La preclusione assoluta ai benefici penitenziari sulla base del reato commesso è contraria ai principi costituzionali
12 Luglio 2018
La Corte costituzionale con sentenza n. 141, depositata l'11 luglio 2018, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui si applica ai condannati all'ergastolo per il delitto di cui all'art. 630 del codice penale, sequestro di persona a scopo di estorsione, che abbiano cagionato la morte del sequestrato, e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui si applica ai condannati all'ergastolo per il delitto di cui all'art. 289-bis del codice penale, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, che abbiano cagionato la morte del sequestrato.
L'art. 58-quater vieta l'accesso ai benefici penitenziari prima che siano trascorsi 26 anni di detenzione per i condannati all'ergastolo per i delitti di cui agli articoli 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato, senza alcuna possibilità per il giudice di valutare il graduale progresso del condannato nel proprio cammino di reinserimento sociale. Tale preclusione assoluta sarebbe intrinsicamente irragionevole alla luce del principio stabilito dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Si legge nelle motivazione della sentenza: «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss'anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest'ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell'intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che, del pari, non può non chiamare in causa la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società». |