Negoziazione assistita: rigetto da parte del PM della richiesta di autorizzazione e incidente giurisdizionale

Vera Sciarrino
20 Agosto 2018

La l. n. 162/2014, che regola all'art. 6 la negoziazione assistita per la risoluzione delle crisi coniugali e/o genitoriali, non chiarisce il rapporto tra la fase del controllo rimesso al PM e la successiva fase avanti al Presidente del Tribunale nel caso in cui il PM abbia ravvisato che l'accordo di negoziazione non risponda all'interesse dei figli. Altra questione controversa attiene alla possibilità che il procedimento possa ritornare al PM dopo l'incidente giurisdizionale davanti al Presidente del Tribunale.L'Autore esamina le differenti soluzioni ermeneutiche connesse a tali problematiche anche alla luce delle diverse interpretazioni fornite dai giudici di merito.
La negoziazione assistita: brevi cenni sull'istituto

La negoziazione assistita è stata introdotta dalla l. 10 novembre 2014, n. 162, quale strumento di composizione extragiudiziale delle controversie che si affianca alla mediazione (ex d.lgs. n. 28/2010) di cui, per molti versi, sembra richiamare la disciplina. Anche tale legge persegue l'obiettivo di deflazionare il contenzioso in materia civile introducendo un'ulteriore forma di risoluzione alternativa delle controversie.

La negoziazione assistita è un procedura che ha inizio con la sottoscrizione, ad opera delle parti, di un accordo mediante il quale esse convengono di cooperare per risolvere, al di fuori delle aule giudiziarie e in “via amichevole”, ma con l'assistenza di avvocati, una lite che è tra di loro insorta e che riguarda diritti disponibili (art. 2, comma 2, lett a), d.l. n. 132/2014). Tale convenzione (cd. convenzione di negoziazione) deve rivestire, pena la nullità, forma scritta (art. 2, comma 4).

Ovviamente la convenzione non obbliga le parti a giungere a un accordo risolutorio della controversia, ma le obbliga soltanto a «cooperare in buona fede e con lealtà» per provare a definire bonariamente la controversia (art. 2, comma 1) e a tenere riservate – sempre in ossequio al principio di buona fede – le informazioni apprese in occasione della procedura di negoziazione.

Concluso tale accordo, seguirà l'attività di negoziazione vera e propria, che può sfociare in un altro accordo (compositivo della lite), che, a differenza del contratto di transazione, può essere concluso anche in assenza di reciproche concessioni. Si ritiene che ad esso siano comunque applicabili le norme in tema di transazione se non espressamente derogate dalle disposizioni sulla negoziazione assistita.

Tale accordo, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, costituisce titolo esecutivo anche ai fini dell'iscrizione dell'ipoteca giudiziale (art. 5, comma 1, d.l. n. 132/2014). L'accordo in oggetto deve poi essere conforme alle norme imperative e all'ordine pubblico (art. 5, comma 2), conformità che va certificata dagli avvocati. Si ritiene che, in assenza di tale certificazione, l'accordo non potrà trovare esecuzione.

La procedura di negoziazione assistita può essere facoltativa o obbligatoria.

Nel primo caso, sono le parti che decidono di ricorrere liberamente al procedimento in questione. Rientra nella negoziazione assistita facoltativa anche quella in tema di famiglia.

La negoziazione assistita è obbligatoria ex lege, invece, nei casi in cui essa è prevista a pena di improcedibilità della domanda giudiziale (art. 3 d.l. n. 132/2014), casi che nella sostanza molto ricalcano, a livello di disciplina, le previsioni in tema di c.d. mediazione obbligatoria.

Due sono i casi in cui chi vuole instaurare un giudizio deve, per munire di procedibilità la sua domanda, invitare, tramite l'avvocato, l'altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita:

1) quando si vuole esercitare in giudizio un'azione relativa a un controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti (non più rientrante tra i casi di mediazione obbligatoria dopo la riforma operata dal d.l. n. 69/2013, convertito in l. n. 98/2013);

2) quando si vuole proporre in giudizio una domanda di pagamento, a qualsiasi titolo, di somme non eccedenti 50.000 euro, con esclusione delle controversie che rientrano nella c.d. mediazione obbligatoria.

Di contro, non ricadono nei casi di negoziazione obbligatoria ai sensi dell'art. 3, comma 3:

a) i procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione;

b) i procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all'art. 696-bis c.p.c.;

c) i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata;

d) i procedimenti in camera di consiglio;

e) l'azione civile esercitata nel processo penale.

Inoltre, l'obbligatorietà dell'esperimento del procedimento di negoziazione assistita «non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale» (art. 3, comma 4).

I casi di negoziazione obbligatoria costituiscono ipotesi di giurisdizione cd. condizionata, in cui, cioè, chi vuole adire l'Autorità Giudiziaria deve prima ricorrere ad un meccanismo alternativo di risoluzione delle controversie, a pena – come si è visto – di improcedibilità della domanda giudiziale.

La negoziazione assistita facoltativa e la regolamentazione delle crisi coniugali e dei rapporti genitoriali

Ai sensi dell'art. 6 d.l. n. 132/2014 può farsi ricorso alla negoziazione assistita anche ai fini della risoluzione delle crisi coniugali e/o genitoriali.

Trattasi di negoziazione facoltativa e non obbligatoria.

In tale materia, in particolare, la procedura di negoziazione può portare – con l'assistenza di «almeno un avvocato per parte» (comma 1) – a una soluzione consensuale di separazione personale, di divorzio (successivo però alla separazione personale e non cd. diretto) o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio (comma 3).

La negoziazione non sottrae però del tutto l'accordo al controllo giudiziale. La delicatezza della materia e il possibile coinvolgimento dell'interesse dei figli, anche minori o con handicap, ha portato il legislatore a introdurre una particolare forma di “interlocuzione” con l'Autorità Giudiziaria, non con un ufficio giudicante ma con un ufficio requirente deputato al rilascio, a seconda dei casi, di un nulla osta o di un'autorizzazione.

L'intervento del PM è stato introdotto dalla legge di conversione non essendo invece esso previsto nel d.l. n. 132/2014 che obbligava i legali dei coniugi a trasmettere soltanto all'ufficiale dello stato civile l'accordo (che non prevedesse la presenza di figli minori o non indipendenti) entro dieci giorni dalla sottoscrizione.

Va distinta una negoziazione (solo) “coniugale”, diretta a disciplinare rapporti tra soli coniugi, senza figli o con figli già economicamente autosufficienti da una negoziazione (anche) “genitoriale”, diretta a disciplinare pure rapporti tra genitori e figli.

Il comma 2 dell'art. 6 d.l. n. 132/2014 consente, infatti, il ricorso alla negoziazione assistita nelle materie in questione (separazione, divorzio e modifica delle relative condizioni) anche (contrariamente a quanto previsto nella prima versione della norma) in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell'art. 3, comma 4, l. n. 104/1992 ovvero economicamente non autosufficienti.

Se in entrambi i casi (negoziazione coniugale e negoziazione genitoriale) nell'accordo si deve dare atto «che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare e che gli avvocati hanno informato le parti dell'importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori» (così il secondo periodo dell'art. 6, comma 3), diversa è però la procedura.

Nel procedimento di negoziazione “coniugale” il PM si limita a concedere un nullaosta, verificando che l'accordo non presenti irregolarità. Dispone, in particolare, la prima parte del comma 2 dell'art. 6 che «l'accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita è trasmesso al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente il quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti ai sensi del comma 3», ossia per la trasmissione di copia dell'accordo all'ufficiale dello stato civile.

In presenza di figli minori, incapaci, con handicap grave o economicamente dipendenti, invece, il PM deve verificare la rispondenza dell'accordo (cd. genitoriale) all'interesse della prole e concedere un'apposita autorizzazione. Tale iter è allora più articolato. Anche in questi casi «l'accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso (…) al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente» (entro il termine, in questo caso fissato, di 10 giorni), ma qui il controllo del PM non è (come nell'altro) di mera regolarità ma è di merito, dovendo il PM valutare se l'accordo risponda o meno «all'interesse dei figli». L'autorizzazione verrà così rilasciata se l'accordo risponda a tale interesse. In caso contrario, il procuratore della Repubblica «lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo».

Nella legge n. 162/2014 non si prevede uno specifico termine per la trasmissione dell'accordo al PM in caso di negoziazione coniugale («l'accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita è trasmesso al procuratore della Repubblica»), mentre si stabilisce un termine di dieci giorni in ipotesi di negoziazione genitoriale («l'accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della Repubblica»).

Restando pertanto fedeli alla lettera della norma, il termine dei 10 giorni sarebbe allora contemplato esclusivamente quando l'accordo contiene anche condizioni relative a figli minori, incapaci, con handicap grave o economicamente non indipendenti. Tale soluzione non pare affatto condivisibile perché anche in assenza di figli in queste condizioni l'accordo di negoziazione incide (salvo il caso delle «modifiche delle condizioni») sullo status, dato che i coniugi comunque si separano o divorziano. La disciplina va allora interpretata nel senso che in entrambi i casi l'accordo di negoziazione va trasmesso al PM sempre entro 10 giorni e ciò pure per evitare che possano venire adottati comportamenti che possano risultare in frode alla legge o in frode ai creditori (in sede, ad esempio, di esecuzioni o fallimenti).

In sostanza, considerato che gli effetti giuridici decorrono dalla data certificata dell'accordo, l'assenza di un termine per la trasmissione al PM, nell'uno come nell'altro caso, consentirebbe ai coniugi di rinviare volutamente, mercanteggiando così sugli status, il momento della conoscenza e della conoscibilità per i terzi dell'accordo e, potenzialmente, realizzando anche una lesione dei loro interessi (venendo comunque in rilievo atti aventi “data certa”).

Sul punto si noti pure che l'art. 3 legge n. 898/1970 (come modificato dalla legge n. 162/2014) stabilisce che per la proposizione della domanda di divorzio le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno sei mesi a far tempo «dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita».

Si ritiene allora che il termine di 10 giorni per la trasmissione al PM sia fondamentale e che la trasmissione fuori termine impedisca al PM di concedere il nullaosta o di autorizzare l'accordo. In questi casi non rimarrà ai coniugi/genitori che stipulare un nuovo patto con data certificata nuova.

Il procedimento appena descritto è, secondo chi scrive, di volontaria giurisdizione, in quanto il PM, quale autorità giurisdizionale, non è chiamato a risolvere conflitti tra contrapposti diritti ma deve amministrare interessi privati per la rilevanza pubblicistica degli altri interessi coinvolti.

Successivamente al rilascio del nullaosta o dell'autorizzazione del PM (o dell'autorizzazione del Presidente del Tribunale in caso di diniego di quest'ultima), «l'avvocato della parte è obbligato a trasmettere, entro il termine di dieci giorni, all'ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo stesso, dell'accordo munito delle certificazioni di cui all'articolo 5» (le certificazioni, cioè, dell'autografia delle firme e della conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico).

La trasmissione dell'accordo all'Ufficiale dello Stato civile può avvenire con la consegna presso gli uffici competenti ovvero a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno o per posta elettronica certificata.

La norma tace in merito al momento a partire dal quale inizia a decorrere il termine di dieci giorni fissato a carico dell'avvocato per la trasmissione all'ufficiale dello stato civile. È da ritenere che tale termine decorra dalla comunicazione alle parti del provvedimento (nulla osta o autorizzazione) del PM o del Presidente del Tribunale alla luce di un principio generale in tema di procedimento civile secondo il quale i provvedimenti dell'Autorità Giudiziaria emessi fuori udienza vanno resi noti alle parti tramite comunicazione. Il rispetto di tale termine, inoltre, va valutato con riferimento al momento in cui l'avvocato spedisce l'atto.

Anche per gli accordi conclusi a seguito di negoziazione assistita aventi ad oggetto una mera modifica delle condizioni sussiste l'obbligo di trasmissione del patto all'ufficiale dello Stato Civile. Ve ne è conferma nelle modifiche apportate dal d.l. n. 132/2014 al d.P.R. n. 396/2000. In materia di annotazioni (artt. 49 e 69 d.P.R. n. 396/2000) e iscrizioni (art. 63 d.P.R. n. 396/2000), infatti, anche gli accordi di «modifica delle condizioni di separazione o di divorzio» devono essere iscritti/trascritti (art. 63, lett. g-ter, h-bis d.P.R. n. 396/2000).

La trasmissione dell'atto all'ufficiale dello Stato civile entro un breve termine risponde ad un chiaro interesse pubblico, che è quello di assicurare certezza giuridica, pure a garanzia dei terzi, posto che gli effetti giuridici dell'accordo decorrono dalla data certificata nell'accordo medesimo. Il temporalmente ridotto termine di trasmissione dell'accordo a chi assicura la pubblicità dello stesso evita che i coniugi possano disporre arbitrariamente degli effetti giuridici del negozio, anche alla luce di interessi che possono non essere connessi con la separazione e con il divorzio.

Il comma 3 dell'art. 6 d.l. n. 132/2014 (con disposizione sovrapponibile a quella dettata per l'accordo concluso dalle parti davanti all'ufficiale dello stato civile) dispone che «l'accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono (...) i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio».

L'incidente giurisdizionale

La legge non prevede un termine entro il quale il PM deve rilasciare il nullaosta o l'autorizzazione a seguito di accordo di negoziazione assistita ex art. 6 d.l. n. 132/2014.

Le Procure sembrano essersi orientate diversamente.

Così, ad esempio, la Procura di Palermo ha ritenuto ragionevole un termine di dieci giorni, termine compatibile con il succinto esame formale dei (pochi) atti allegati all'istanza.

La Procura di Milano prevede, invece, per l'emissione del nullaosta e dell'autorizzazione, il più breve termine di tre giorni lavorativi dalla presentazione dell'accordo.

In proposito il Consiglio Nazionale Forense ha già messo in luce le debolezze di un sistema basato sull'assenza di un termine per l'adempimento in questione da parte del PM, con la conseguenza che la tempistica dell'intera procedura viene a risultare del tutto incerta e affidata alla buona volontà del PM, con evidenti disagi per le parti. Resta comunque il fatto che, emessi il nullaosta o l'autorizzazione, gli effetti della negoziazione assistita retroagiscono alla data certificata dell'accordo (art. 3, l. n. 898/1970, come modificato dalla legge n. 162/2014).

Laddove il nullaosta sia negato, pur tacendo la norma sulle conseguenze del rigetto, deve ritenersi che il PM debba motivare, anche succintamente, tale diniego illustrando quale irregolarità abbia riscontrato. Pur in assenza di rimedi specifici di tipo impugnatorio, la motivazione del diniego consente infatti ai coniugi di valutare la possibilità di un'eventuale riproposizione dell'accordo, sempre possibile, privo delle riscontrate “irregolarità”.

Talune Procure hanno comunque adottato la prassi, prima di rigettare l'istanza e in caso di accertate criticità superabili, di fare interloquire i coniugi in merito al difetto riscontrato ed eventualmente consentire loro di sanare tali irregolarità in termini di integrazione della documentazione necessaria o anche attraverso (nell'ambito della procedura di negoziazione genitoriale volta ad ottenere un'autorizzazione) le opportune modificazioni dell'accordo nell'interesse dei figli.

L'eventuale nullaosta concesso dopo il primo rifiuto o a seguito dell'integrazione richiesta costituirebbe sempre condizione di produzione degli effetti dell'accordo, che sempre vengono a decorrere dalla data certificata, salvo il caso di assenza ab origine dell'accordo (es. mancanza di una delle firme dei coniugi).

In presenza, invece, di negoziazione “genitoriale” (di accordi, cioè, lo si ripete, stipulati tra i coniugi in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave oppure economicamente non autosufficienti), se il PM ravvisa (magari anche a seguito delle modifiche delle condizioni da lui già sollecitate alle parti) che l'accordo non risponde comunque all'interesse dei figli, «lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo».

Si apre così un incidente giurisdizionale che dà avvio a un procedimento camerale di volontaria giurisdizione che si concluderà con un decreto monocratico (v. Trib. Termini Imerese, 16 marzo 2015).

Sebbene, anche qui, la legge nulla dica al riguardo, è da ritenere che il diniego di autorizzazione emesso dal PM debba essere motivato. Ciò al fine di porre il Presidente del Tribunale, oltre che le stesse parti, in condizione di conoscere le situazioni di criticità rilevate dal PM e di conseguenza provvedere al loro esame.

Con la migrazione dell'accordo al Presidente del Tribunale, il PM esaurisce il procedimento di sua spettanza.

Una delle questioni controverse attiene alla verifica della possibilità che il procedimento possa ritornare al PM. In generale, occorre comprendere quale rito si applichi e quale iter si segua per l'incidente giurisdizionale in questione.

Secondo una prima soluzione ermeneutica la trasmissione dell'accordo al Presidente del Tribunale determina il sorgere del rito di separazione consensuale nei modi e con le sequenze proprie dell'art. 711 c.p.c. (con conseguente tentativo di conciliazione), con l'inevitabile anomalia, tuttavia, di un'iscrizione a ruolo ufficiosa (non avendo le parti mai depositato un ricorso per separazione consensuale).

Inoltre, tale prima lettura non appare particolarmente convincente anche perché il tentativo di conciliazione (tipico della separazione consensuale) non è contemplato per le modifiche delle condizioni della separazione o del divorzio e perché nell'art. 6, comma 3, d.l. n. 132/2014 è già previsto che siano gli avvocati a tentare di conciliare i coniugi. La duplicazione del tentativo di conciliazione non appare necessaria. Ancora, si osservi che, trattandosi di un accordo concluso a seguito di negoziazione assistita, manca proprio una domanda giudiziale, il che esclude il ricorso alla separazione consensuale.

Una seconda opzione interpretativa, maggiormente ancorata al dato letterale, ritiene che il Presidente del Tribunale debba comunque concludere il procedimento di negoziazione con il provvedimento autorizzatorio (o con il suo definitivo diniego) citato all'art. 6 d.l. n. 132/2014.

Una terza soluzione ermeneutica assegna alla fase presidenziale una funzione meramente interlocutoria, con la conseguenza che, esaurita la fase presidenziale, il procedimento tornerebbe in Procura per la sua definizione. Tale lettura non trova però un effettivo riscontro nella norma secondo la quale è il Presidente del Tribunale che «provvede senza ritardo».

Il Tribunale di Torino (Trib. Torino 15 gennaio 2015) ha, in un primo tempo, ritenuto che, a seguito della mancata autorizzazione del PM, il Presidente, convocate le parti, potesse solo invitare le stesse ad adeguarsi ai rilievi del PM. Ciò perché la via della negoziazione assistita è “integralmente” alternativa al procedimento giurisdizionale e quest'ultimo non può aprirsi d'ufficio nell'ambito della procedura di negoziazione, che non può convertirsi in altro procedimento.

In quest'ottica, allora, laddove le parti dichiarino di adeguare l'accordo ai rilievi del PM il Presidente del Tribunale dovrebbe autorizzare l'accordo. Se invece i coniugi non intendano aderire ai rilievi del PM, il Presidente dovrebbe procedere con un “non autorizza”. La norma – secondo questa lettura – non sembra lasciare spazio alla possibilità, per il Presidente del Tribunale, di prevedere condizioni diverse rispetto a quelle prospettate dal PM. Il ruolo del Presidente del Tribunale sembrerebbe, quindi, piuttosto passivo.

La soluzione migliore deve invece partire dal dato di fatto per cui dopo la trasmissione dell'accordo (non autorizzato) dal PM ha per legge inizio, davanti al Presidente del Tribunale, un procedimento monocratico di volontaria giurisdizione in cui il Presidente fissa l'udienza ed emette, a chiusura dello stesso, un decreto.

Pertanto, a seguito della mancata autorizzazione del PM, non si verifica una giurisdizionalizzazione del procedimento, posto che manca un ricorso per separazione consensuale o un ricorso congiunto per cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio o ancora un ricorso congiunto per la modifica delle condizioni di separazione o divorzio.

Non può quindi emettersi un decreto di omologa o una sentenza di divorzio o un decreto di modifica delle condizioni, posto che nessuna domanda è stata formulata in questo senso dalle parti, le quali avevano solo scelto di stipulare un accordo tramite lo strumento della negoziazione assistita. Non si possono non prendere in considerazione il principio della domanda (art. 99 c.p.c.) e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.). Inoltre, tutti gli atti appena indicati sono collegiali, mentre l'atto conclusivo del procedimento è, come accennato, un provvedimento monocratico con il quale l'autorizzazione viene concessa o negata. L'art. 6 in esame dispone infatti che il Presidente del Tribunale, dopo aver fissato la comparizione delle parti (e quindi dopo averle sentite), «provvede senza ritardo», senza alcun riferimento alla necessità di una previa relazione in Camera di consiglio.

Si consideri inoltre che l'ultimo periodo dell'art. 6, comma 2, prevede che «all'accordo autorizzato si applica il comma 3», il che significa che il procedimento di negoziazione assistita genitoriale si conclude in ogni caso con un'autorizzazione (del PM o del Presidente del Tribunale).

Ciò che deve credersi è che il Presidente possa decidere, monocraticamente e dopo avere convocato i coniugi, se “autorizzare” o “non autorizzare” l'accordo, magari dopo avere invitato le parti a modificare l'accordo alla luce delle criticità indicate dal PM o indipendentemente da queste.

Una pronuncia maggiormente condivisibile ha affermato chei coniugi «possono, in sede di comparizione davanti al presidente del Tribunale, integrare o modificare le condizioni dell'accordo con riguardo ai figli, di propria iniziativa o anche su indicazioni o sollecitazioni d'ufficio, per sopperire a quelle inadeguatezze rilevate dal PM, sempre che, ad evidenza, le modifiche siano più favorevoli e maggiormente rispondenti all'interesse della prole». Si è ancora sostenuto che, tenuto che, «in ordine ai poteri di verifica da parte dell'organo giurisdizionale della corrispondenza delle condizioni pattuite all'interesse dei figli, posto che il parere del PM è obbligatorio ma non certamente vincolante, deve ritenersi che il presidente del tribunale, rivalutate le condizioni, le ragioni addotte a sostegno dell'accordo e la documentazione allegata, possa, in difformità al parere del PM, ravvisare, invece, l'adeguatezza delle condizioni e sufficientemente salvaguardati gli interessi della prole, così da potere autorizzare l'accordo» (così Trib. Termini Imerese, 16 marzo 2015).

Successivamente, il Tribunale di Torino ha affermato sul punto (Trib. Torino, 20 aprile 2015) che, in caso di diniego del PM nel concedere l'autorizzazione, la competenza demandata al Presidente non comporta una conversione della procedura e l'instaurazione di un giudizio ordinario di separazione, divorzio o modifica delle relative condizioni, ma introduce una procedura nuova e in parte atipica poiché al Presidente stesso è demandata la decisione circa la congruità dell'accordo privato, disatteso dalla Procura della Repubblica, persino in casi in cui, sulla base delle disposizioni processuali vigenti – e qui sta uno degli aspetti atipici – la competenza spetterebbe al Tribunale in composizione collegiale (art. 710 c.p.c., art. 9 l. div.).

È stato anche chiarito che se il Presidente del Tribunale non può autorizzare condizioni troppo differenti da quelle depositate presso la Procura della Repubblica (poiché altrimenti si svilirebbe la funzione del PM e degli avvocati dei coniugi in sede di negoziazione assistita), tuttavia, in linea con i principi generali che presiedono al rapporto tra parte pubblica e organo giudicante, al Presidente è demandato pure, anche a seguito degli elementi acquisiti dopo la comparizione delle parti, un riesame delle valutazioni operate dal PM.

Condivisibile è l'approdo del Tribunale di Palermo (Trib. Palermo, decr., 1 dicembre 2016), secondo il quale, a seguito della mancata autorizzazione del PM e della trasmissione degli atti ex art. 6 d.l. n. 132/2014, si apreun «incidente giurisdizionale», e in particolare un procedimento di volontaria giurisdizione che si svolge nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio, in cui il Presidente (o il giudice da lui delegato) provvede in composizione monocratica (senza che abbia luogo alcuna conversione del procedimento in separazione consensuale o divorzio congiunto o modifica concordata) e stabilisce se concedere o meno l'autorizzazione richiesta tenendo conto dei rilievi mossi dal PM ma non essendo in alcun modo vincolato dagli stessi.Ciò perchè«non sono sussistenti limiti alla possibilità per il Presidente del Tribunale di autorizzare anche condizioni assolutamente non in linea con i rilievi mossi dal PM e pure del tutto differenti da quelle inizialmente concordate. Invero, la funzione del PM, instaurato l'incidente giurisdizionale, viene ad esaurirsi (divenendo in tale incidente il PM semplice parte, interveniente necessario ex art. 70, comma 1. n. 2. c.p.c.) e a essere assunta integralmente dal Presidente del Tribunale. Inoltre, anche le diverse condizioni approvate dal Presidente sono comunque frutto di un accordo tra le parti».

In conclusione

In caso di mancata autorizzazione dell'accordo da parte del PM, la funzione di quest'ultimo si esaurisce e si apreun «incidente giurisdizionale» davanti al Presidente del Tribunale il quale - senza che abbia luogo alcuna conversione del procedimento di negoziazione in separazione consensuale o divorzio congiunto o modifica concordata - valuta se concedere o meno l'autorizzazione richiesta tenendo conto dei rilievi mossi dal PM ma non essendo in alcun modo vincolato dagli stessi.

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