ue, essere sottoposto a limitazioni sulla scorta di quanto previsto dall'art. 52 § 1 C.D.F.Ue, a mente del quale «eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
È questo, riteniamo, il punto centrale delle tre decisioni in commento. Il principio del ne bis in idem nell'ambito del diritto dell'Unione può ben trovare limitazioni e quindi è assolutamente possibile per un ordinamento nazionale sottoporre ad una duplice sanzione una medesima condotta illecita, sempre che – aggiunge la Corte di Giustizia – che le sanzioni:
siano finalizzate – nel rispetto del principio di proporzionalità – a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare il cumulo;
siano previste da regole chiare e precise, tali da rendere prevedibile il ricorso ad un sistema di doppio binario sanzionatorio;
sia garantito un coordinamento fra i due procedimenti relativi all'idem factum, in modo da limitare il più possibile gli oneri supplementari che il ricorso a tale sistema genera;
siano rispettose del principio di proporzione della pena, limitando a quanto strettamente necessario il complesso delle sanzioni irrogate.
Il contenuto delle tre decisioni del 20 marzo 2018: una giustizia a là carte?
I principi menzionati al termine del precedente paragrafo sono però declinati in maniera significativamente diversa nelle singole decisioni prese in esame dalla Grande Sezione nell'udienza del 20 marzo 2018 e, francamente, nell'analisi del contenuto delle singole decisioni si coglie chiaramente come la valutazione che la Corte di giustizia opera con riferimento alla violazione del principio del ne bis in idem sia fortemente condizionata dalle concrete circostanze della vicenda portata al suo esame.
Nella causa Garlsson Real Estate e a. in materia di manipolazioni di mercato, con riferimento all'inflizione da parte della Consob di una sanzione pecuniaria sostanzialmente penale quando i medesimi soggetti erano già stati destinatari di una sentenza definitiva del giudice penale in relazione al reato di cui all'art. 185 Tuf, scaturita da un patteggiamento, i giudici di Lussemburgo – pur ritenendo che la tutela dei mercati finanziari dell'unione e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari sia uno scopo in astratto sufficiente a giustificare la limitazione del diritto del singolo al ne bis in idem – qualificano come eccessivo, nel caso di specie, il sacrificio dell'accusato tanto dal punto di vista degli oneri cui il doppio procedimento lo espone, quanto da quello della proporzione della sanzione, essendo la sanzione prevista dall'art. 185 Tuf – salvo verifica del giudice nazionale, ma sul punto ritorneremo più avanti – sufficientemente severa da reprimere il comportamento in questione in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva, senza che sia necessario ipotizzare un'ulteriore punizione in ambito amministrativo (in particolare, la decisione si conclude nel senso che «l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea dev'essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva»).
Parzialmente analoga è la conclusione assunta nelle cause Di Puma e Zecca, in materia di abuso di informazioni privilegiate, in un caso in cui le persone fisiche coinvolte erano state dalla CONSOB sottoposte a sanzione pecuniaria exart. 187-bis Tuf, pur essendo state assolte, in sede penale, dall'imputazione per il delitto di cui all'art. 184 Tuf. Anche in tali ipotesi infatti la Corte di giustizia – ferme rimanendo le riflessioni di carattere generale che si sono sopra esposte - ritiene irrispettoso del divieto di bis in idem un assetto della legislazione nazionale in cui la sanzione (formalmente qualificata come) amministrativa possa essere inflitta indipendentemente da una sentenza definitiva di assoluzione in sede penale (la sentenza si conclude affermando che «l'art. 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all'abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), letto alla luce dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, va interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale in forza della quale un procedimento inteso all'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale non può essere proseguito a seguito di una sentenza penale definitiva di assoluzione che ha statuito che i fatti che possono costituire una violazione della normativa sugli abusi di informazioni privilegiate, sulla base dei quali era stato parimenti avviato tale procedimento, non erano provati»).
Le riflessioni della Corte di Lussemburgo, tuttavia, cambiano profondamente quando si tratti di valutare – come accaduto nella causa Menci – la presenza del doppio binario nell'ambito del diritto tributario, ed in particolare nel caso in cui alla sanzione ‘amministrativa' già irrogata nel processo tributario si affianchi lo svolgimento di un procedimento penale. In questa decisione, infatti, nella quale viene esclusa la violazione dell'art. 50 C.D.F.Ue (la pronuncia conclude affermando che «spetta, in definitiva, al giudice del rinvio valutare la proporzionalità dell'applicazione concreta della summenzionata normativa nell'ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravità del reato tributario in discussione e, dall'altro, l'onere risultante concretamente per l'interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale»), ci pare indiscutibile che un rilievo assolutamente centrale sia assegnato alla circostanza l'obiettivo perseguito dalla legislazione italiana in questa materia, ed identificato nella riscossione dell'Iva – tributo come è noto di “pertinenza” dell'Unione europea -, costituisce una finalità di estrema rilevanza per la salvaguardia degli interessi finanziari dell'Unione e il cui raggiungimento consente di limitare, nel rispetto dell'art. 52 § 1 C.D.F.Ue, la portata del citato art. 50 della Carta.
Indubbiamente, a supporto della sua pronuncia la Corte di giustizia richiama una serie di elementi presenti nella normativa italiana in tema di sanzione degli illeciti tributari – in particolare la certa prevedibilità di una duplice punizione, la possibilità di instaurare il procedimento penale solo in presenza di reati di una certa gravità, come dimostrato dalla previsione di una soglia di punibilità, il contenuto dell'art. 21 d.lgs. 74 del 2000 che preclude la l'esecuzione forzata delle sanzioni amministrative di natura penale dopo la condanna penale dell'interessato, nonché il riconoscimento di una valenza attenuante in ordine alla sanzione penale da applicare in caso di volontario pagamento del debito tributario – che rendono la stessa idonea a garantire che le sanzioni imposte siano strettamente limitate a quanto necessario rispetto alla gravità del fatto commesso. Tuttavia, pare evidente che, a prescindere da queste considerazioni, il profilo principale tenuto in considerazione dalla Corte di giustizia in questa ipotesi sia rappresentato dalla necessità che la risposta sanzionatoria che lo Stato nazionale sia (sì non eccessiva ma al contempo comunque) idonea a tutelare adeguatamente gli interessi lesi dal comportamento illecito tenuto dal contribuente e nel perseguimento di tale obiettivo di punizione/prevenzione «la proporzionalità di una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, non può essere rimessa in discussione sulla base della sola circostanza che lo Stato membro interessato abbia operato la scelta di prevedere la possibilità di un cumulo del genere, salvo altrimenti privare detto Stato membro di una simile libertà di scelta» (§§ 46-47 della predetta decisione).
In conclusione
Come si vede, chi si attendeva dalla Corte di giustizia una parola chiara e definitiva in ordine alle modalità con cui il principio del ne bis in idem – previsto tanto dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo che dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea – deve operare nell'ambito degli ordinamenti nazionali è stato decisamente deluso ed anzi pare che i giudici di Lussemburgo abbiano negato in radice che una tale conclusione possa essere assunta nell'ambito della giurisprudenza sovranazionale.
L'originaria impostazione della giurisprudenza della Corte Edu secondo cui ogni qualvolta uno stesso soggetto fosse sottoposto a due procedimenti – entrambi di natura penale, sia formalmente che sostanzialmente – per un medesimo fatto (e a prescindere dalla concreta applicazione della sanzione in sede di decisione) si era senz'altro innanzi ad una violazione del principio in questione è stata infatti abbandonata per accogliere una nozione del principio del ne bis in idem più articolata ed indiscutibilmente più evanescente, in cui assume un ruolo centrale le modalità con cui si articolano i rapporti fra i due procedimenti. Tuttavia, mentre secondo la Corte Edu ciò che rileva è la connessione temporale e sostanziale fra gli stessi (da qui la particolare attenzione riservata, ad esempio, alla circostanza che il singolo non sia sottoposto per un tempo eccessivo ad un procedimento che lo vede come “accusato”), per i giudici di Lussemburgo l'elemento essenziale da prendere in considerazione è rappresentato dalla proporzionalità della risposta sanzionatoria e repressiva che lo Stato nazionale riserva alla condotta illecita, proporzionalità la cui valutazione non dipende solo dalla severità della pena che viene in concreto comminata ma anche dalla gravità dei fatti su cui si esercita la potestà punitiva dell'ordinamento nazionale.
Questa conclusione presenta, a nostro parere, due profili di criticità. In primo luogo, un diritto fondamentale, quale quello rappresentato dal divieto di bis in idem, non viene più riconosciuto a chiunque sia soggetto alla potestà punitiva statuale, come invece imporrebbe la sua natura di principio fondamentale connaturale alla struttura dell'ordinamento dell'Unione europea, ma viene ad essere subordinato alla gravità della violazione riscontrata ovvero alla rilevanza degli interessi lesi dalla condotta illecita tenuta dal singolo, quasi che un soggetto che commette una violazione particolarmente riprovevole non solo deve essere sottoposto ad una pena severa e significativa ma può anche essere anche sottoposto ad una pluralità di procedimento per il medesimo fatto da lui commesso (profilo questo che, come pare evidente, è ben diverso dalla tematica della significatività della sanzione applicanda).
In secondo luogo, il soggetto cui è demandata la valutazione circa la proporzionalità e ragionevolezza della risposta sanzionatoria apprestata dal singolo Stato nazionale – valutazione che, come detto, è a sua volta il risultato di un giudizio circa l'equilibrata relazione fra due parametri parimenti indefiniti nel loro esatto significato, come quelli rappresentati dalla severità della pena e la gravità del fatto commesso – è il singolo giudice davanti al quale viene a porsi la questione e viene lamentata la lesione del diritto al ne bis in idem. In questo modo, però, la Corte di Giustizia (e più in generale tutta la giurisprudenza sovranazionale, posto che la medesima strada è percorsa di fatto dalla Corte Edu), in luogo di assumere una posizione in grado di indirizzare i giudici nazionali verso una soluzione uniforme dei problemi derivanti dal doppio binario sanzionatorio – quale era quella rappresentata dalla posizione espressa dai giudici di Strasburgo prima della pronuncia della Grande Camera A e B c. Norvegia, che si esprimeva per un automatico divieto del secondo giudizio, teso a infliggere una sanzione di natura sostanzialmente penale in relazione al un medesimo fatto storico, quando si fosse già svolto un primo giudizio avente natura penale -, assume un approccio casistico e atomizzato alla questione che fa del singolo giudice l'unico soggetto, almeno in prima battuta, competente a rinvenire una violazione dell'art. 4 prot. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dell'art. 50 C.D.F.Ue, con indiscutibili conseguenze deleterie per i principi della certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
E si noti che tali valori della certezza e prevedibilità della decisione sono tanto più pregiudicati quando si consideri che secondo la Corte di giustizia «il principio del ne bis in idem garantito dall'articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea conferisce ai soggetti dell'ordinamento un diritto direttamente applicabile nell'ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale». Ciò vuol dire che d'ora in poi ogni processo sarà sottoposto alla spada di Damocle della discrezionale decisione del singolo giudice circa la severità del trattamento punitivo che nel caso di specie viene riservato al singolo con la facile pronosticabilità di una atteggiamenti difformi da parte dei diversi componenti del potere giudiziario.
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Sommario
Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'impostazione iniziale …
… e dopo la decisione A e B c. Norvegia
Il contenuto delle tre decisioni del 20 marzo 2018: una giustizia a là carte?