Esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. Le novità normative del d.lgs. 121/2018Fonte: D.Lgs. 2 ottobre 2018 n. 121
08 Novembre 2018
Abstract
La normativa per l'esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni e dei giovani aventi un'età inferiore ai venticinque anni, c.d. giovani adulti, risponde alla necessità reclamata da tempo di poter disporre di un ordinamento penitenziario minorile, attento alle peculiari caratteristiche ed esigenze di tali soggetti e teso alla valorizzazione del relativo percorso educativo e di inserimento sociale. Considerazioni introduttive
Il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 26 ottobre 2018, n. 250 e in vigore dal 10 novembre 2018, attua la delega contenuta nella legge 23 giugno 2017, n. 103, recante Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario, di cui recepisce le disposizioni contenute all'art. 1, commi 81, 83 e 85 lett. p), e si occupa della riforma relativa all'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. Con esso si colma una lacuna che perdurava ormai da oltre quarant'anni, poiché l'unica previsione rilevante in materia era quella posta tra le disposizioni transitorie e finali della l. 354/1975, il cui art. 79, comma 1, stabiliva che le norme dell'ordinamento penitenziario dettate per gli adulti «[...] si applicano anche nei confronti dei minori sottoposti a misure penali fino a quando non sarà provveduto con apposita legge». Costituivano eccezione alla totale mancanza di una disciplina sull'esecuzione minorile alcune scarne specificazioni contenute nel regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario – quali quelle in materia di lavoro, alimentazione o vestiario – del tutto insoddisfacenti a garantire quella disciplina organica che le peculiarità legate alla giovane età imponevano. L'impellenza di una riforma – sottolineata fin da subito dalla Corte costituzionale (Corte cost., n. 46/1978) – era ancor più sentita anche in considerazione del fatto che il d.P.R. 448/1988, che aveva introdotto la normativa sul processo penale a carico degli imputati minorenni, si era limitato alla disciplina della fase di cognizione. Esso, infatti, pur modificando l'approccio al minore imputato nel senso di un netto superamento di quelle finalità terapeutiche e correzionali che avevano animato il r.d.l. 1404/1934 a tutto vantaggio dell'interesse/dovere dello Stato al recupero del minore secondo una «complessiva ispirazione rieducativa» (Corte cost. n. 182/1991), non aveva sviluppato la disciplina minorile con riferimento all'esecuzione penitenziaria. Ne derivava un sistema inadeguato, sovente tacciato di dubbi di legittimità costituzionale e irrispettoso delle indicazioni contenute nelle Convenzioni internazionali sulla protezione dell'infanzia e sull'amministrazione della giustizia minorile, che reclamavano una specifica attenzione in materia. Da una parte, infatti, molteplici si rivelano i tasselli apposti nel tempo da parte della Consulta, investita della necessità di colmare il vuoto normativo nel rispetto dei dettami costituzionali e, in specie, della finalità rieducativa della pena ex art. 27, comma 3, Cost. e della tutela della gioventù con la promozione degli istituti necessari a tale scopo ex art. 31, comma 2, Cost. Così, in una rapida carrellata, vengono in rilievo una serie di pronunce con cui, dapprima, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità sollevata sul citato art. 79, si è sollecitato il Legislatore ad attuare una tempestiva riforma in materia, valorizzando le esigenze di individualizzazione e di flessibilità del trattamento che l'evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono (Corte cost., n. 125/1992). Quindi, hanno fatto seguito una serie di altre pronunce che, lungi dal limitarsi a vacui ammonimenti tesi a una riforma normativa, hanno via via dichiarato illegittima l'applicazione ai minorenni di diverse norme dell'ordinamento penitenziario e del relativo regolamento di esecuzione, perché contrastanti con il principio di protezione della personalità del minore, quale valore costituzionalmente garantito. Tra queste, un cenno può essere fatto a quella sentenza con cui si è censurata la legittimità dell'art. 67 l. 689/1981 nella parte in cui prevedeva, anche nei confronti dei minorenni, il divieto di disporre misure alternative in caso di condanna a pena detentiva, derivante dalla conversione conseguente alla violazione di prescrizioni inerenti a sanzioni sostitutive, in quanto - parificando il trattamento dei minori a quelli degli adulti - introduceva elementi di rigidità e di automatismo incompatibili con la peculiare situazione del minore (Corte cost., n. 109/1997). Ancora, nel senso di valorizzare l'illegittimità di un sistema poco attento alle esigenze di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento, devono essere menzionate la pronuncia con la quale si è censurato l'art. 30-ter, comma 5, ord. pen. nella parte in cui estendeva ai detenuti minorenni il divieto di concessione di permessi premio nei due anni successivi alla commissione di un delitto doloso durante l'espiazione della pena (Corte cost., n. 403/1997); quella con cui si è dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 59 l. 689/1981, nella parte in cui estendeva agli imputati minorenni le condizioni soggettive che precludono l'adozione delle sanzioni sostitutive (Corte cost., n. 16/1998) e quella che ha censurato l'art. 30-ter, comma 4, lett. c), ord. pen. nella parte in cui estendeva ai minorenni condannati per reati ex art. 4-bis la concessione di permessi premio condizionata all'espiazione di almeno metà della pena e comunque di non oltre dieci anni (Corte cost. n. 450/1998). Quindi, merita un sicuro riferimento nella medesima direzione anche la pronuncia della Corte costituzionale che ha censurato l'art. 58-quater, comma 2, ord. pen., che precludeva anche al minore d'età la concessione di benefici penitenziari per un periodo di tre anni nel caso in cui il condannato fosse incorso nella revoca di una misura alternativa (Corte cost., n. 436/1999), o, più di recente, quella sentenza con la quale i giudici della Consulta hanno dichiarato l'illegittimità dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui ostava alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per i gravi delitti indicati nella norma (Corte cost., n. 90/2017). Da un'altra parte, poi, fondamentale appare il richiamo a valori quali l'individualizzazione del trattamento, il ricorso privilegiato a misure alternative, la necessaria separazione dei minori dagli adulti nei luoghi di detenzione e la carcerazione quale extrema ratiocontenuti nelle fonti sovranazionali. Tra esse, menzione autonoma meritano le fondamentali Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile approvate dall'Assemblea generale delle Nazioni unite del 29 novembre 1985, c.d. Regole di Pechino; le Regole Onu per la protezione dei minori privati della libertà approvate dall'Assemblea generale delle Nazioni unite del 14 dicembre 1990; la Racc. (08) 11 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sulle regole di trattamento per i condannati minorenni sottoposti a sanzioni o a misure restrittive della libertà personale del 5 novembre 2008; le Linee Guida per una giustizia a misura di minore, adottate dal Consiglio d'Europa nel 2010 e, da ultimo, la direttiva 2016/800/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Un'ultima notazione di carattere generale attiene al fatto che la normativa in commento ha previsto l'estensione della tutela prevista per il minorenne anche ai c.d. giovani adulti, ossia i soggetti con un'età compresa tra i diciotto e i venticinque anni. Ebbene, una tale innovazione, motivata dall'esigenza di non interrompere i percorsi educativi in atto, non può che essere accolta positivamente, ponendosi peraltro sulla scia di quanto già operato nella medesima direzione dal legislatore nostrano. Questi, infatti, nel modificare l'art. 24, comma 1, d.lgs. 272/1989 con d.l. 92/2014 conv. in l. 117/2014, a seguito delle sollecitazioni della nota sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell'uomo, aveva già chiarito che «le misure cautelari, le misure alternative, le misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell'esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di età». Disposizioni generali
Analogamente a quanto accade con la normativa che disciplina il procedimento penale a carico degli imputati minorenni, ossia il d.P.R. 448/1988, il cui art. 1 – significativamente rubricato Principi generali del processo minorile – statuisce l'operatività delle disposizioni contenute nel decreto e, per quanto da essere non previsto, la ricorribilità alle previsioni del codice di rito penale, anche il decreto di recente conio sull'esecuzione penale minorile si apre con un Capo I rubricato Disposizioni generali, che regolamenta il c.d. principio di sussidiarietà. In particolare, si prevede che «nel procedimento per l'esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità a carico di minorenni, nonché per l'applicazione di queste ultime, si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale, della l. 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e del d.P.R.ì 22. settembre 1988, n. 448, e relative norme di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con d.lgs 28 luglio 1989, n. 272». Com'è evidente, si tratta di una previsione posta a raccordo tra la disciplina sull'esecuzione penale minorile così come introdotta con la normativa in commento e le altre fonti principali del sistema minorile, processuale penale e penitenziario, con la quale si stabilisce un criterio di priorità nell'individuazione delle fonti normative di riferimento che, solo laddove non trovino espressa disciplina nelle previsioni di nuovo conio, prevederanno per quanto da esse non previsto il richiamo, in via sussidiaria, alle norme più generali indicate. Così, nel valorizzare la specificità della disciplina normata, finalmente posta a salvaguardia del microsistema dell'esecuzione penale minorile, se ne dichiara implicitamente la natura non autosufficiente, laddove - per carenza o incompletezza di previsioni - sia necessario fare ricorso alle previsioni generali in materia. Ebbene, pur in mancanza di un espresso richiamo al criterio di adeguatezza applicativa che, in seno alla disciplina processuale (art. 1, comma 1, seconda parte, d.P.R. 448/1988), impone l'applicazione delle previsioni "in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne", si ritiene che un tale criterio operativo possa pacificamente estendersi anche al caso considerato, sia in ragione del richiamo generale al citato d.P.R., sia in ragione della specificità della situazione tutelata e dell'attenzione alla personalizzazione del trattamento, che è criterio che permea di sé l'intera materia. Così, delineato l'an delle regole normative di riferimento e, implicitamente, il quomodo, il d.lgs passa a tratteggiare le finalità dell'esecuzione, che - si legge - del tutto prioritariamente, "deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato", secondo una definizione che, innestandosi nel dibattito sull'alternarsi di funzione retributiva e rieducativa della pena, pone quale primo obiettivo dell'esecuzione la sperimentazione dei percorsi di c.d. restorative justice. Non v'è chi non veda come una tale impostazione, in linea con la riscoperta della vittima nel processo penale – vieppiù avvalorata dall'attuazione anche in Italia della Direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 a opera del d.lgs. 212/2015 – si ponga sulla scia di quanti osservano l'importanza che gli istituti di giustizia riparativa, e, tra questi, principalmente della mediazione autore/vittima, possano assumere anche in fase esecutiva. A ben vedere, si tratta di un tema particolarmente valorizzato anche in seno al Tavolo 5 degli Stati Generali dell'Esecuzione Penale, dedicato ai Minorenni autori di reato, che addirittura ne aveva sollecitato lo sviluppo in una duplice direzione, rimasta inattuata. Da una parte, si auspicava l'introduzione della mediazione in fase esecutiva, ricollegando al suo felice esito un'anticipazione dei tempi di accesso alle misure extramurarie; dall'altra, si proponeva l'introduzione di una nuova sanzione peculiare per il minore di carattere reintegrativo, consistente nello "svolgimento di attività riparatorie o di pubblica utilità" (cfr. d.d.l. n. 1352 - Marchesini e altri, presentato nella XVII Legislatura al Senato). Quindi, con un previsione che specifica e arricchisce di tutela quanto già emerge dal combinato disposto di cui agli artt. 27, comma 3, e 31, comma 2, Cost., si precisa che l'esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità «tende altresì a favorire la responsabilizzazione, l'educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, la preparazione alla vita libera, l'inclusione sociale e a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e ad attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero». In tal senso - e nella valorizzazione dell'utilizzo del termine educazione in luogo di quello contemplato nella previsione costituzionale che parla di rieducazione – non può non ricordarsi quanto segnalato dalla Relazione Illustrativa che, nel sottolineare il carattere pedagogico che connota l'ordinamento penitenziario minorile, richiama quella pronuncia della Corte costituzionale, che, in relazione all'art. 31, comma 2, Cost., aveva affermato che esso impone un «mutamento di segno al principio rieducativo immanente alla pena, attribuendo a quest'ultima, proprio perchè applicata nei confronti di un soggetto ancora in formazione e alla ricerca di una propria identità, una connotazione educativa più che rieducativa, in funzione di un suo inserimento maturo nel consorzio sociale» (Corte cost., n. 168/1994). Il Capo II contempla gli artt. dal 2 all'8 e disciplina in maniera del tutto innovativa le c.d. misure penali di comunità, le quali, previste ad esclusivo vantaggio dei condannati minori d'età e dei giovani adulti, rispondono appieno alla logica del trattamento differenziato e della carcerazione quale extrema ratio. In particolare, secondo l'elencazione contenuta nel comma 1 dell'art. 2 «sono misure penali di comunità l'affidamento in prova al servizio sociale, l'affidamento in prova con detenzione domiciliare, la detenzione domiciliare, la semilibertà, l'affidamento in prova in casi particolari». Si tratta di un catalogo nutrito di istituti che, pur prendendo le mosse dalle corrispondenti previsioni contemplate dall'ordinamento penitenziario degli adulti al Capo IV del Titolo I della l. n. 354/1975 (previsioni operanti nel caso considerato previo vaglio di compatibilità), se ne discosta laddove appare specificamente pensato per meglio rispondere alle peculiarità della condizione psico-fisica del soggetto minorenne o di età inferiore ai venticinque anni. In tal senso, del tutto singolare e poco in linea con le finalità proclamate si mostra, invece, la previsione contenuta nel comma 3 dell'art. 2, che prevede l'applicazione dell'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis ord. pen. anche ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l'assegnazione del lavoro esterno dei giovani condannati. Le misure penali di comunità - vera novità della riforma - sono disposte solo laddove risultino in concreto idonee a favorire l'evoluzione positiva della personalità e un proficuo percorso educativo e di recupero, potendo ostare alla loro attivazione solo la sussistenza di un fondato pericolo che il condannato si sottragga all'esecuzione o commetta altri reati. Parallelamente a quanto accade in seno al procedimento penale minorile in cui la valutazione della personalità del minore operata ai sensi dell'art. 9 d.P.R. 448/1988 costituisce la base su cui fondare la costruzione di un percorso giudiziario il più possibile parametrato alle esigenze e alle peculiarità soggettive dell'imputato minorenne, così l'osservazione e la valutazione della personalità del minorenne, delle condizioni di salute psico-fisica, dell'età e del grado di maturità, del contesto di vita e di ogni altro elemento utile rappresentano anche in sede di esecuzione il fondamento conoscitivo da porre a base della decisione del tribunale di sorveglianza. Inoltre, nel valorizzare ulteriormente in fase esecutiva il ruolo assai pregnante già rivestito dall'ufficio di servizio sociale per i minorenni in seno al procedimento penale del minore, si deve altresì tenere in espressa considerazione non solo la proposta di programma di intervento educativo dallo stesso redatta (programma che sempre dovrà accompagnare una tale misura - art. 2, comma 2), ma anche dell'esistenza di percorsi formativi in atto (art. 2, comma 4). Questi, infatti, devono essere attentamente valutati nell'ottica dell'individualizzazione del trattamento e della necessità di non interrompere i processi educativi già positivamente avviati. Nella delicata operazione di scelta della misura più adeguata al caso concreto e ai connotati personologici del soggetto, poi, il tribunale persegue l'obiettivo di garantire il più rapido inserimento sociale del condannato con il minor sacrificio possibile per la sua libertà personale (art. 2, comma 5), giovandosi del sostegno e della supervisione dei servizi sociali e scongiurando il pericolo di recidiva. Così poste le linee guida del sistema delle misure penali di comunità, si stabilisce ancora che le stesse debbano avere una durata pari a quella della pena da eseguire (art. 2, comma 6) e che la loro esecuzione debba avvenire principalmente nel contesto di vita del minorenne e nel rispetto delle positive relazioni socio-familiari (art. 2, comma 7). Si tratta di quello che, nella Relazione Illustrativa, è stato definito come "principio di territorialità", volto a favorire un più agevole ritorno del minorenne nel proprio ambiente di di vita, da contemperarsi però sempre con le peculiarità del caso considerato e, in particolare, con l'eventuale esistenza di situazioni negative o comunque pregiudizievoli riconducibili proprio al contesto di appartenenza. In tal senso, il decreto legislativo - nel sottolineare l'esigenza che il tribunale di sorveglianza acquisisca preliminarmente specifiche informazioni proprio sul contesto di vita familiare e ambientale, sui precedenti delle persone con cui il minorenne conviva e sull'idoneità o meno del domicilio presso cui dovrebbe attuarsi la misura (art. 2, comma 10) - prende in considerazione espressamente come parametro da valorizzare nella scelta di derogare al citato principio di territorialità l'esistenza di generici "motivi contrari" e, "in ogni caso", la sussistenza di "elementi tali da far ritenere collegamenti con la criminalità organizzata" (art. 2, comma 7). Tuttavia, si ritiene come non meno rilevante appaia l'altra evenienza presa in considerazione expressis verbis dalla Relazione Illustrativa, ossia quella dei minori stranieri o di quanti vivono il dramma della marginalità sociale, il cui contesto di vita deve essere costruito ex novo per mancanza di ogni sostegno sul territorio, che è ipotesi la quale, pur non essendo contemplata espressamente, può però certamente rientrare nella citata categoria dei motivi contrari. Ebbene, posto che notoriamente le misure alternative alla detenzione rischiano di non trovare spazio applicativo in caso di mancanza di un adeguato domicilio che consenta il mantenimento di un contatto sicuro e costante del condannato con i servizi sociali deputati al controllo del percorso extra-murario e - probabilmente - allo scopo di favorire il ricorso alle misure penali di comunità anche nei suddescritti casi di inadeguatezza dell'ambiente di provenienza o di mancanza di legami con il territorio, si prevede altresì la possibilità di applicare la misura mediante il collocamento dell'interessato in una comunità pubblica o del privato sociale (art. 2, comma 8). In alternativa, è la stessa previsione normativa che - nel valorizzare il ruolo attribuito all'ufficio di servizio sociale per i minorenni che agisce in maniera coordinata con i servizi socio-sanitari di residenza del minorenne e, per i detenuti, anche con il gruppo di osservazione e trattamento dell'istituto di appartenenza (art. 2, comma 9) - stabilisce che l'ufficio di servizio sociale per i minorenni predisponga gli interventi necessari al fine di individuare un domicilio o un'altra situazione abitativa, tale da consentire l'applicazione della misura penale di comunità (art. 2, comma 11).
Per quanto concerne poi le prescrizioni e le modalità esecutive che devono caratterizzare l'applicazione di una misura penale di comunità, l'art. 3 prevede che il tribunale di sorveglianza prescriva lo svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito o di volontariato (art. 3, comma 1), da svolgersi sempre «compatibilmente con i percorsi di istruzione, formazione professionale, le esigenze di studio, di lavoro, di famiglia e di salute del minorenne» e stabilendo altresì come le stesse «non devono mai compromettere i percorsi educativi in atto» (art. 3, comma 2). Si tratta di una previsione tesa alla valorizzazione delle finalità di risocializzazione e recupero del minore deviante che, solo in quanto positivamente impegnato in un percorso formativo, potrà abbandonare la scelta criminale e orientare il proprio comportamento futuro verso modelli socialmente adeguati. L'esistenza di un percorso strutturato e di un programma costellato di prescrizioni costruite sulla situazione personale del soggetto risponde, infatti, alla necessità di responsabilizzazione del condannato nel convincimento che lo stesso, proprio per il fatto di possedere una personalità in fieri, vulnerabile, ancora in formazione, possa essere positivamente orientato in un percorso di progressiva resipiscenza e di proficuo inserimento nella società. Peraltro, la scelta di prevedere lo svolgimento da parte del condannato di attività a favore della comunità, nell'ottica di una sempre maggiore territorializzazione dell'esecuzione, non può che rafforzare il senso di sicurezza collettiva, da perseguirsi mediante un coinvolgimento attivo della compagine sociale con lo scopo di cambiare, da un lato, la percezione del reato commesso e, dall'altra, lo sguardo della comunità nei confronti del reo. Infine, si prevede la partecipazione del nucleo familiare del giovane condannato, che verrà coinvolto nel progetto di intervento, ad ulteriore rafforzamento del percorso di sostegno del minore, oltreché la previsione della possibilità per il tribunale di sorveglianza di adottare d'urgenza le più opportune misure civili (art. 3, comma 3).
Quindi, agli artt. 4-7 si passa a descrivere i presupposti e le condizioni di applicabilità delle varie misure penali di comunità. In maniera del tutto significativa, l'ordine di previsione delle stesse è quello ascendente di un crescendo di afflittività che, partendo dalla più favorevole misura dell'affidamento in prova al servizio sociale, prevede poi la variante, appositamente pensata per i giovani condannati, dell'affidamento in prova con detenzione domiciliare, quindi la detenzione domiciliare e, infine, la semilibertà.
Come si legge nella Relazione illustrativa, la disciplina dell'affidamento in prova è ritenuta la misura che «più di ogni altra è in grado di soddisfare le istanze educative del condannato minorenne e giovane adulto, alla luce anche del criterio di delega di cui al n. 5 della lett. p) dell'art. 1, comma 85, della l. 103/2017, atteso il suo prevalente carattere pedagogico e i ridotti contenuti afflittivi». L'art. 4 descrive i presupposti di applicabilità della misura che, diversamente da quanto accade con riferimento ai condannati adulti e in ossequio al citato criterio della legge delega, è concedibile qualora la pena da eseguire - da ritenersi sempre quale pena inflitta in concreto o residua di maggior pena - non superi i quattro anni di reclusione (art. 4, comma 1), in ciò modificandosi lo schema di decreto, che inizialmente prevedeva il limite dei sei anni. Tale misura contempla l'affidamento all'ufficio di servizio sociale per i minorenni per lo svolgimento di uno specifico programma di intervento educativo elaborato in collaborazione con i servizi socio-sanitari territoriali. Esso prevede una serie di prescrizioni relative agli impegni del condannato in tema di istruzione, formazione professionale, lavoro ma anche dimora e libertà di movimento e di frequentazioni personali (art. 4, comma 2), nonché obblighi di assistenza familiare e ogni altra prescrizione utile per l'educazione e il positivo inserimento sociale del minorenne, compreso l'eventuale collocamento in comunità, sempre disponibile qualora il minore non disponga di un domicilio adeguato e rischi per ciò solo di non poter accedere alla misura premiale. L'ordinanza con la quale si dispone la suddetta misura, poi, deve indicare il ruolo dei servizi coinvolti e le modalità di svolgimento delle attività di utilità sociale (art. 4, comma 4). Per quanto concerne, in particolare, il ruolo dei servizi sociali dell'amministrazione della giustizia, essi svolgono una funzione fondamentale sia in fase di predisposizione del progetto, sia in fase di esecuzione della misura, incontrando l'affidato e assistendolo nel percorso di reniserimento sociale (art. 4, comma 6). Inoltre, gli stessi, che ben conoscono la situazione personale del minore, il contesto di vita e quello sociale, economico e familiare, potranno avanzare al magistrato istanze tese alla modifica delle prescrizioni, laddove situazioni contingenti rendano necessario un miglior adattamento degli obblighi in misura più confacente per il condannato (art. 4, comma 5), così attuando quella esigenza di flessibilità del trattamento che rappresenta uno dei punti cardine della riforma in materia.
Del tutto innovativa si presenta, poi, la misura penale di comunità dell'affidamento in prova con detenzione domiciliare, sconosciuta al sistema penitenziario dell'adulto e particolarmente in linea con la logica di massima valorizzazione delle misure extra-murarie contenuta nel criterio di delega di cui all'art. 1, comma 85, lett. p), n. 4 della l. 103/2017. Essa, infatti, consente l'attuazione della misura alternativa in tutti quei casi in cui il solo affidamento in prova corredato dalle più opportune prescrizioni di "fare" o "non fare" non sia ritenuto bastevole ma sia necessario supportare il programma personalizzato per il condannato con la prescrizione di specifici obblighi di "stare" in un determinato luogo. In particolare, ai sensi dell'art. 5 si stabilisce che il tribunale di sorveglianza può applicare l'affidamento in prova al servizio sociale con detenzione domiciliare in giorni determinati della settimana presso l'abitazione dell'affidato, altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso comunità. Com'è evidente, si tratta di una misura che amplia il catalogo delle misure applicabili nei confronti dei soggetti in giovane età allo scopo di rispondere maggiormente alle esigenze di personalizzazione del trattamento. Essa, inoltre, in un crescendo di afflittività, si pone a metà strada tra l'affidamento in prova e la detenzione domiciliare, alla cui disciplina si richiama quanto alle forme di esecuzione (art. 5, comma 2). Di entrambe le misure condivide gli aspetti qualificanti, ma si presenterà più afflittiva rispetto alla prima imponendo vincoli maggiori alla libertà di movimento del soggetto e meno afflittiva della seconda prevedendo la detenzione domiciliare solo in predeterminati giorni della settimana.
Quindi, si passa alla disamina della misura della detenzione domiciliare, il ricorso alla quale è previsto come residuale nel caso in cui non sussistano le condizioni per accedere ai più favorevoli istituti dell'affidamento in prova e dell'affidamento in prova con detenzione domiciliare. In questi casi, si prevede che il condannato possa espiare la pena detentiva in misura non superiore a tre anni nella propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso comunità, ancora una volta innovandosi rispetto allo schema di decreto legislativo che prevedeva il limite di quattro anni. Nonostante il tenore letterale della delega parlasse genericamente di "ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative alla detenzione", si è ritenuto che la successiva specificazione "con particolare riferimento ai requisiti per l'ammissione dei minori all'affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà" non fosse affatto preclusivo rispetto alla possibilità di regolamentare anche questo istituto, ampliandone i limiti di pena di accesso rispetto a quelli previsti per gli adulti (cfr. Relazione preliminare). La norma di riferimento è l'art. 6 che richiama la disciplina generale di cui all'art. 47-ter ord. pen., ma anche quelle speciali di cui agli artt. 47-quater e 47-quinquies l. 354/1975 e che, del tutto significativamente, menziona tra i luoghi di espiazione della pena anche le comunità proprio per non precludere la possibilità di ricorso alla misura da parte di chi non disponga di un adeguato domicilio. Diversamente da quanto accade nell'omologa misura prevista per gli adulti, che non appare connotata da alcun requisito di trattamento, la speciale logica di recupero che investe l'intero sistema minorile ha imposto una rivisitazione di quelle previsioni, di talché l'odierno istituto si presenta arricchito da una serie di specifiche prescrizioni funzionali all'educazione del condannato e al suo inserimento nella società. Così, da una parte si richiamano le modalità esecutive già previste per la misura cautelare degli arresti domiciliari ex art. 284 c.p.p. e si valorizza il fermo divieto del condannato ad allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura senza l'autorizzazione del magistrato di sorveglianza, pena la sussumibilità del comportamento trasgressivo tenuto nel delitto di evasione (art. 6, comma 4). Dall'altra, si prevede che il tribunale di sorveglianza tenga conto del programma di intervento educativo predisposto dall'ufficio di servizio sociale per i minorenni e che la misura sia corroborata da una serie di prescrizioni. Queste ultime – sempre modificabili dal magistrato di sorveglianza territorialmente competente (art. 6, comma 2) - devono essere tese a favorire lo svolgimento di attività esterne e, in particolare, di istruzione, formazione professionale, lavoro, culturali, sportive o comunque utili al successo formativo e all'inclusione sociale (art. 6, comma 3).
La previsione di cui all'art. 7 disciplina, infine, la misura della semilibertà, attraverso cui si consente al condannato minorenne o giovane adulto di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attività di istruzione, formazione professionale, di lavoro, di utilità sociale o comunque funzionali all'inclusione sociale. Nella logica di ampliare il ricorso a questo istituto, si statuisce la possibilità di accesso al condannato che abbia scontato almeno un terzo della pena per i reati comuni, ovvero, se si tratta di condannato per taluno dei reati di cui all'art. 4-bis ord. pen., si tiene conto, altresì, del significativo rapporto tra la pena espiata e la pena residua (art. 7, comma 1). Coerentemente con la finalità di garantire il progressivo inserimento nella società dalla quale il minore si è allontanato con la commissione del fatto di reato, le attività all'esterno consentite perseguono tutte lo scopo di responsabilizzarlo e di precostituire le condizioni per un proficuo recupero di un ruolo sociale che veda il soggetto positivamente impegnato e lontano da contesti devianti. Esse valorizzano, come detto, la formazione, ma anche il lavoro e tutto quanto possa contribuire all'inclusione sociale. Inoltre, nel fermo convincimento che un tale percorso necessiti di grande sostegno e vicinanza affettiva, si prevede che il programma di intervento educativo contempli anche le prescrizioni da osservare all'esterno con riferimento ai rapporti con la famiglia e con l'ufficio di servizio sociale per i minorenni, nonché gli orari di rientro in istituto (art. 7, comma 2), con la ferma prescrizione che il mancato rispetto degli stessi non sia affatto privo di conseguenze. In particolare, laddove l'assenza sia ingiustificata e perduri per un periodo inferiore alle 12 ore, si procederà in via disciplinare; diversamente accade nel caso in cui l'assenza si protragga per un periodo temporale superiore alle 12 ore, poiché in questi casi il fatto sarà punibile ai sensi dell'art. 385 c.p. In entrambi i casi, però, il comportamento tenuto sarà oggetto di specifico vaglio e potrà determinare la revoca del beneficio (art. 7, comma 4). Al fine di favorire l'elasticità della gestione della misura, il legislatore stabilisce che il condannato ammesso alla semilibertà venga preferibilmente assegnato ad appositi istituti o sezioni o possa essere trasferito laddove una tale modalità organizzativa favorisca lo svolgimento delle attività all'esterno e il consolidamento delle relazioni socio-familiari (art. 7, comma 3).
Esaurito il catalogo delle misure con la relativa regolamentazione, si passa alla trattazione della disciplina relativa all'adozione, sostituzione e revoca delle misure penali di comunità, attribuendo la competenza a decidere in via generale al tribunale di sorveglianza per i minorenni (art. 8, comma 1) e quella a procedere alla relativa applicazione in via provvisoria al magistrato di sorveglianza, il quale agirà secondo le modalità di cui all'art. 47, co. 4, ord. pen. nei casi in cui lo stato di detenzione determini un grave pregiudizio al percorso di inserimento sociale del condannato (art. 8, comma 2). Come già valorizzato ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 79, comma 2, ord. pen. e 3 d.P.R. 448/1988, le funzioni proprie della magistratura di sorveglianza nel processo minorile vengono svolte dal tribunale per i minorenni e dal magistrato di sorveglianza presso il tribunale per i minorenni, la cui competenza cessa al compimento del venticinquesimo anno di età del condannato. Si tratta - com'è evidente - di una chiara conferma del principio di specializzazione che domina la materia minorile e che rappresenta esplicazione del principio di cui all'art. 25, comma 2, Cost., che prevede il giudice minorile come quello naturalmente deputato alla protezione della gioventù, declinandosi la naturalità dell'organo giudicante quale idoneità alla funzione di giudizio in relazione alla situazione personologica del minore. L'iniziativa per l'adozione delle misure penali di comunità può provenire dall'interessato, se maggiorenne, o dal suo difensore; in caso di condannato minore d'età, dall'esercente la responsabilità genitoriale o dal difensore. L'istanza, tuttavia, può provenire anche dal pubblico ministero e dall'ufficio di servizio sociale per i minorenni (art. 8, comma 1, seconda parte). Quindi, si stabilisce che le misure possano essere revocate o sostituite, oltre che nei casi espressamente previsti, anche qualora il comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni impartite, appaia incompatibile con la prosecuzione della misura (art. 8, comma 3). Tuttavia, nella logica di abolire ogni automatismo che precluda all'autorità procedente una valutazione del caso concreto ed essendo del tutto evidente come il percorso di recupero della libertà non sia affatto scontato, si ammette la possibilità per il magistrato di sorveglianza di disporre la sospensione in via provvisoria della misura, nonché di sostituire la misura sospesa con un'altra, con un provvedimento che mantiene i suoi effetti fino alla decisione definitiva del tribunale di sorveglianza. Questi, ricevuti immediatamente gli atti dal magistrato, deve assumere le decisioni di sua competenza entro il termine di trenta giorni a pena di perdita di efficacia del provvedimento di sospensione (art. 8, comma 4). Infine, come chiarito nella Relazione preliminare, fondamentale importanza riveste l'ultimo comma dell'art. 8, comma 5, il quale permette di colmare alcune lacune normative della disciplina di cui alla l. 354/1975, a proposito del computo del periodo trascorso in misura penale di comunità nel momento in cui viene revocata. Come è dato leggere «il problema sostanzialmente esiste per il solo affidamento in prova al servizio sociale e per l'affidamento in prova con detenzione domiciliare, poiché per la detenzione domiciliare e la semilibertà, trattandosi di misure a carattere detentivo, l'intero periodo deve essere scomputato dalla pena ancora da eseguire. Per le prime, invece, è il tribunale di sorveglianza che dovrà stabilire l'entità della decurtazione sul residuo di pena, considerate le limitazioni imposte con la misura e il comportamento complessivamente tenuto dal condannato». Il Capo III del decreto legislativo in questione si occupa della Disciplina dell'esecuzione, cui dedica gli artt. 9 -13. Esso si apre con l'art. 9 che, nel modificare la previsione di cui all'art. 24, comma 1, primo periodo, d.lgs. 272/1989, estende la disciplina dell'esecuzione già prevista per le sole misure alternative anche alle neo introdotte misure penali di comunità. Si stabilisce, inoltre, che le modalità esecutive previste per i minorenni si applichino anche a chi, nel corso dell'esecuzione, abbia compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno d'età salvo che non ricorrano particolari ragioni di sicurezza e tenuto conto, altresì, delle specifiche finalità rieducative e del fatto che le stesse non siano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto. Con la modifica in discorso, dunque, si amplia la discrezionalità concessa al giudice competente che potrà valutare la modalità ritenuta più consona al caso concreto, derogando all'applicazione delle previsioni specificamente pensate per la condizione minorile, non solo al compimento del ventunesimo anno d'età, come avveniva prima della riforma, ma sempre. Inoltre, il giudizio non dovrà più tener conto solo della sussistenza di generiche finalità rieducative, ma anche del fatto che la mancata partecipazione soggettiva da parte del condannato nell'evenienza considerata renda materialmente impossibile il perseguimento delle citate finalità.
Quindi, si passa alla disamina delle speciali regole relative all'estensione dell'ambito di esecuzione delle pene secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni nell'evenienza in cui si trovino contemporaneamente in esecuzione pene per fatti commessi da minorenne e pene per fatti commessi da maggiorenne. Si tratta di una disciplina finora sconosciuta al sistema dell'esecuzione delle pene, il quale prevedeva come unica regola quella generale sulla competenza di cui all'art. 665, comma 4, c.p.p., che, in caso di plurimi titoli esecutivi, la stabiliva sulla base della sentenza divenuta irrevocabile per ultima (sull'applicazione del principio di unitarietà, che in casi consimili vedeva la competenza del giudice di sorveglianza ordinario che pur doveva operare la massima individualizzazione del trattamento al fine di non compromettere l'esigenza di recupero del minore, v. Cass. pen., n. 461/1993). Ora, posto che una tale soluzione – di fatto svincolata da parametri oggettivi ed affidata a fattori del tutto casuali – non sarebbe stata ammissibile in un sistema precipuamente teso a garantire la più ampia tutela alla condizione del soggetto minore d'età o giovane adulto attraverso un trattamento differenziato di cui è chiara riprova la predisposizione delle misure esaminate nel Capo II, il legislatore ha sentito l'esigenza di dare espressa regolamentazione alla materia. La prima situazione che viene disciplinata è l'eventualità in cui nel corso dell'esecuzione di una condanna per reati commessi da minorenne sopravvenga un titolo di esecuzione per reati commessi in età adulta. Se è vero che, come regola generale, per i reati commessi dal minore si seguono le regole e i benefici contemplati dall'ordinamento penitenziario minorile e viceversa, in caso di reati commessi da maggiorenne, restano operanti le regole dell'ordinamento penitenziario degli adulti, il caso analizzato è peculiare perché il soggetto ha già in corso l'esecuzione di una pena secondo un preciso programma di intervento educativo che potrebbe essere opportuno non interrompere. In questi casi, allora, si stabilisce che il pubblico ministero emetta l'ordine di esecuzione, lo sospenda ex art. 656 c.p.p. e trasmetta gli atti al magistrato di sorveglianza per i minorenni. A quel punto questi, valutato il percorso effettuato dal giovane e la gravità dei fatti oggetto di cumulo, può disporre con ordinanza, reclamabile, l'estensione dell'esecuzione secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche al nuovo titolo sopravvenuto. Diversamente, qualora non ritenga di agire in questa direzione, il magistrato dispone la cessazione della sospensione e restituisce gli atti al pubblico ministero per l'ulteriore corso dell'esecuzione. Il tutto con la precisazione che devono essere espressamente prese in considerazione anche le speciali ragioni di sicurezza di cui all'art. 24 d.lgs. 272/1989 (art. 10, comma 1), così come modificato ad opera dell'art. 9 d.lgs in commento. Nel caso in cui, invece, l'ordine di esecuzione per il reato commesso da maggiorenne non possa essere sospeso, il magistrato di sorveglianza per i minorenni trasmette gli atti al pubblico ministero che ha emesso l'ordine per l'ulteriore corso del procedimento secondo le regoli operanti per gli adulti (art. 10, comma 4). Ebbene, considerata l'obiettiva diversità di presupposti e di condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alle misure penali di comunità, l'obiettivo perseguito dalla succitata previsione derogatoria rispetto al regime ordinario è proprio quello di non interrompere il percorso positivamente intrapreso dal minore, in caso di sopravvenienza di un nuovo titolo che, a rigore, comporterebbe l'applicazione della più restrittiva disciplina prevista per i maggiorenni. In tutti i casi, l'esecuzione della pena nei confronti di chi ha commesso il reato da minorenne è affidata al personale dei servizi minorili dell'amministrazione della giustizia (art. 10, comma 3). Nel passaggio dallo schema di decreto legislativo al provvedimento in discorso, viene poi ulteriormente precisato come, nel caso in cui il condannato per reati commessi in età minore abbia fatto ingresso in un istituto per adulti - sia in custodia cautelare che in espiazione di pena - per reati commessi dopo il compimento della maggiore età, l'esecuzione non segua più le speciali regole previste per i minorenni (art. 10, comma 5).
La previsione di cui all'art. 11 disciplina l'esecuzione delle pene detentive per reati commessi da minorenne nei confronti di un soggetto che non abbia compiuto i venticinque anni. In questi casi il pubblico ministero emette l'ordine di esecuzione con contestuale sospensione se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non sia superiore a quattro anni - e non più sei come previsto nel precedente schema di decreto - salvo il diverso termine previsto dall'art. 94 d.P.R. 309/1990 per l'affidamento in prova in casi particolari, operante anche per il giovane condannato alcol o tossicodipendente. Diversamente, l'ordine di sospensione non viene emanato qualora il condannato si trovi, per il titolo oggetto della condanna, in stato di custodia cautelare ovvero sia detenuto in carcere o in istituto penitenziario minorile per altro titolo definitivo (art. 11, comma 1). A seguito della notifica dell'ordine di esecuzione sospeso sono concessi trenta giorni al condannato per presentare richiesta al tribunale di sorveglianza tesa ad ottenere l'applicazione di una misura penale di comunità. Tale istanza, che deve necessariamente essere corredata dalla dichiarazione o elezione di domicilio del richiedente, deve essere depositata presso l'ufficio del pubblico ministero procedente che ne cura la trasmissione al tribunale di sorveglianza (art. 11, comma 2). Analogamente a quanto accade nel procedimento esecutivo a carico dell'adulto disciplinato ex art. 656 c.p.p., in caso di mancata presentazione della richiesta entro il termine perentorio indicato, il pubblico ministero revoca la sospensione dell'ordine di esecuzione (art. 11, comma 4) e da corso alla stessa. Una volta che il tribunale di sorveglianza riceve l'istanza, fissa l'udienza entro il termine - si ritiene, meramente ordinatorio - di 45 giorni, dandone avviso alle parti (art. 11, comma 5), le quali potranno presentare memorie fino a cinque giorni prima dell'udienza (art. 11, comma 6). In questa fase un ruolo di assoluto rilievo ai fini della decisione del tribunale di sorveglianza ricoprono i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, con il quale il condannato deve prendere contatti a seguito dell'invito espressamente contenuto nel decreto di sospensione (art. 11, comma 3). Questi, che ben conoscono la situazione personale, sociale, economica, familiare del condannato, presentano, anche in udienza, la relazione personologica e sociale svolta sul giovane, nonché il progetto di intervento redatto sulla base delle sue specifiche esigenze. Nonostante la possibilità per il giudice di acquisire d'ufficio prove, documenti o altre informazioni necessarie per assumere le proprie determinazioni (art. 11, comma 6), la presente procedura non può essere attivata su iniziativa ufficiosa. Ciò – come sottolineato in sede di Relazione preliminare – discende, da una parte, dal riconoscimento del minore come soggetto titolare di diritti e dal correlato superamento della concezione del tribunale quale organo deputato alla "tutela" di un soggetto incapace; da un'altra parte, la scelta per un modello che opera ad istanza di parte risponde altresì alla necessità di responsabilizzare il condannato che, non avendo - eventualmente - colto nella giudizio di merito le opportunità concesse grazie all'operatività di istituti quali la messa alla prova, si ritiene debba ora attivarsi in prima persona per domandare una misura penale di comunità. Sotto altro profilo ancora, poi, la procedibilità ad istanza consente il rispetto del principio della ragionevole durata del processo e dell'esecuzione, perché con la necessaria elezione di domicilio da parte del condannato si velocizza il sistema delle notifiche e, in tal modo, si favorisce l'avvio dell'esecuzione medesima entro i venticinque anni, con la connessa possibilità di usufruire dei benefici del sistema minorile.
Si passa poi alla disciplina dell'esecuzione delle misure penali di comunità, che è affidata al magistrato di sorveglianza del luogo in cui deve eseguirsi la misura (art. 12, comma 1), il quale può sempre provvedere alla modifica delle prescrizioni operative con decreto motivato (art. 12, comma 2). Di tali modifiche deve essere data comunicazione anche all'ufficio di servizio sociale per i minorenni, cui viene affidato il soggetto sottoposto alla misura di comunità e che collabora con i servizi socio-sanitari territoriali nello svolgimento dell'attività di controllo, assistenza o sostegno per l'intero corso dell'esecuzione (art. 12, comma 3). Al fine di favorire l'inserimento sociale del condannato e la continuità dell'intervento educativo una volta terminata l'esecuzione della pena, si stabilisce che i servizi socio-sanitari territoriali prendano in carico il minore per la prosecuzione delle attività di assistenza e sostegno, anche curando i rapporti con la famiglia e gli altri soggetti di riferimento per il giovane (art. 12, comma 4). Diversamente, qualora la misura di comunità sia ancora in corso al compimento del venticinquesimo anno d'età del condannato, il magistrato di sorveglianza per i minorenni trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza ordinario per la prosecuzione della misura, ove ne ricorrano le condizioni, secondo le modalità di cui all'ordinamento penitenziario degli adulti (art. 12, comma 5).
Infine, a norma dell'art. 13 si offre disciplina alla tematica dei nuovi titoli di privazione della libertà per fatti commessi da minorenne, stabilendo che, quando durante l'esecuzione di una misura penale di comunità, sopravviene un nuovo titolo per fatti commessi da minorenne, il pubblico ministero sospende l'ordine di esecuzione e trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza. Questi, se ritiene che permangono le condizioni per la prosecuzione della misura, la dispone con ordinanza, reclamabile (art. 13 comma 2). Diversamente, dispone la cessazione dell'esecuzione della misura (art. 13, comma 1). Intervento educativo e organizzazione degli istituti penali per i minorenni
Infine, il Capo IV si occupa della disciplina dell'intervento educativo e dell'organizzazione degli istituti penali per minorenni. In particolare, il progetto educativo - che deve essere predisposto entro tre mesi dall'inizio dell'esecuzione - rappresenta il fulcro su cui ruota l'intera esecuzione penale minorile e contempla le prescrizioni cui è sottoposto il condannato, costruite secondo una logica di flessibilità e personalizzazione del trattamento e di graduale recupero degli spazi di libertà in ragione dei progressi raggiunti (art. 14). Quanto, invece, all'organizzazione degli istituti penali per i minorenni, le previsioni si concentrano sui criteri di assegnazione dei detenuti, avendo cura di separare i minorenni dai giovani adulti e gli imputati dai condannati (art. 15); sulle caratteristiche delle camere di pernottamento, che devono essere conformi alle esigenze di vita individuale dei detenuti e possono ospitare sino ad un massimo di quattro persone (art. 16); sulle modalità di permanenza all'aperto, che - salvo specifici motivi - non possono avere una durata inferiore alle quattro ore giornaliere (art. 17). Quindi, ulteriori profili attengono all'ammissione a corsi di istruzione e formazione professionale all'esterno, particolarmente proficui per la riabilitazione latu sensu intesa del detenuto, in quanto volti a facilitarne il percorso educativo e a contribuire alla valorizzazione delle potenzialità individuali, all'acquisizione di competenze e, in definitiva, al suo recupero sociale (art. 18) e alla tenuta dei colloqui e conseguente tutela del sacrosanto diritto all'affettività, riconosciuto talmente importante ai fini di un positivo reinserimento sociale da garantire l'intervento di volontari autorizzati ed un costante supporto psicologico anche per coloro che non abbiano un riferimento socio-familiare (art. 19). Inoltre, nel disciplinare le regole di comportamento generali aventi ad oggetto l'osservanza degli orari, la cura dell'igiene personale e locale, la partecipazione alle varie attività, la consumazione dei pasti e le relazioni con gli operatori e con gli altri detenuti (art. 20), si stabiliscono altresì dei criteri di custodia attenuata per coloro che non presentino rilevanti profili di pericolosità o che siano prossimi alle dimissioni o ammessi al lavoro all'esterno (art. 21), non senza adeguatamente valorizzare l'importanza della territorialità dell'esecuzione che dovrebbe sempre avvenire in istituti prossimi alla abituale dimora dei detenuti al fine di promuovere il mantenimento delle relazioni personali e socio-familiari (art. 22). Da ultimo, sono previste apposite sanzioni disciplinari conseguenti alla cattiva condotta tenuta all'interno dell'istituto (art. 23) e si fornisce espressa disciplina anche al fondamentale momento della dimissione del detenuto, con la previsione di tutto un compendio di attività di tutela e sostegno volte a favorirne il più proficuo e costruttivo inserimento sociale (art. 24), anche al fine di prevenirne la recidiva. Le ultime previsioni del decreto sono, invece, dedicate alla Relazione al Parlamento sull'utilizzo delle risorse (art. 25) e alle Disposizioni finanziarie (art. 26). In conclusione
La riforma intervenuta in materia di esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni rappresenta un grande segno di civiltà giuridica e, nonostante il richiamato ritardo rispetto alla parallela disciplina degli adulti, devono certamente accogliersi positivamente le innovazioni apportate. Non resta che auspicare che dei buoni operatori unitamente alle buone regole possano contribuire alla piena attuazione dei valori in esse affermati, nel convincimento che solo una disciplina penitenziaria attenta alle peculiarità connesse alla giovane età e ai bisogni fondamentali della crescita umana dei soggetti in formazione possa davvero completare l'opera di responsabilizzazione iniziata in fase processuale. |