La mediazione serve a velocizzare la giustizia, non a rallentare il processo
20 Ottobre 2017
Massima
Per mediazione disposta dal giudice deve intendersi che il tentativo di mediazione sia effettivamente avviato e che le parti ivi costituite, anziché limitarsi ad incontrarsi e informarsi, non aderendo poi alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all'ordine del giudice partecipando alla vera e propria procedura di mediazione, salva l'esistenza di (eventuali e documentate) questioni pregiudiziali che ne impediscano la procedibilità. Il caso
L'ordinanza in commento, del 20 maggio 2017, è stata resa dalla sezione specializzata in materia d'impresa del tribunale di Potenza. In un contenzioso tra aziende e una compagnia assicuratrice avente ad oggetto un contratto di appalto il Giudice ha ordinato alle parti di introdurre la mediazione ex d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 per tentare di risolvere amichevolmente la controversia. La questione
I tentativi dei giudici di merito di ridurre il contenzioso giudiziale per mezzo della mediazione delegata si traducono, non di rado, nell'individuazione degli incombenti che le parti devono assolvere per rendere procedibile la domanda giudiziale. Il tribunale di Potenza, con il provvedimento in commento, offre un esempio di questa tendenza, giungendo, però, a formulare avvertenze non coerenti con il dato legislativo. Le soluzioni giuridiche
Il provvedimento in commento si distingue per l'articolata enunciazione dei principi e dei criteri a cui, ad avviso di questo giudice, il procedimento conciliativo deve uniformarsi. Trattasi, a ben vedere, dei canoni elaborati dalla più attenta giurisprudenza in materia ed ormai affermatisi nella prassi delle aule di giustizia, che così possono sintetizzarsi:
Il provvedimento si conclude con la precisazione che l'udienza per la prosecuzione del processo potrebbe essere brevemente differita, «in ragione del gravoso carico di ruolo del giudicante (trattasi, come ormai noto, del ruolo più gravato dell'Ufficio), nonché della necessità di rispettare il programma di definizione adottato in analogia alle previsioni del cd. ‘Programma Strasburgo' di Torino, ed a seguito di quanto previsto nella Relazione ex art. 37 d.l. 98/2011». Osservazioni
Sono tre i punti critici dell'approccio alla mediazione seguito dal tribunale potentino.
a) Innanzitutto, il collegamento fra la decisione di rimettere le parti in mediazione e l'illustrazione dell'eccessivo carico del ruolo giudiziale appare infelice, destando l'impressione che la mediazione non sia stata disposta sulla base di una preventiva ed oculata valutazione sulla mediabilità della controversia, bensì per agevolare il giudice nel decongestionare il contenzioso. Impressione, questa, che esce rafforzata dal fatto che il tribunale si è limitato ad impiegare una mera formula di stile («…valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti …»), mutuata dall'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 28/2010, per argomentare l'opportunità di ricorrere alla mediazione. Anzi, in un'ottica di riforma della disciplina della mediazione, sembrerebbe auspicabile la sottoposizione della facoltà giudiziale di disporre la mediazione (oltre i casi in cui essa non costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale) a condizioni più rigorose di quelle attualmente esistenti, prima fra tutte un attento sindacato del giudice circa la concreta sussistenza di margini per il raggiungimento di una soluzione conciliativa. La valutazione giudiziale sulla mediabilità della controversia (che, nella maggior parte dei casi, è senz'altro effettuata dai nostri giudici, anche nella vigenza di una disciplina normativa tanto elastica come quella attuale) dovrebbe accompagnarsi ad una succinta motivazione in ordine agli elementi che rendono altamente probabile la definizione consensuale del contenzioso e, del pari, particolarmente sconveniente per le parti la prosecuzione del processo. La carente motivazione dell'ordinanza dispositiva della mediazione, potrebbe essere apprezzata quale giustificato motivo di mancata partecipazione o di desistenza dalla procedura ad opera del contendente intenzionato a conseguire piena soddisfazione dei propri diritti con il rimedio giudiziale. D'altronde, se si ammettesse che la mediazione è un mezzo per permettere alla giustizia di rimediare alle sue disfunzioni (e, in particolar modo, alla difficoltà di trattare in tempi brevi tutte le controversie), si finirebbe con il riconoscere che, in presenza di una sistema processuale assolutamente efficiente, la mediazione non avrebbe alcuna ragion d'essere. Che la deflazione del contenzioso giudiziale non possa costituire la finalità precipua della mediazione, ma soltanto il pur auspicato effetto collaterale, dovendo la funzione dell'istituto ricercarsi nell'attribuzione ai consociati di uno strumento di soluzione alternativa delle liti, capace di garantire a chi intenda fruirne, un risultato sostanziale equiparabile alla decisione giurisdizionale, è testimoniato da plurimi passaggi della direttiva comunitaria n. 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008, ove:
Non condivisibile, poi, è la propensione della nostra giurisprudenza a ricostruire la ragione logica della mediazione (quasi) esclusivamente sulla base delle necessità peculiari dell'ordinamento nazionale, dimenticando che gli scambi commerciali si nutrono di una libertà dal respiro comunitario e, dunque, coinvolgono soggetti appartenenti a Stati nazionali in cui la durata del processo è un problema secondario, se non addirittura marginale. D'altronde, il diritto delle parti di determinare liberamente la giurisdizione a cui affidare la risoluzione delle controversie sul contratto fra le stesse intercorse non può che essere realmente effettivo, se non in presenza di un'omogenea percezione, ad opera dei giudici di tutti gli Stati nazionali, della natura e della finalità della mediazione, intesa, si ripete, quale strumento di espansione dell'autonomia negoziale, piuttosto che quale espediente per assicurare la ragionevole durata del processo, senza ampliare l'organico di giudicanti (Magistrati o Giudici laici che siano). Una rinnovata concezione della mediazione, maggiormente conforme allo spirito della fonte comunitaria, unitamente ad una ristrutturazione del dato letterale contenuto nel d.lgs. n. 28/2010, potrebbe associarsi alla valorizzazione dell'istituto anche nel contesto della giustizia arbitrale. Non si dimentichi, a questo proposito, come, allo stato, la mediazione non possa essere delegata dagli Arbitri, verosimilmente perché la sua imposizione viene percepita come incoerente rispetto ad un procedimento caratterizzato, per sua intrinseca natura, dal riconoscimento alle parti della massima libertà organizzativa; laddove, invece, la mediazione demandata venisse accolta come strumento di supporto ai contendenti, nulla ostacolerebbe la sua penetrazione anche in seno alla procedura arbitrale.
b) Sarebbe stato preferibile se il tribunale di Potenza, unitamente all'assegnazione alle parti del potere di rivolgersi consensualmente ad un organismo di mediazione estraneo al luogo del giudice adito, avesse spiegato quale fosse la norma giuridica su cui fondare tale libertà. Si noti, infatti, come, secondo la sporadica giurisprudenza in termini, la facoltà dei contendenti di derogare ai criteri legali di determinazione territoriale dell'organismo di mediazione si radichi sugli artt. 28-30 c.p.c., che consentono alle parti di individuare liberamente il Foro territorialmente competente, con la sola esclusione di talune specifiche materie. In questo solco interpretativo, le norme definitorie della competenza territoriale in materia di mediazione (contenute nell'art. 4 del d.lgs. n. 28/2010) sarebbero assimilabili (se non semplicemente riconducibili) alle disposizioni codicistiche in tema di competenza giudiziale (identificabili negli artt. 28-30 c.p.c.). Si è così affermato che, in tema di deroga alla competenza territoriale, nella scelta della mediazione, su accordo delle parti, «deve ritenersi che la competenza del mediatore sia derogabile ogni qual volta lo sarebbe quella del giudice dovendosi rilevare che trattandosi di norme legate alla mera competenza territoriale, le parti – se tutte d'accordo – possono porvi deroga rivolgendosi, con domanda congiunta, ad altro organismo scelto di comune accordo» (Trib. Mantova, sez. II, 3 novembre 2015, n. 1049). Tuttavia, tale linea argomentativa appare piuttosto fragile perché, per un verso, pretende di attrarre la mediazione nell'orbita processuale o, quantomeno, giurisdizionale, quando, in verità, il suo alveo naturale è l'autonomia privata, per l'altro, ignora che, a mente dell'art. 6 c.p.c., le norme sulla competenza sono inderogabili, salvo specifica eccezione legislativa, nella specie non rinvenibile. Altra questione è se la mediazione effettivamente esperita innanzi ad un organismo di mediazione territorialmente incompetente impedisca il perfezionamento della condizione di procedibilità della domanda giudiziale ovvero si riduca ad una mera irregolarità procedimentale, sanzionabile, in quanto tale, soltanto, a livello probatorio, con la desunzione di elementi di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c. e, dal punto di vista economico, con l'irrogazione della pena privata ex art. 96, comma 3, c.p.c..
c) Ad un lapsus calami, infine, sembra ricondursi la circoscrizione del potere di avviare il procedimento di mediazione e dell'obbligo di farsi assistere da un difensore alle sole parti costituite, quando, in verità, la parte contumace ben potrebbe presenziare alla procedura di mediazione, soggiacendo alle relative norme comportamentali, continuando a rimanere, in seguito, estranea al giudizio in cui tale mediazione è stata disposta. |