Decreto legislativo - 19/08/2016 - n. 175 art. 14 - Crisi d'impresa di societa' a partecipazione pubblicaCrisi d'impresa di società a partecipazione pubblica
1. Le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza di cui al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, e al decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 1. 2. Qualora emergano, nell'ambito dei programmi di valutazione del rischio di cui all'articolo 6, comma 2, uno o più indicatori di crisi aziendale, l'organo amministrativo della società a controllo pubblico adotta senza indugio i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento 2. 3. Quando si determini la situazione di cui al comma 2, la mancata adozione di provvedimenti adeguati, da parte dell'organo amministrativo, costituisce grave irregolarità ai sensi dell'articolo 2409 del codice civile 3 4. Non costituisce provvedimento adeguato, ai sensi dei commi 1 e 2, la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell'amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie, anche se attuato in concomitanza a un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività svolte, approvato ai sensi del comma 2, anche in deroga al comma 5 4. 5. Le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, non possono, salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482-ter del codice civile, sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, con esclusione delle società quotate e degli istituti di credito, che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Sono in ogni caso consentiti i trasferimenti straordinari alle società di cui al primo periodo, a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti, purché le misure indicate siano contemplate in un piano di risanamento, approvato dall'Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti con le modalità di cui all'articolo 5, che contempli il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni. Al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sanità, su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti, possono essere autorizzati gli interventi di cui al primo periodo del presente comma 5. 6. Nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, [1] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [2] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [3] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [4] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. [5] Comma modificato dall'articolo 8, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 16 giugno 2017 n. 100. InquadramentoL'art. 1 l. fall., intitolato «imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo», dispone, al primo comma, che «sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici». E nel medesimo senso dispone l'art. 2221 c.c., a norma del quale «gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ... sono soggetti, in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali». E così, infine, dispone l’art. 1, comma 1, c.c.i.i., il quale espressamente esclude dal suyo ambito di applicazione lo Stato e gli enti pubblici. Nessun dubbio, dunque, che gli enti pubblici, quali enti necessari, non soggiacciano alle norme sul fallimento ed il concordato preventivo pur se titolari di un'impresa commerciale, potendo eventualmente essere sottoposti a liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 2 l.fall., nei casi previsti dalla legge. L'esonero riguarda anche gli enti pubblici economici, per i quali, cioè, l'esercizio dell'impresa costituisce l'oggetto esclusivo o principale (art. 2201 c.c.). Per le società pubbliche, di conseguenza, si è posto il dubbio se in esse debba prevalere la genesi, oppure la condivisione dello statuto dell'imprenditore commerciale. Le società pubbliche e la crisi d'impresa.Con riguardo alle società pubbliche, e cioè le società partecipate (in tutto o in parte) dallo Stato o da uno o più enti pubblici, si tratta, dunque, di stabilire se tali «enti» sono riconducibili, in ragione della forma giuridica privatistica rivestita, alla categoria degli imprenditori commerciali collettivi ed, in quanto tali, assoggettati, in caso di insolvenza o di crisi, alle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo, oppure se, al contrario, in ragione della sostanza pubblicistica dell'attività da essi svolta, tali enti sono qualificabili (se del caso, a fronte della sussistenza di particolari ed ulteriori requisiti) come enti pubblici e, quindi, come tali, sottratti, in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, ovvero se, pur non essendo qualificabili come enti pubblici, presentino caratteristiche tali da integrare la medesima ratio della norma che esenta dal fallimento gli enti pubblici, che, pertanto, troverebbe applicazione anche per esse. La dottrina (Ragusa Maggiore, 217), nel passato, ha pressoché unanimemente sostenuto la tesi per la quale le società pubbliche, indipendentemente dall'attività svolta, e, quindi, pur se preposte allo svolgimento di un servizio pubblico, in caso di insolvenza rimangono assoggettate alle procedure del fallimento e del concordato preventivo. Lo stesso la giurisprudenza: la Corte di cassazione, in particolare, con la sentenza del 10 gennaio 1979, n. 158, ha affermato che «una società per azioni, concessionaria dello Stato per la costruzione e l'esercizio di un'autostrada, non perde la propria qualità di soggetto privato – e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale, sottoposto al regime privatistico ordinario e così suscettibile di essere sottoposto ad amministrazione controllata ... – per il fatto che ad essa partecipino enti pubblici come soci azionisti e che il rapporto giuridico instaurato con gli utenti dell'autostrada sia configurato, dal legislatore, in termini pubblicistici, come ammissione al godimento di un servizio pubblico previo il pagamento di una tassa (pedaggio)». Si tratta dell'orientamento (Cass. n. 9069/1995) ancora oggi seguito dalla giurisprudenza maggioritarie (in tal senso, Cass. n. 22209/2013; Cass. n. 21991/2012; nella giurisprudenza di merito, così hanno giudicato: App. Napoli 27 ottobre 2015; App. Napoli, 27 maggio 2013, in Fall. 2013, 1290; App. Napoli, 24 aprile 2013, in Dir. fall., 2013, 563; App. Napoli 15 luglio 2009, in Fall., 2010, 689; Trib. Velletri 8 marzo 2010; Trib. Pescara, 14 gennaio 2014). Nello stesso senso è la dottrina recente (Salvato, 2010, I, 619-620; Ibba, 2015, 511). L'assunto è sostenuto sulla base di molteplici argomenti. Intanto, in via generale, le società partecipate da un ente pubblico non perdono la loro natura di enti privati per il solo fatto che il loro capitale sia formato – anche per intero – da conferimenti provenienti dallo Stato o da altro ente pubblico (Cass. S.U., n. 26283/2013; in motiv.; Cass. n. 3037/2014). D'altra parte, come già detto, il codice civile del 1942 – pur dedicando alle «società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici» un'apposita sezione del capo della società per azioni, attualmente composta dall'art. 2449, nel testo risultante dalle modifiche apportate (a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia UE 6 dicembre 2007, n. 463/04) dall'art. 13 della legge 25 febbraio 2008, n. 34 (l'art. 2450 c.c. è stato, invece, abrogato dall'art 3, comma 1, del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con modificazioni dalla legge 6 aprile 2007, n. 46) – non detta, salvo che per i profili inerenti alla nomina e alla revoca degli organi sociali, ivi specificamente contemplati, uno statuto speciale delle società a partecipazione pubblica né la legge disciplina, in termini derogatori rispetto alla disciplina comune, l'insolvenza di tali società e le regole per la relativa gestione. Del resto, «... la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principî di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità» (Cass. n. 22209/2013). In tale prospettiva, quindi, «le società costituite nelle forme previste dal codice civile ed aventi ad oggetto un'attività commerciale sono assoggettabili a fallimento, indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, al contrario di quanto avviene per l'imprenditore commerciale individuale» (Cass. n. 21991/2012). Negli ultimi anni, tuttavia, l'uniformità di opinioni è venuta meno. Si sono, infatti, diffuse, sia in dottrina che in giurisprudenza, opinioni che si sono espresse in senso contrario all'assoggettabilità al fallimento delle società a partecipazione pubblica o, quanto meno, di alcune di esse. Secondo un primo schema operativo, che si è soliti definire «tipologico», la società partecipata deve essere riqualificata, almeno in alcuni casi, come un ente pubblico, facendo prevalere sulla forma privatistica la sostanza pubblicistica che si assume esistente. In altri termini, la forma societaria assunta dall'ente non esclude la sua qualificabilità, ai fini concorsuali, come un ente pubblico: in particolare, tutte le volte in cui si riscontrino indici rivelatori di una «sostanza» pubblicistica, questa deve prevalere sulla forma privatistica assunta dall'ente e indurre a riconoscere che la società è, in realtà, un ente pubblico ed è, come tale, (sempre) esonerata dal fallimento ai sensi dell'art. 1, comma 1, l.fall. (in dottrina, ai fini concorsuali, in tal senso paiono essere orientati, Sandulli-Potito, 15, 16, secondo cui, nel caso di società in mano pubblica, «evitando generalizzazioni, deve ritenersi che, caso per caso, vada verificata la rilevanza, sotto i numerosi profili, innanzi indicati, della funzione e finalità pubblica dell'attività del soggetto, onde determinare se la fattispecie soggettiva presenti i caratteri di ente privato o di ente pubblico. Va aggiunto che, nel caso si accerti la sostanziale natura pubblica dell'ente, il soggetto non potrà essere sottoposto al fallimento o al concordato preventivo, ma al tempo stesso, mancando una previsione normativa in tal senso, non potrà neppure essere sottoposto ad una procedura liquidatoria amministrativa»). Secondo una parte della giurisprudenza di merito, in particolare, sull'implicito o esplicito presupposto della neutralità della forma societaria rispetto alla questione della qualificazione dell'ente, alla società andrebbe attribuita natura sostanzialmente pubblica ove ricorrono determinati elementi, quali: la detenzione della maggioranza del capitale sociale da parte di uno o più enti pubblici, l'influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società, l'esistenza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, ecc. In presenza di questi indici, in definitiva, la società, formalmente privata ma sostanzialmente pubblica, deve essere esentata dal fallimento, indipendentemente dal tipo di attività svolta (in tal senso, cfr: Trib. Catania 26 marzo 2010, ilcaso.it.; Trib. Bari, 29 dicembre 2011, ilfallimentarista.it; Trib. Napoli, 31 ottobre 2012, in Fall. 2013, 869 ss., che hanno configurato come enti pubblici soggetti formalmente privati, con conseguente esclusione dal fallimento. Lo stesso è accaduto per Trib. La Spezia, 20 marzo 2013; Trib. Santa Maria C.V. 22 luglio 2009, in Fall., 2010, 689; Trib. Rimini, 13 maggio 2013, in Fall., 1276; Trib. S. Maria C.V. 9 gennaio 2009, in Fall., 2009, 713; Trib. Patti 6 marzo 2009, in ilcaso.it.; App. Torino, 15 febbraio 2010, in Fall. 2010, 689, ha, invece, ritenuto privato un soggetto formalmente pubblico). Tale orientamento deve fare, tuttavia, i conti con almeno due dati normativi che depongono in senso contrario. Il primo deriva dalla pur risalente norma secondo cui «nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge» (art. 4 l. 20 marzo 1975, n. 70), per effetto della quale l'attribuzione per via interpretativa della natura pubblica a questo o quell'ente deve fondarsi su una o più disposizioni di legge: disposizioni nelle quali la qualificazione pubblicistica non necessariamente deve essere esplicita ma certamente deve risultare in modo oggettivo e in equivoco. Ed, in effetti, per l'impossibilità di procedere ad una riqualificazione come ente pubblico di una società partecipata, v. Cass. S.U., n. 26283/2013, in motiv., per cui «pare difficile dubitare che siffatta norma esprima un principio di ordine generale, ove si consideri la molteplicità e la rilevanza degli effetti giuridici potenzialmente implicati nel riconoscimento della natura pubblica di un ente. Di modo che, se in via di principio può ammettersi che un siffatto riconoscimento sia desumibile anche per implicito da una o più disposizioni di legge, occorre nondimeno che la volontà del legislatore in tal senso risulti da quelle disposizioni in modo assolutamente inequivoco. Ma, quanto alle società a partecipazione pubblica, lungi dal ravvisarsi disposizioni normative che inequivocabilmente attribuiscano loro la qualifica di ente pubblico, s'è già visto come il legislatore si sia preoccupato a più riprese di ribadirne, in via generale e fatta salva l'applicazione di singole regole speciali, l'assoggettamento alla disciplina dettata dal codice civile per le società di diritto privato, con le già richiamate conseguenze in punto di riparto di giurisdizione (solo in presenza di società di fonte legale, regolate da una disciplina sui generis di chiara impronta pubblicistica, quale ad esempio la Rai, è parso necessario pervenire a conclusioni diverse: si vedano Cass. S.U., n. 27092/2009)». Inoltre, la Cass. n. 22209/2013, per cui, proprio con riferimento alla tesi, di recente avanzata anche nella giurisprudenza di merito, che vi sono società partecipate aventi sostanziale natura giuridica pubblica, desumibile in via interpretativa da taluni indici (in linea di massima, e di volta in volta, ravvisati in limitazioni statutarie all'autonomia degli organi societari, nell'esclusiva titolarità pubblica del capitale, nell'ingerenza nella nomina degli amministratori da parte di organi promananti dallo stato, nell'erogazione di risorse pubbliche per il raggiungimento dello scopo), le quali andrebbero equiparate ad ogni effetto (e dunque anche ai fini della loro esenzione dal fallimento) agli enti pubblici, ha osservato che «la tesi mal si concilia con la perdurante vigenza del principio generale stabilito dalla l. n. 70/1975, art. 4, che, nel prevedere che nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge, evidentemente richiede che la qualità di ente pubblico, se non attribuita da una espressa disposizione di legge, debba quantomeno potersi desumere da un quadro normativo di riferimento chiaro ed inequivoco». Il secondo dato normativo deriva dalla norma contenuta nell'art. 4, comma 13, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, la quale stabilisce che «le norme del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali». Si tratta di una norma interpretativa, volta a porre un freno alla discrezionalità degli interpreti: in base ad essa, affinché una società a partecipazione pubblica anche totalitaria possa essere riqualificata come ente pubblico, e dunque sottoposta alla disciplina pubblicistica e sottratta a quella privatistica con essa non compatibile, occorre rinvenire una norma che espressamente legittimi la sottrazione al diritto comune delle società (Ibba, 2015, 511). E neppure, a ben vedere, possono rilevare le innumerevoli disposizioni contenute nella legislazione speciale che attraggono nella sfera del diritto pubblico, per le specifiche materie da esse regolate, gli enti di forma societaria che presentino determinate caratteristiche: tali norme, piuttosto, confermano la soggezione di quegli enti alla disciplina privatistica per tutti i profili non considerati, inclusi, evidentemente, quelli di diritto concorsuale. In tal senso, Cass. n. 22209/2013, in motiv., per cui «neppure le innumerevoli disposizioni normative speciali che, nel corso degli anni, sono state emanate in tema di società pubbliche, costituiscono un corpus unitario, sufficiente a regolamentarne attività e funzionamento ed a modificarne la natura di soggetti di diritto privato, così da sottrarle espressamente alla disciplina civilistica. La sempre più stretta commistione fra la sfera pubblica e quella privata ha, nel contempo, condotto all'emanazione di numerose leggi speciali applicabili ad enti, società pubbliche e società formalmente private, accomunati dall'agire in settori di pubblico interesse: ... Tuttavia, è proprio dall'esistenza di specifiche normative di settore che, negli ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a soggiacere alla disciplina privatistica». Secondo un altro orientamento, che si è soliti definire «funzionale», la verifica dell'applicabilità alle società in mano pubblica delle norme dettate per il settore pubblico (ivi compresa, ai fini che qui interessano, la norma dell'art. 1 l. fall., nella parte in cui esclude il fallimento per gli enti pubblici), va compiuta, in difetto di specifiche disposizioni normative, di volta in volta, in ragione degli interessi tutelati dal legislatore e, precisamente, ai fini in esame, dell'interesse sottostante alla norma che prevede l'esenzione dell'ente pubblico dal fallimento, vale a dire la garanzia della continuità dell'attività espletata dallo stesso. In tale ricostruzione, quindi, le società pubbliche sono sottratte al fallimento non sempre, come accade con il sistema tipologico, ma solo quando esercitino le medesime funzioni che tipicamente sono esercitate da un ente pubblico, della cui esenzione, in definitiva, mutuerebbero la ratio, vale a dire la necessità di assicurare lo svolgimento, ad onta dell'insolvenza, della relativa attività, e cioè, in definitiva, quando sono necessarie in quanto preposte a svolgere i servizi pubblici essenziali, come la raccolta dei rifiuti, il trasporto pubblico, ecc.: in tal caso, infatti, la dichiarazione di fallimento determinerebbe, da un lato, la cessazione dell'attività d'impresa, pregiudicando l'interesse pubblico alla continuità del servizio, e, dall'altro, un'inammissibile sostituzione dell'autorità giudiziaria all'autorità amministrativa in decisioni concernenti la continuità o meno nella gestione del servizio e la scelta del relativo gestore, come in caso di prosecuzione dell'attività d'impresa ex art. 104 l. fall. o di affidamento a terzi della gestione con l'affitto dell'azienda ex art. 104-bis l. fall. (D'Attorre, 2013, 877 ss.; D'Attorre, 2014, 493 ss.). Anche tale ricostruzione, tuttavia, presta il fianco a severe critiche. Intanto, la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22209/2013, ha osservato come, ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale, rileva solo la natura (societaria) del soggetto, con conseguente assunzione dei «rischi connessi alla sua insolvenza, pena la violazione dei principî di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed ai quali deve essere consentito di avvalersi di tutti gli strumenti di tutela posti a disposizione dall'ordinamento, ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con le stesse forme e con le stesse modalità». Né – rileva ancora la sentenza – l'esenzione del fallimento può derivare dalla natura dell'attività svolta dalla società pubblica, potendosi, infatti, obiettare che, «ai fini dell'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale», ciò che unicamente rileva «non è il tipo dell'attività esercitata, ma la natura del soggetto: se così non fosse, seguendo fino in fondo la tesi, si dovrebbe giungere alla conclusione che anche le società a capitale interamente privato cui sia affidata in concessione la gestione di un servizio pubblico ritenuto essenziale sarebbero esentate dal fallimento». Così anche Trib. Pescara 14 gennaio 2014, secondo cui, ove il requisito della necessità potesse fondare l'esenzione dal fallimento in base al contenuto e alle caratteristiche dell'attività esercitata, «si dovrebbe prospettare – al di fuori di ogni previsione normativa – l'esclusione dal fallimento anche per soggetti sicuramente privati che eroghino, ad esempio in forza di una concessione, un servizio pubblico». In verità, se è vero che carattere necessario assume non tanto il determinato soggetto o ente che svolge il servizio pubblico ad esso assegnato, quanto il servizio medesimo, è anche vero, però, che dal carattere necessario del servizio ben si può passare al carattere necessario, sia pure in via temporale, del soggetto che ne è titolare, nel senso che l'ente territoriale ritiene essenziale, in quel determinato momento storico, l'esistenza e l'operatività del soggetto fino a quando non abbia provveduto alla sostituzione dello stesso. Il fallimento della società partecipata, ancorché, in ipotesi, costituta all'unico scopo di gestire un determinato servizio pubblico, non preclude, del resto, all'ente locale, rimasto proprietario dei beni necessari all'esercizio di quel servizio, di procedere alla revoca dell'affidamento del servizio alla società fallita ed affidarne la gestione ad un nuovo soggetto o di esercitarlo in via diretta. Del resto, il pericolo derivante dal rischio di interruzione del servizio, per il tempo necessario all'ente locale ad affidarlo ad un nuovo gestore, può essere evitato attraverso il ricorso all'esercizio provvisorio dell'impresa, previsto dall'art. 104 l. fall., dovendosi condividere sul punto la tesi, avanzata in dottrina e seguita anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui nel valutare la ricorrenza di un danno grave, in presenza del quale autorizzare l'esercizio provvisorio, il tribunale può tenere conto non solo dell'interesse del ceto creditorio, ma anche della generalità dei terzi, fra i quali ben possono essere annoverati i cittadini che usufruiscono del servizio erogato dall'impresa fallita (Scarafoni, 448). Né si comprende sotto quale profilo l'autorizzazione alla continuazione temporanea dell'esercizio dovrebbe comportare una inammissibile sostituzione dell'autorità giudiziaria ordinaria all'autorità amministrativa, che aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e che continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell'esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento. La verità è che – come argomentato anche dalla Corte di cassazione (Cass. n. 22209/2013) – la società non può mai dirsi necessaria, posto che la titolarità del servizio permane in capo all'ente pubblico affidante (esso sì «necessario»), che potrà dunque assicurarne la continuità, in caso di fallimento del gestore, adottando i provvedimenti del caso (Cass. n. 22209/2013, cit.) mentre medio tempore il rischio di interruzione del servizio potrà essere scongiurato mediante ricorso all'esercizio provvisorio (che può essere autorizzato anche in considerazione di interessi diversi da quelli del ceto creditorio, e così di quelli della generalità dei cittadini che usufruiscono di un determinato servizio e che potrebbero subire un «danno grave» ex art. 104 l.fall. dalla sua interruzione: così Cass. n. 22209/2013, cit.; in dottrina, Guerrera, 2017, I, 371 ss., 378, il quale evidenzia come «la prosecuzione dell'impresa con la gestione sostitutiva del curatore fallimentare è agevolata dalla tendenziale continuazione dei contratti pendenti ... e consente – almeno in via di principio e non diversamente che nell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d'insolvenza – di continuare a eseguire quelle finalità (i.e. produzione di un servizio d'interesse generale; progettazione e gestione di un'opera pubblica; organizzazione e gestione di un servizio pubblico; produzione di beni e servizi strumentali all'ente partecipante: cfr. l'art. 4 TUSP) per le quali la società è stata costituita o acquisita ed è partecipata o controllata dall'amministrazione pubblica socia») senza che da ciò derivi alcuna interferenza dell'autorità giudiziaria in competenze proprie di quella amministrativa (Cass. n. 22209/2013, per cui l'autorità amministrativa «aveva in precedenza scelto il soggetto cui affidare la gestione e [...] continuerebbe ad intrattenere con questo, per la durata dell'esercizio, i medesimi rapporti che vi intratteneva prima della dichiarazione di fallimento»). D'altra parte, l'esonero dal fallimento (dal quale, peraltro, in assenza di una norma che la preveda, neppure può derivare l'assoggettamento alla liquidazione coatta amministrativa) non assicura affatto la continuità del servizio se solo si considera che i creditori sarebbero ammessi ad iniziare e proseguire, nei confronti della società, le azioni esecutive individuali, che, per il rischio che esse comportano di disgregazione del complesso aziendale, non favoriscono certo la continuità del servizio pubblico. Non manca, infine, un terzo orientamento che, pur condividendo tale conclusione, ha, tuttavia, escluso la soggezione al fallimento o al concordato preventivo della società pubblica non avendo ravvisato, nell'attività in concreto esercitata dalla stessa, i caratteri dell'impresa commerciale. Si tratta di decisioni che per lo più concernono società affidatarie della gestione di servizi pubblici locali e che, dopo aver respinto la tesi della riqualificazione in senso pubblicistico fondata su indici sintomatici, utilizzano sostanzialmente i medesimi indici (non per qualificare la società come ente pubblico, ma) per desumere la natura non imprenditoriale (o non commerciale) dell'attività in concreto svolta: in questo senso il Tribunale di Palermo che, in due pronunce, non ha riconosciuto la qualifica di imprenditore commerciale, e conseguentemente ha respinto la domanda di ammissione al concordato preventivo presentata da una società operante nel campo dei servizi pubblici strumentali e dei servizi pubblici locali economici a rilevanza economica: una prima, nei confronti di soggetti diversi dal Comune di Palermo, suo socio unico (Trib. Palermo 8 gennaio 2013); l'altra, per il fatto che la sua attività non era rivolta alla generalità dei consumatori, posto che i terzi destinatari delle sue prestazioni erano suoi soci ovvero soggetti partecipati dal Comune di Palermo o comunque soggetti pubblici alla cui attività il Comune aveva interesse (così Trib. Palermo 11 giugno 2013). Deve, tuttavia, osservarsi che, per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, «le società [...] aventi ad oggetto un'attività commerciale sono assoggettabili al fallimento indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto esse acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, al contrario di quanto avviene per l'imprenditore commerciale individuale. Sicché, mentre quest'ultimo è identificato dall'esercizio effettivo dell'attività, relativamente alle società commerciali è lo statuto a compiere tale identificazione» (Cass. n. 21991/2012). La sussistenza dell’impresa, del resto, non richiede che la stessa operi verso il mercato ed in regime concorrenziale se solo si considera che esercitano l’impresa anche il monopolista legale (art. 2597 c.c.: «chi esercita un’impresa in condizione di monopolio legale... ») e la cd. holding pura, che pure svolge la propria attività in favore delle sole partecipate. La società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica, è, pertanto, assoggettabile al fallimento in quanto soggetto di diritto privato agli effetti dell'art. 1 l.fall., essendo la posizione dell'ente pubblico all'interno della società unicamente quella di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici (Cass. n. 5346/2019), mentre la circostanza che risultino affidatarie di servizi d'interesse pubblico o gestiscano beni di natura demaniale non crea un rapporto di immedesimazione tra l'ente territoriale e le stesse suscettibile di escluderne l'assoggettamento alla procedura concorsuale (Cass. n. 8794/2023). Tale conclusione è stata espressamente condivisa dal legislatore che, con l’art. 1, comma 1, del c.c.i.i., ha espressamente compreso nel suo ambito di applicazione le società pubbliche, e cioè, come chiarito dall’art. 2, lett. f), non solo le società a mera partecipazione pubblica ma anche le società a controllo pubblico e le società in house. Nella legislazione precedente, in effetti, era discusso se le società in house erano assoggettabili al fallimento (e al concordato preventivo). Una corrente giurisprudenziale sviluppatasi negli ultimi tempi afferma che le società in house non sono soggette al fallimento né al concordato preventivo, a tal fine invocando le argomentazioni espresse dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 26283/2013 che, come è noto, ai fini del riparto di giurisdizione, ha ritenuto che appartenga alla Corte dei conti la giurisdizione sulle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società in house, ossia di quelle società che per statuto abbiano solo soci pubblici, esplichino la loro attività (gestione di servizi pubblici) prevalentemente in favore dei soci stessi e siano da questi sottoposte a un controllo analogo a quello da essi esercitato sui propri uffici, appartenga alla Corte dei conti. Più precisamente, per negare la fallibilità di tali società, è invocata quella parte della motivazione in cui la Corte, dopo aver ribadito con nettezza la natura privatistica delle società a partecipazione pubblica, anche totalitaria e unipersonale, negando la correttezza di operazioni di riqualificazione che non abbiano il supporto di precise disposizioni di legge, ha, nondimeno, affermato, con specifico ed esclusivo riferimento alle società in house, che rispetto a tali società non possa parlarsi di persone giuridiche autonome e distinte dal socio pubblico: tra socio e società in house non vi sarebbe alcuna alterità soggettiva e la forma esteriore di società celerebbe, in realtà, un patrimonio separato riconducibile all'ente pubblico socio Cass. n. 26283/2013, cit., che ha perciò qualificato come «erariale» il danno arrecato al patrimonio della società in house e, per l'effetto, affermato la sussistenza della giurisdizione contabile. In particolare, si è affermato che, se la società in house è una mera articolazione interna dell'ente pubblico socio, essa finisce inevitabilmente per condividere con esso la natura pubblica, beneficiando, quindi, dell'esenzione dal fallimento disposta dall'art. 1 l.fall. (Trib. Verona 17 dicembre 2013; Trib. Napoli 9 gennaio 2014, peraltro relativa a società a partecipazione regionale per la quale, con provvedimenti di urgenza, era stato disposto il divieto di azioni esecutive, anche concorsuali, per un anno; Trib. Napoli Nord 6 maggio 2015, per cui se è vero che gli enti pubblici sono sottratti al fallimento, anche la società in house integralmente partecipata dagli stessi, non potrà essere soggetta alla liquidazione fallimentare, pur escludendone la ricorrenza nel caso deciso; Trib. Verona, 19 dicembre 2013 hanno negato la fallibilità delle società in house; Trib. Benevento, 28 agosto 2013, in osservatorio-oci.org, ha ammesso la società pubblica al concordato preventivo perché non qualificabile come in house, per mancanza di controllo analogo e per la possibilità per il futuro di acquisizione delle azioni da parte dei privati. App. L'Aquila 2 marzo 2015, in ilfallimentarista.it, che, in un caso di società senz'altro in house ha revocato il fallimento dichiarato dal tribunale; invece, Trib. Palermo 13 ottobre 2014, e Trib. Reggio Emilia, 18 dicembre 2014, hanno continuato a ritenere fallibili le società in house. Trib. Nola 30 gennaio 2014, e Trib. Modena 10 gennaio 2014, in ilfallimentarista.it, hanno ritenuto che la società in house potesse essere ammessa al concordato preventivo). In senso contrario può, tuttavia, osservarsi che sono le stesse Sezioni Unite ad aver avuto cura di precisare nella motivazione che la mancanza di alterità soggettiva tra società ed ente pubblico socio rileva ai soli fini del riparto di giurisdizione e non è, quindi, necessariamente estensibile al di là del problema specifico per il quale è stata formulata (Cass. n. 26283/2013 ha ritenuto che la costruzione della società in house come articolazione interna alla pubblica amministrazione viene affermata «quanto meno ai limitati fini del riparto di giurisdizione»; Trib. Modena 10 gennaio 2014 cit., per cui le SU hanno inteso evidenziare il rapporto di dipendenza organica tra gli amministratori della società e l'ente pubblico, allo scopo, appunto, di equipararne la responsabilità a quella dei dirigenti preposti ai servizi dell'ente pubblico ma senza pervenire, al di là dello stretto ambito del riparto di giurisdizione, alla negazione dell'alterità giuridica tra società e socio). Del resto, come ricordato da App. Napoli 27 ottobre 2015, cit., la giurisprudenza ha, ad altri fini, ampiamente riconosciuto l'alterità soggettiva tra ente pubblico socio e società in house, come, in particolare, è accaduto: ai fini previdenziali, dove si è ritenuto che l'esercizio in house di un servizio pubblico non muti la natura giuridica privata della società ai fini delle ricadute previdenziali sui rapporti di lavoro (Cass. n. 9204/2014); ai fini penali, dove non si dubita dell'applicabilità delle fattispecie incriminatrici previste dal d.lgs. n. 231/2001 anche alle società partecipate da enti pubblici (Cass. pen. n. 28699/2010); ai fini del riparto di giurisdizione in materia di impugnazione degli atti societari a valle, riservati al giudice ordinario, e gli atti amministrativi a monte, rimessi al giudice amministrativo (Cass. S.U., n. 21588/2013); ai fini della giurisdizione ordinaria sulle controversie relative al reclutamento del personale (Cass. S.U., n. 7759/2017). La stessa Corte di cassazione, poi, ha avuto modo di osservare che, in mancanza di norme specifiche che dispongano il contrario, il «paradigma organizzativo» dell'attività svolta rimane quello della società: e ciò vale sia nei rapporti interni tra l'ente socio e la società medesima, che sono regolati esclusivamente dalle norme del diritto societario (ai fini, ad es., dell'impugnativa degli atti compiuti dagli organi sociali), sia, ed a maggior ragione, nei rapporti esterni tra il soggetto societario ed i terzi, ai fini, ad es., della responsabilità della società verso i creditori, ecc. Sembra, in definitiva, che, ai fini che interessano la legge fallimentare, «la società in house non è una mera finzione ma esiste con le sue caratteristiche sostanziali» ed è sottoponibile, quindi, alle procedure concorsuali, al pari delle altre società in mano pubblica (così Trib. Modena 9 gennaio 2014, cit.; Trib. Pescara 14 gennaio 2014, cit.), tanto più allo scopo di equiparare, rispetto alle società non pubbliche, la disciplina in materia di responsabilità (penale e civile) degli amministratori e di revocatoria fallimentare (Dalmartello, Sacchi, Semeghini, 154; Ibba, 2016, 6, 1233 ss.; Fimmanò, 2017, 161 ss). E questa, in effetti, è l'interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, in particolare, con la sentenza Cass. S.U., n. 24591/2016, hanno espressamente ritenuto come l'art. 14 del d.lgs. n. 175, nella parte in cui non solo stabilisce che «le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ne ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi», ma, soprattutto, testualmente menziona nell'ultimo comma la «dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti», fa così un inequivoco ed esplicito riferimento alle società in house, che, appunto, sono le società titolari di affidamenti diretti (cfr. art. 16, 10 comma), eliminando ogni dubbio circa il fatto che le società in house siano regolate dalla medesima disciplina che regola, in generale, le società partecipate, ad eccezione, quanto alle prime, della giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dai loro amministratori e dipendenti: «risultano, così, legislativamente confermate (la stessa Relazione illustrativa al decreto legislativo in commento spiega che “le osservazioni volte a sottrarre le società in house al diritto comune delle crisi d'impresa non sono state accolte”) le conclusioni alle quali era ormai da tempo pervenuta la giurisprudenza di legittimità, la quale, per un verso, ha riconosciuto la sottoponibilità a fallimento delle società partecipate (sul rilievo che la scelta del legislatore di consentire all'ente pubblico l'esercizio di determinate attività mediante società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principî di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità – cfr. Cass. I, n. 22209/2013) e, per altro verso, ha assoggettato amministratori e dipendenti delle società in house alla giurisdizione della Corte dei conti per danno erariale (sulla stregua, dunque, della già menzionata Cass. S.U., n. 26283/2013). In senso conf., Cass. n. 3196/2017, per la quale, «in tema di società partecipate dagli enti locali, la scelta del legislatore di consentire l'esercizio di determinate attività a società di capitali, e dunque di perseguire l'interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza pena la violazione dei principî di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all'interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità. E così, più di recente, ha deciso Cass. n. 5346/2019, per cui la società di capitali con partecipazione in tutto o in parte pubblica, è assoggettabile al fallimento in quanto soggetto di diritto privato agli effetti dell'art. 1 l.fall., essendo la posizione dell'ente pubblico all'interno della società unicamente quella di socio in base al capitale conferito, senza che gli sia consentito influire sul funzionamento della società avvalendosi di poteri pubblicistici, né detta natura privatistica della società è incisa dall'eventualità del cd. controllo analogo, mediante il quale l'azionista pubblico svolge un'influenza dominante sulla società, così da rendere il legame partecipativo assimilabile ad una relazione interorganica che, tuttavia, non incide affatto sulla distinzione sul piano giuridico-formale, tra P.A. ed ente privato societario, che è pur sempre centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall'ente partecipante. Del resto, come visto, da un lato, l’art. 1 l.fall., al pari dell’art. 1, comma 1, c.c.i.i., esclude dall'area della concorsualità gli enti pubblici e non anche le società pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile (art. 4, comma 13, del d.l. n. 95/2012, conv., con modif., dalla l. n. 135/2012, e, quindi, art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 175/2016), nonché quelle sul fallimento, sul concordato preventivo e sull'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (art. 14 d.lgs. n. 175/2016); dall'altro, vanno respinte le suggestioni dirette alla compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui all'art. 4 della l. n. 70/1975, che vieta la istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo». E tale conclusione ha avuto, in effetti, una implicita ma inequivoca, conferma con l'art. 14 del d.lgs. n. 175, il quale testualmente menziona, nell'ultimo comma, la «dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti», facendo così inequivoco ed esplicito riferimento alle società in house, che, appunto, sono le società titolari di affidamenti diretti (art. 16, comma 1) (D'Orazio, 2017, 244). Se il fallimento (o la liquidazione giudiziale) colpisce una società in house, l'esercizio provvisorio potrebbe durare in astratto – e sempre che la prosecuzione dell'impresa non danneggi i creditori e non sia interrotta dagli organi della procedura – fino alla scadenza del contratto pubblico ricevuto in “affidamento diretto”, allo scopo di salvaguardare la continuità dell'attività ad essa affidata nell'interesse generale e di evitarne un'interruzione pregiudizievole per la collettività, ferma restando la facoltà dell'ente pubblico controllante e affidante, ricorrendone le condizioni, attivare i rimedi negoziali previsti per la risoluzione del contratto di appalto o di concessione, rescindere il rapporto anticipatamente e procedere al riaffidamento (Guerrera, 2017, 379), purché, come stabilito dall'art. 14, comma 6, ciò non avvenga, nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento, nelle forme di una nuova società: la norma, infatti, stabilisce che, nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società, né acquisire o mantenere partecipazioni in società, qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita. In ogni caso, la titolarità o la gestione del contratto pubblico non potrebbero transitare, in forza di una decisione degli organi del fallimento, a un imprenditore privato selezionato, nel corso e con le regole di esso, come affittuario o acquirente dell'azienda o assuntore del concordato fallimentare o nuovo socio di controllo della società fallita (le cui partecipazioni dovrebbero cedersi a seguito del conferimento dell'azienda ai sensi dell'art. 105, comma 8, l.fall. o 214, comma 7, c.c.i.i.), senza osservare le procedure competitive di evidenza pubblica stabilite dal Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) per l'affidamento del servizio o dell'appalto, salvi i casi previsti dagli artt. 106 e 175 dello stesso codice, i quali prevedono che i contratti di appalto e di concessione possono essere modificati, senza una nuova procedura di affidamento, se all'aggiudicatario o al concessionario iniziale succede, anche a seguito di ristrutturazioni societarie, fusioni, scissioni, acquisizione o insolvenza, un altro operatore economico che soddisfi i criteri di selezione inizialmente stabiliti, purché ciò non implichi altre modifiche sostanziali al contratto (sul punto, cfr. Guerrera, 2017, 379, 380). In caso di fallimento (o di liquidazione giudiziale) della società, infine, le amministrazioni pubbliche socie non possono costituire, come detto, per cinque anni, nuove società ovvero acquisire o mantenere partecipazioni in società che gestiscano i medesimi servizi della società fallita (art. 14, ult. comma). La norma non chiarisce se il divieto operi anche nei casi in cui la società insolvente sia ammessa alle altre procedure concorsuali diverse dal fallimento, come il concordato preventivo. L'interpretazione restrittiva sembra, tuttavia, inevitabile (in tal senso, Fimmanò, 2017, 161 ss), pur prestandosi a possibili abusi. Anche la società mista è assoggettata al fallimento (D'Orazio, 2017, 244): anche in tal caso, è possibile l'esercizio provvisorio dell'impresa (Guerrera, 2017, 380). Il concordato preventivo e le altre procedure concorsuali.L'assoggettamento (o l'esonero) delle società pubbliche al fallimento determina l'assoggettamento (o l'esonero) delle stesse anche alla procedura di concordato preventivo. L'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 175, infatti, prevede espressamente che «le società a partecipazione pubblica sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo». La norma, per come è formulata, sembra consentire alla società pubblica l'accesso a qualsiasi tipo di concordato preventivo, indipendentemente dalla sua natura esclusivamente liquidatoria ovvero in qualche modo connessa alla c.d. “continuità aziendale”. Non è mancato, tuttavia, chi ha ritenuto che, nel particolare caso delle “società a controllo pubblico” (e non per tutte le società pubbliche), il riferimento al “concordato preventivo” dev'essere interpretato in termini restrittivi, ammettendo per tali società solo il concordato in continuità aziendale e non anche quello di genere puramente liquidatorio (Chionna, 511). La previsione che le società a partecipazione pubblica sono assoggettate, ove ne ricorrano i presupposti, alle norme in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza non costituisce, invece, una novità. Il d.l. n. 134/2008, convertito dalla l. n. 166/2008, aveva, infatti, previsto che le grandi imprese in crisi operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali potessero essere sottoposte alla procedura di amministrazione straordinaria. Deve escludersi, infine, che le società a partecipazione pubblica possano accedere alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, che trovano applicazione per i soli debitori “non fallibili” (Chionna, 511 ss.), ed alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, a meno che una specifica legislazione speciale ne preveda l'applicazione a talune società (Fimmanò, 2017, 161). I doveri degli amministratori di prevenzione e di gestione della crisi.Gli amministratori delle società a controllo pubblico, a norma dell'art. 6, comma 2, hanno l'obbligo – peraltro già operante in base alle norme di diritto comune (artt. 2381, commi 3 e 5, 2423-bis e 2428 c.c.) – di predisporre specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale, informandone l'assemblea nella relazione annuale sul governo societario che devono predisporre annualmente a chiusura dell'esercizio sociale. Analogo obbligo sussiste sugli amministratori delle società a partecipazione pubblica, ma non a controllo pubblico, ove lo richieda l'amministrazione pubblica che sia titolare di una partecipazione pubblica superiore al dieci per cento (art. 11, comma 13). Gli amministratori delle società pubbliche, quindi, al di là degli squilibri patrimoniali che possono dar luogo alla perdita del capitale (artt. 2446,2447 e 2482-ter c.c.), hanno il dovere – che, all'esito della riforma della disciplina in materia di crisi d'impresa, è testualmente previsto a carico degli amministratori di tutte le società (artt. 2086 c.c. e 3 c.c.i.i.) – di monitorare la situazione finanziaria della società nonché di attivarsi per prevenire l'insorgenza della crisi ed, una volta insorta, di adottare tempestivamente uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il suo superamento (Guerrera, 2017, 373), allo scopo di evitarne l'aggravamento. Ed infatti, qualora emergano, nell'ambito dei predetti programmi di valutazione del rischio, uno o più indicatori di crisi aziendale, l'organo amministrativo della società a controllo pubblico ha il dovere di adottare senza indugio, attraverso un idoneo piano di risanamento, i provvedimenti necessari al fine di prevenire l'aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause (art. 14, comma 2). Tale piano assumerà verosimilmente la forma del piano di risanamento attestato, ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall.: solo così, infatti, gli atti posti in essere in esecuzione del piano sono esentati dalla revoca per il caso in cui la società dovesse, in seguito, fallire (Guerrera, 2017, 374). La mancata adozione di provvedimenti adeguati ai predetti fini, da parte dell'organo amministrativo, pur a fronte dell'emersione di uno o più indicatori di crisi aziendale, costituisce grave irregolarità ai sensi dell'art. 2409 c.c. (art. 14, comma 3). La crisi finanziaria della società di capitali a partecipazione pubblica si manifesta, in genere, congiuntamente ad uno squilibrio economico e patrimoniale che esige l'adozione degli opportuni provvedimenti ai sensi degli artt. 2446 e 2482-bis c.c. e la copertura delle perdite cumulate. L'art. 14, comma 4, prescrive, al riguardo, che «non costituisce provvedimento adeguato, nella gestione della crisi da parte del socio pubblico, la previsione di un ripianamento delle perdite da parte dell'amministrazione o delle amministrazioni pubbliche socie anche se attuato in concomitanza ad un aumento di capitale o ad un trasferimento straordinario di partecipazioni o al rilascio di garanzie o in qualsiasi altra forma giuridica, a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale, dal quale risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività svolte, approvato a norma di legge» (art. 14, comma 4). La norma, sia per assicurare la corretta gestione della finanza pubblica, che per prevenire aiuti di stato alle imprese in crisi, intende evitare che l'ente pubblico socio esegua versamenti in conto capitale, anche se si tratta della sottoscrizione di un aumento di capitale, a meno che tali risorse riescano a garantire, in una prospettiva effettiva e riscontrabile, il risanamento della società. In buona sostanza – a differenza del passato – il legislatore ha previsto che le risorse di finanza pubblica non potranno più essere utilizzate liberamente dalla politica per sanare le crisi delle “società a controllo pubblico” al di fuori di ogni progetto e controllo ma dovranno essere necessariamente inquadrate in precisi piani di risanamento dai quali, appunto, «risulti comprovata la sussistenza di concrete prospettive di recupero dell'equilibrio economico delle attività» (Chionna, 511). La Corte dei conti, in effetti, si è spesso pronunciata in senso contrario al ripianamento delle perdite da parte degli enti in mancanza della garanzia di un risanamento prospettico della società, affermando, in particolare, che l'amministrazione locale che non intende prendere atto dello scioglimento della società ai sensi dell'art. 2484, n. 4 c.c. – ma, al contrario, decide di sobbarcarsi un ulteriore onere finanziario per ricapitalizzare la società – deve ampiamente motivare detta scelta sia in chiave positiva sia in chiave negativa. Sotto il primo profilo, l'amministrazione locale deve dare conto di aver valutato attentamente i costi di gestione mediante un piano industriale o un business plan. Inoltre, l'amministrazione locale deve dare conto delle ragioni per le quali ritiene più efficiente ed economico ricapitalizzare la società piuttosto che prendere atto del suo scioglimento a causa di una gestione che ha generato perdite per oltre un terzo che hanno ridotto il capitale al di sotto del limite di legge (C. conti sez. reg. controllo Lombardia, n. 96 del 5 marzo 2014).
Circolazione dell'azienda in caso di fallimento e di concordato.In caso di fallimento (o di liquidazione giudiziale) della società a partecipazione pubblica, la separazione delle sorti dell'impresa da quelle dell'imprenditore potrà realizzarsi mediante l'affitto prima e poi la cessione o il conferimento in una newco dell'azienda cui l'esercizio provvisorio prelude, in vista di una liquidazione ottimale delle attività, ovvero, in virtù di un concordato fallimentare con assunzione o riorganizzativo (accompagnato, cioè, da una operazione di aumento di capitale o di fusione, scissione o scorporo), che preveda il trasferimento o l'assegnazione dell'azienda o del ramo corrispondente al settore d'attività da continuare – con la dotazione della commessa pubblica che ne rappresenta di norma il nucleo più importante – a un'entità nuova e diversa, sul piano soggettivo o dell'assetto proprietario. Tuttavia, queste vicende circolatorie e modificative dell'impresa societaria, regolate dal diritto comune delle procedure concorsuali, devono essere coordinate con la disciplina dei contratti pubblici, giacché, a prescindere dal rilievo dello stato d'insolvenza, esse possono determinare il mutamento soggettivo del contraente. Al riguardo, il nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) stabilisce, agli artt. 106, comma 1, lett. d), n. 2 e 175, comma 1, lett. d), n. 2, che i contratti di appalto e di concessione possono essere modificati, senza una nuova procedura di affidamento, se all'aggiudicatario o al concessionario iniziale succede «... anche a seguito di ristrutturazioni societarie, comprese rilevazioni, fusioni, scissioni, acquisizione o insolvenza, un altro operatore economico che soddisfi i criteri di selezione qualitativa stabiliti inizialmente, purché ciò non implichi altre modifiche sostanziali al contratto e non sia finalizzato a eludere l'applicazione del presente Codice». È fatta salva, tuttavia, per le concessioni, l'eventuale necessaria autorizzazione del concedente da rilasciarsi in base alla regolamentazione di settore. Ciò consente di conciliare le regole pubblicistiche con le discipline del fallimento e del concordato, che sono volte a massimizzare il soddisfacimento dei creditori, proprio nei casi in cui il valore economico della società a partecipazione pubblica dipende dal rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione costituente, partecipante o controllante (Guerrera, 2017, 379). Il ripianamento delle perdite.Nel caso in cui società partecipate dalle pubbliche amministrazioni locali, comprese nell'elenco di cui all'art. 1, comma 3, della l. n. 196/2009, presentino un risultato di esercizio negativo, le pubbliche amministrazioni locali partecipanti, che adottano la contabilità finanziaria, accantonano nell'anno successivo in apposito fondo vincolato un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione. L'importo accantonato è reso disponibile in misura proporzionale alla quota di partecipazione nel caso in cui l'ente partecipante ripiani la perdita di esercizio o dismetta la partecipazione o il soggetto partecipato sia posto in liquidazione. Nel caso in cui i soggetti partecipati ripianino in tutto o in parte le perdite conseguite negli esercizi precedenti l'importo accantonato viene reso disponibile agli enti partecipanti in misura corrispondente e proporzionale alla quota di partecipazione. Le pubbliche amministrazioni locali partecipanti possono procedere al ripiano delle perdite subite dalla società partecipata con le somme accantonate, nei limiti della loro quota di partecipazione e nel rispetto dei principî e della legislazione dell'Unione europea in tema di aiuti di Stato. Tuttavia, il comma 5 dell'art. 14, riproducendo la normativa già prevista dall'art. 6, comma 19, del d.l. 78/2010, convertito dalla l. n. 122/2010, e successive modificazioni, ha ribadito che, per le società pubbliche che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite, anche infrannuali, le amministrazioni pubbliche socie non possono procedere ad aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, né il rilascio di garanzie a favore delle stesse, salvo il caso della riduzione del capitale della società per perdite di oltre un terzo previsto dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c., rispettivamente, per le società per azioni e per le società a responsabilità limitata. Sono, invece, in ogni caso consentiti i trasferimenti straordinari soltanto a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma relativi allo svolgimento di servizi di pubblico interesse ovvero alla realizzazione di investimenti, purché le misure indicate siano contemplate in un piano di risanamento, approvato dall'Autorità di regolazione di settore ove esistente e comunicato alla Corte dei conti, che contempli – a differenza del piano di risanamento contemplato dal comma 4, che non prevede alcun limite temporale – il raggiungimento dell'equilibrio finanziario entro tre anni. Peraltro, al fine di salvaguardare la continuità nella prestazione di servizi di pubblico interesse, a fronte di gravi pericoli per la sicurezza pubblica, l'ordine pubblico e la sanità, su richiesta della amministrazione interessata, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (adottato su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con gli altri Ministri competenti e soggetto a registrazione della Corte dei conti) possono essere autorizzati i detti interventi di carattere urgente. 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Il presupposto soggettivo, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, Trattato, diretto da Ragusa Maggiore e Costa, I, Torino, 1997; Salvato, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, in Dir. fall. 2010, I, 619-620; Sandulli-Potito, La Legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, Sandulli e Santoro, Torino, 2010; Scarafoni, Il fallimento delle società a partecipazione pubblica, in Dir. fall. 2010, 448. |