Anticorruzione: gli interventi in materia penitenziaria
Veronica Manca
22 Gennaio 2019
È stata pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge 3 del 9 gennaio 2019. Le modifiche più temibili – e sotto traccia, per ora, data la rilevanza delle altre interpolazioni – sono state apportate all'ordinamento penitenziario: la “serpe” degli automatismi penitenziari, introdotti nel corso dei decenni dal Legislatore colpisce di nuovo, ridisegnando ancora una volta l'istituto del 4-bis ord. pen...
Abstract
Annunciato da mesi, ancora in fase di propaganda elettorale, proclamato con vigore ad inizio legislatura, il Governo si propone di restituire agli esperti un “pacchetto” di modifiche al sistema “giustizia penale”, in relazione ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. È stato, infatti, approvato definitivamente alla Camera il DDL n. 1189-B il testo della riforma c.d. “anticorruzione”, confluito nella legge 9 gennaio 2019, n. 3, pubblicata in Gazzetta ufficiale il 16 gennaio 2019, con entrata in vigore il 31 gennaio 2019.
Ubi aliqua serpens in monstrum excrevit: l'anticorruzione è legge!
Annunciato da mesi, ancora in fase di propaganda elettorale, proclamato con vigore a inizio legislatura, il Governo si propone di restituire agli esperti un “pacchetto” di modifiche al sistema “giustizia penale”: trattasi di una riforma ad ampio raggio, che non trascura nulla, dal diritto penale sostanziale, agli strumenti processuali, fino alla fase (post) esecutiva della pena.
Tali disposizioni sono ora legge: è stata infatti pubblicata in Gazzetta ufficiale la legge 3 del 9 gennaio 2019.
Le modifiche più temibili – e sotto traccia, per ora, data la rilevanza delle altre interpolazioni – sono state apportate all'ordinamento penitenziario: la “serpe” degli automatismi penitenziari, introdotti nel corso dei decenni dal legislatore, colpisce di nuovo, ridisegnando ancora una volta l'istituto del 4-bis ord. pen., con buona pace dell'operato della Corte costituzionale, che anche di recente è tornata ad affermare il principio della «progressività trattamentale e flessibilità della pena», in attuazione del canone costituzionale della rieducazione del condannato (v. Corte cost. 21 giugno 2018, n. 149, in relazione al c.d. ergastolo del “terzo tipo”, con riguardo all'art. 58-quater, comma 4,ord. pen.). Con buona pace poi del trend garantista ribadito dall'avvocatura e dalla magistratura di sorveglianza, anche da ultimo, con la devoluzione della questione di legittimità costituzionale del 4-bis ord. pen., nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo non collaborante non possa essere ammesso alla fruizione del permesso premio (v. Cass. pen., Sez. I., 20 novembre 2018, ord. n. 4474). Con buona pace altresì della giurisprudenza sovranazionale della Corte europea dei diritti dell'uomo, dalla quale è tanto attesa, quanto auspicata, una decisiva ed importante presa di posizione rispetto all'istituto dell'ergastolo “ostativo” (v. caso Viola c. Italia, ric. n. 77633/16). Ancora una volta, quindi, in nome della sicurezza sociale e della “certezza della pena”, si sovrappongono due piani: quello processuale, di accertamento di fatti e di responsabilità (e di verifica dei capi di imputazione), rispetto ai quali – nei limiti delle rispettive competenze inquisitorie e giudicanti – la sede elettiva è e deve rimanere il processo, e quello esecutivo/penitenziario, di trattenimento e di trattamento della persona chiamata ad espiare la propria pena, che dovrebbe, in ogni caso, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, tendere alla rieducazione (v., art. 27, comma 3, Cost.).
Il “volto” repressivo della riforma c.d. anti-corruzione: facciamo il punto
Venendo a un giudizio più tecnico, come si è anticipato, la riforma licenziata dal Parlamento, con modifiche nel passaggio tra la Camera ed il Senato, delinea modifiche di ampia portata.
La c.d. legge spazzacorroti incide, in primo luogo, sulle condizioni di procedibilità (v. art. 1, lett. a) e b) del testo).
Si incide, significativamente, anche sulla disciplina della prescrizione, ai sensi degli artt. 158,159 e 160 c.p. (per cui, il primo comma dell'art. 158 c.p. risulta ora così. Data la complessità della questione affrontata, il Legislatore prevede l'entrata in vigore delle previsioni inerenti la prescrizione con il primo gennaio 2020.
Notevoli altresì le modifiche al regime della sospensione condizionale della pena, di cui agli artt. 165 (per cui, al quarto comma, si aggiunge nel raggio di applicazione della disposizione anche il c.d. corruttore, ai sensi dell'art. 321 c.p., e si rimanda al contenuto oggetto della riparazione pecuniaria di cui all'art. 322-quater c.p.) e 166 c.p. (per cui, per i delitti contro la pubblica amministrazione, il giudice – in sede di concessione del beneficio – può disporre che la sospensione non estenda i suoi effetti alle pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione).
Il testo della riforma passa poi a enunciare le modifiche sulle singole fattispecie incriminatrici di parte generale: si interviene sull'art. 316-ter c.p., con l'aggiunta di una nuova modalità tipica di commissione del reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (dopo il primo comma, infatti, si aggiunge che: «La pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri»); - sull'art. 317-bis c.p., in fatto di pene accessorie, con l'ampiamento delle ipotesi delittuose soggette alle pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione (durata che diviene temporanea, a seconda del riconoscimento del primo o del secondo comma dell'art. 323-bis c.p.); - sull'art. 318 c.p., con l'inasprimento della pena detentiva, che passa, quindi, dalla cornice edittale da uno a sei anni a quella da tre a otto anni; - sull'art. 322 c.p., per cui si amplia la rubrica della norma estendendola a ulteriori soggetti passivi, ipotesi poi aggiunte anche nel testo, ai sensi del primo comma, lett. 5-ter), 5-quater) e con un'interpolazione al secondo comma, al numero 2); - sull'art. 322-ter.1, con l'inserimento di una nuova ipotesi di custodia giudiziale dei beni sequestrati; - sull'art. 322-quater c.p. di cui si è detto sopra in relazione all'art. 165 c.p.; - sull'art. 323-ter c.p., con l'aggiunta di una nuova causa di non punibilità per l'autore dei delitti di cui agli artt. 318,319,319-ter, 319-quater, 320,321,322-bis, c.p. limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 353, 353-bis e 354: in tali casi se l'autore del reato – prima di avere notizia che nei suoi confronti siano svolte indagini e, comunque entro quattro mesi dalla commissione del fatto – denuncia volontariamente l'accaduto e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili sarà esente da pena. Si precisa, inoltre, che l'applicabilità della speciale causa di non punibilità «è subordinata alla messa a disposizione dell'utilità dallo stesso percepita o, in caso di impossibilità di una somma di denaro di valore equivalente, ovvero all'indicazione di elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine di cui al primo comma. La causa di non punibilità non si applica quando la denuncia di cui al primo comma è preordinata rispetto alla commissione del reato denunciato. La causa di non punibilità non si applica in favore dell'agente sotto copertura che ha agito in violazione delle disposizioni dell'articolo 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146».
Si modificano ancora sulle disposizioni di cui agli artt. 346 (abrogato) e 346-bis c.p., andando a sostituire il primo comma, con la previsione di una pena detentiva aggravata da un anno a quattro anni e mesi sei, ed a interpolare gli altri commi seguenti (secondo, terzo ed infine quarto comma).
Si modifica anche la fattispecie dell'appropriazione indebita di cui all'art. 646 c.p., per cui si prevede un inasprimento complessivo del trattamento sanzionatorio, con la sostituzione del precedente «reclusione fino a tre anni e multa fino a euro 1.032», con quello attuale «la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000». Mutato parzialmente anche l'art. 649-bis c.p. sulle cause di procedibilità d'ufficio per i reati contro il patrimonio, per cui vengono aggiunte al testo originario le seguenti parole: «ovvero se la persona offesa è incapace per età o per infermità o se il danno arrecato alla persona offesa è di rilevante gravità».
Ulteriori modifiche interessano anche il codice di procedura penale: art. 266 c.p.p., in materia di limiti di ammissibilità alle intercettazioni, per cui si estendono le ipotesi di intercettazioni di comunicazioni tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile anche per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni (determinata ai sensi dell'art. 4 c.p.p.); art. 267 c.p.p., in tema di presupposti del provvedimento autorizzativo, per cui si coordina la disposizione con la precedente, precisando come i requisiti limitativi per i reati di cui all'art. 51, co. 3-bis e 3-quater c.p.p. valgono anche per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. In relazione a tali interpolazioni va letta la previsione dell'inserimento anche per tali delitti dello strumento investigativo dell'agente infiltrato di cui all'art. 9 della legge n. 146/2006.
Non solo. Si modifica l'art. 289-bis c.p.p. Con tale previsione si aggiunge una nuova misura cautelare a contenuto interdittivo, per cui: Divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione, «1. Con il provvedimento che dispone il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, il giudice interdice temporaneamente l'imputato di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Qualora si proceda per un delitto contro la pubblica amministrazione, la misura può essere disposta anche fuori dei limiti di pena previsti dall'art. 287, comma 1»;- art. 444, comma 3-bis, c.p.p., in linea con le modifiche apportate alla disciplina sostanziale della sospensione condizionale della pena, per cui si prevede che il giudice possa subordinare alla richiesta di applicazione della pena su richiesta delle parti l'efficacia all'esenzione delle pene accessorie previste ai sensi dell'art. 317-bis c.p. ovvero all'esenzione degli effetti della sospensione condizionale della pena. In tali casi – secondo il testo della riforma – il giudice, se ritiene di applicare le pene accessorie o ritiene che l'estensione della sospensione condizionale della pena non possa essere concessa, rigetta la richiesta. Modifiche significative risultano anche alla norma seguente, per cui si prescrive che il giudice – anche in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 445 c.p.p. – possa applicare le pene accessorie di cui all'art. 317-bis c.p. Due ultime interpolazioni vengono inoltre apportate agli artt. 578-bis c.p.p., per cui si aggiunge l'ipotesi di confisca ai sensi dell'art. 322-ter c.p.p. e art. 683 c.p.p., per cui si precisa la competenza del tribunale di sorveglianza anche per l'ipotesi di estinzione della pena accessoria perpetua, in sede di riabilitazione.
Le modifiche all'ordinamento penitenziario: l'art. 4-bis ord. pen. e la nuova ipotesi di collaborazione
Una trattazione a parte meritano, invece, le modifiche apportate all'ordinamento penitenziario e alle disposizioni, che pur disciplinate nel codice penale, hanno ricadute sulla fase esecutiva o sulla post-esecuzione della pena. La modifica più significativa è data – senza alcun dubbio – dall'interpolazione dell'art. 4-bis ord. pen.: come si è già anticipato in apertura, tali modifiche destano forti criticità sotto il piano della tenuta costituzionale del sistema “giustizia penale” per i molteplici profili che verranno esaminati di seguito.
Con il comma 6 della l. 3/2019, si inserisce tra i reati c.d. ostativi di cui al comma 1 dell'art. 4-bisord. pen. alcuni delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, come quelli di cui agli artt. 314, comma 1, 317,318,319,319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320,321,322,322-bis c.p. L'inserimento nel primo comma dell'art. 4-bis ord. pen. di tali delitti comporta, come ricorda il Dossier illustrativo del Senato (rispetto alla precedente formulazione del DDL), la preclusione dell'accesso ai benefici penitenziari (assegnazione al lavoro all'esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione).
L'unica via di “salvezza” alla via rieducativa è rappresentata dalla collaborazione con la giustizia. Ulteriore interpolazione, apportata con la lett. a) del medesimo articolo prevede, appunto, la previsione della collaborazione exart. 323-bis c.p., ovverosia – come si illustra – nei casi in cui «tali detenuti si siano efficacemente adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro o altre utilità trasferite». Con tali due modifiche, il legislatore nel 2018 torna nuovamente ad applicare lo schema presuntivo della collaborazione, peraltro, di tipologia diversa rispetto a quella di cui all'art. 58-ter ord. pen., come chiave di volta dell'accesso alla rieducazione (per fattispecie penali tendenzialmente monosoggettive, che hanno disvalore e natura strutturalmente diverse dalle ipotesi delittuose inerenti la criminalità organizzata).
Il Legislatore intende, quindi, perseguire i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione con massimo rigore e severità, consentendo all'autore di evitare – in sede processuale – la condanna solo nell'ipotesi di cui all'art. 322-ter c.p.(Casi di non punibilità), laddove il soggetto (prima che abbia avuto notizia di essere indagato: formulazione che lascia ampi margini di interpretazioni applicative sull'individuazione del momento ultimo, utile per la collaborazione) decida – volontariamente – di denunciare i fatti (e comunque non oltre quattro mesi dal fatto, ulteriore elemento fortemente critico, considerata la natura dei fatti denunciati, spesso sedimentati in prassi, in interi contesti socio-culturali, stratificati in più settori della società) e decida – sempre volontariamente – di fornire informazioni utili e concrete (utili e concrete, né solo utili, né solo concrete; in altri termini si richiede una collaborazione qualitativamente più pregnante rispetto alla sola collaborazione “utile” di cui all'art. 58-ter ord. pen.) per assicurare la prova del reato e per individuarne gli altri responsabili (inciso poco comprensibile, tenuto conto che la maggior parte delle fattispecie penali considerate sono di natura monosoggettiva).
La volontaria collaborazione deve, in ogni caso, essere ancorata alla messa a disposizione da parte del denunciante (che non andrà punito e, quindi, esente da pena ma non dal processo, che rimane comunque uno “stigma” che l'autore del reato/denunciante non potrà evitare) dell'utilità percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente, ovvero dell'indicazione di elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo, entro il termine di cui al primo comma dell'art. 322-ter c.p. (ovverosia prima di essere a conoscenza di essere indagato e comunque non oltre quattro mesi dal fatto): in tale ultimo caso, quindi, la non punibilità è subordinata a una “doppia collaborazione”, sempre utile e concreta, nella misura in cui si chiede al denunciante non solo di fornire elementi per l'individuazione della prova del reato ma anche di indicare l'effettivo beneficiario, qualora sia persona diversa dal denunciante (quest'ultimo, quindi, nella visione del legislatore diviene ad essere una sorta di autore “mediato”, che partecipa al momento delittuoso a favore di una terza persona; ma non tutti i delitti dei pubblici ufficiali si prestano a tale schema: si pensi al peculato di cui al primo comma dell'art. 314 c.p.).
Se l'autore di tali delitti non collabora (o non collabora utilmente e/o concretamente o non collabora nei tempi stabiliti) sarà soggetto a condanna, peraltro, con un trattamento sanzionatorio ulteriormente aggravato, dato il significativo aumento della pena detentiva e la previsione delle pene accessorie perpetue. In tali casi, tuttavia, il Legislatore è così “magnanimo” che consente al colpevole di rimediare nel corso dell'esecuzione della pena detentiva di rimediare, accedendo alla collaborazione: collaborare con la giustizia è sempre possibile, anche in esecuzione.
Ma a tale collaborazione cosa segue? Segue che il condannato può accedere ai benefici penitenziari, altrimenti esclusi per tutta la durata della pena. Quindi, secondo lo schema tradizionale del 4-bisord. pen., se non collabori ti “punisco”, precludendoti l'accesso agli strumenti penitenziari extra-murari e ti “congelo” – fino a data incerta, potenzialmente per tutta la durata della pena detentiva – i progressi trattamentali. In altri termini vale anche per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione lo schema: se collabori non ti “punisco” (non ti sanziono, ma ti processo ugualmente); se non collabori ti processo, condanno con un “pacchetto sanzionatorio” fortemente repressivo e inabilitante e ti riservo un trattamento penitenziario ulteriormente punitivo (ti “punisco” due volte finchè non collabori).
L'iter esecutivo di un soggetto condannato a uno di tali delitti (dal peculato, di cui al primo comma dell'art. 314 c.p. alla corruzione di cui all'art. 318 c.p.) sarà identico a quello di un autore di reato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso di cui all'art. 416-bis c.p., con tutto ciò che ne segue sul piano applicativo (potenzialmente, “in astratto”, anche la sottoposizione al regime del “carcere duro” di cui all'art. 41-bisord. pen.). Ne segue, infatti, che una volta divenuta definita la condanna, il pubblico ministero non potrà più emettere decreto di sospensione dell'esecuzione della pena, ma dovrà, invece, dare corso all'esecuzione della pena detentiva emanando l'ordine di carcerazione: ai sensi dell'art. 656, comma 9, lett. a) c.p.p., infatti, è precluso al pubblico ministero sospendere l'esecuzione della pena detentiva.
Riflessioni sull'applicabilità temporale delle modifiche in peius
Ci si chiede se tali modifiche debbano avere immediata applicazione e, considerata la loro natura processuale, si debba applicare il regime temporale del tempus regit actum, anche, quindi, ai processi chiusi con sentenza di condanna antecedente all'entrata in vigore del presente disegno di legge ma il cui ordine di esecuzione venga emanato successivamente, oppure potrebbero avanzarsi soluzioni garantiste di altra natura?
In altri termini, al soggetto condannato per peculato, per un'unica condotta antigiuridica (ad es., sottrazione di volumi dalla biblioteca o da un'area museale), che decida di non collaborare, perché dichiaratosi innocente oppure impossibilitato oggettivamente a fornire elementi utili e concreti all'individuazione della prova e/o di altri responsabili, debba essere applicata la disciplina più rigorosa introdotta per effetto della legge 3/2019, con la preclusione dell'accesso alle misure alternative sin dall'inizio, con l'ingresso diretto in carcere (artt. 656, comma 9, lett. a) c.p.p. e art. 4-bis ord. pen.) fino a quando in esecuzione la sua situazione – verosimilmente – verrà a sbloccarsi con l'accertamento dell'impossibilità della collaborazione da parte della sorveglianza, sempre che tale soluzione garantista riesca ad affermarsi nella prassi (e, in ogni caso, con lo “scotto” del carcere da parte del condannato).
Sarebbe forse più opportuno ragionare diversamente, pensando di mantenere ferma la disciplina esecutiva attualmente vigente e più favorevole per tutti i soggetti che sono stati condannati con sentenza definitiva antecedentemente all'entrata in vigore della riforma, sia che l'ordine di esecuzione sia stato emesso sia che debba ancora essere emanato, consentendo così al condannato di accedere – avendone, peraltro, fatto già affidamento in corso del processo – sin da subito alle misure alternative.
Così si potrebbe immaginare, inoltre, che il medesimo principio del legittimo affidamento alla progressione trattamentale debba essere garantito al soggetto condannato per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione in espiazione di pena detentiva, consentendogli di accedere ai benefici penitenziari ed alle misure alternative, a prescindere dal nuovo meccanismo presuntivo della collaborazione ex art. 322-ter c.p.
In una prospettiva migliorativa, sul breve periodo, al di là delle soluzioni pratiche possibili, sarebbe auspicabile che il Legislatore intervenisse sul vaglio delle fattispecie penali da inserire nel primo comma dell'art. 4-bisord. pen., considerato che l'eccessiva diversità di disvalore penale del fatto comporta un trattamento omogeneo per situazioni fortemente diverse all'interno dello stesso elenco di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione: riconsiderare i delitti – riducendoli alle sole ipotesi corruttive più gravi – da inserire nel primo comma dell'art. 4-bis ord. pen., potrebbe rappresentare una soluzione immediata e percorribile da parte dell'attuale Legislatore. Sarebbe inoltre auspicabile considerare una specificazione circa il momento applicativo di tali modifiche, così peggiorative, prevedendo all'interno del testo finale, una disposizione ad hoc e di diritto transitorio.
Sul breve-medio periodo sarebbe, invece, necessario rivedere i nuovi meccanismi presuntivi della collaborazione che vengono inseriti nella grammatica del 4-bis ord. pen., che notoriamente rimanda a fattispecie penali associative, storicamente e culturalmente ancorate alle strategie di lotta contro la criminalità organizzata di stampo mafioso, per modularne una diversa portata, natura e limiti applicativi (laddove, si reputasse comunque necessario mantenere ferma la collaborazione, con tutti i rilievi di criticità costituzionale che tale scelta di politica criminale porta con sé).
Sul medio-lungo periodo si auspica, infine, un ripensamento complessivo della politica criminale in relazione ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Che il fenomeno della corruzione da parte di rappresentanti del mondo dello Stato e della pubblica amministrazione venga considerato di tale gravità da essere accostato al diverso – e altrettanto grave – fenomeno della criminalità organizzata è un passaggio culturale e politico sicuramente importante. Cionondimeno si ritiene che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, le strategie di lotta a tale fenomeno dovrebbero collocarsi integralmente in una prospettiva preventiva e semmai, in un secondo momento, inquisitorio con tutti gli strumenti di indagine e di ricerca della prova che già la sede processuale offre agli inquirenti: ben vengano soluzioni collaborative, se orientate e funzionali al processo. Pensare, infatti, che la migliore risposta al fenomeno della corruzione debba risiedere nel diritto penitenziario, a processo e condanna emessi (quando lo Stato ha quindi già raggiunto la sua massima pretesa punitiva rispetto al colpevole) è errato, nella misura in cui la scelta di non collaborare (perché dichiaratosi innocente, perché impossibilitato da ragioni oggettive nell'individuazione della prova o di altri responsabili, perché spinto da minacce e ritorsioni contro sé e la propria famiglia, etc.) viene già espressa compiutamente in sede processuale, laddove l'imputato ha la possibilità di accedere al meccanismo “premiale” della causa di non punibilità oppure di proseguire con il processo (che comunque, fino alla sentenza, potrebbe portare anche ad un'assoluzione).
Non si comprende, quindi, quali siano le finalità perseguite dallo Stato nella misura in cui si pretende ancora in fase esecutiva che il condannato debba collaborare, se non per esigenze puramente punitive per non aver collaborato (prima) in sede processuale (si rileva, tuttavia, che, di per sé, la “punizione” per la mancata collaborazione dovrebbe già risiedere – ragionando per assurdo – nella stessa condanna e non anche nella fase esecutiva).
Ancorare, inoltre, i progressi trattamentali e l'accesso al circuito virtuoso dei benefici penitenziari ad una collaborazione, che, per i fenomeni corruttivi, a condotta istantanea, a distanza anche di molti anni, risulta ulteriormente punitivo per il condannato il quale si vedrà costretto a fornire fonti di prova e/o individuare altri responsabili (semmai ci fossero stati) sostanzialmente in modo inutile e “a vuoto” ai fini inquisitori.
Si rischia, per di più, di acquisire collaborazioni meramente strumentali per l'accesso personale agli strumenti rieducativi, vanificando il senso profondo del percorso riabilitativo intrapreso dal condannato, il quale, peraltro, una volta scontata la pena detentiva, si vedrebbe sostanzialmente inabilitato alla vita civile e professionale a causa delle pene accessorie, che, con tale riforma risultano notevolmente aggravate, e dei relativi effetti inabilitanti, che non possono – con l'entrata in vigore della riforma – essere eliminati nemmeno in caso di esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, se non con la riabilitazione dopo moltissimi anni.
Le torsioni applicative del sistema: l'art. 47, comma 12, ord. pen. e la riabilitazione
In chiusura del precedente paragrafo, si è accennato alle ulteriori modifiche apportate dalla riforma “anti-corruzione”. Con riguardo alla riabilitazione, l'art. 1, comma 1 lett. i) della l. 3/2019 delinea la seguente disciplina applicativa: «La riabilitazione concessa a norma dei commi precedenti non produce effetti sulle pene accessorie perpetue. Decorso un termine non inferiore a sette anni dalla riabilitazione, la pena accessoria perpetua è dichiarata estinta, quando il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta». Tenuto conto della formulazione così generica delle pene accessorie perpetue, si ritiene – in prima battuta – che tale effetto “preclusivo” si debba estendere a tutti i delitti a cui consegue la pena accessoria perpetua dell'interdizione perpetua dei pubblici uffici (qualunque sia la tipologia di delitti, purchè dolosi, per i quali sia stata applicata in conseguenza di una condanna alla pena non inferiore a cinque anni di reclusione) e a tutti i delitti a cui consegue la pena accessoria della incapacità in perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazione di cui all'art. 317-bis c.p.
Leggasi tale modifica unitamente a quella apportata all'art. 47, comma 12,ord. pen., ai sensi dell'art. 7 della legge 3/2019 (per cui l'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale non comporta l'estinzione delle pene accessorie perpetue) per capire come il legislatore si muova su meccanismi presuntivi ancorati al parametro oggettivo della natura del reato commesso, a prescindere da valutazioni concrete sulla personalità del singolo condannato: emerge in tutta la sua evidenza la funzione special-preventiva della pena (in chiave negativa di neutralizzazione) che il Legislatore assegna alle pene accessorie e agli effetti penali della condanna. Nessun spazio al finalismo rieducativo, a cui, anche le pene accessorie, dovrebbero comunque tendere (v., da ultimo, anche Corte cost. n. 222/2018, con cui si è dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 216 l. fallimentare, nella parte in cui prevedeva una durata fissa delle pene accessorie svincolata dalla concreta valutazione affidata al giudice, della gravità del fatto e della personalità dell'imputato).
Oltre a evidenti criticità sul piano della tenuta costituzionale, si rileva da subito come tale disciplina peggiorativa, per quanto di interesse di aspetti collaterali della punibilità, incidendo infatti sulla fase post-esecuzione della pena, non possa trovare applicazione che per fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della riforma. Tali modifiche, infatti, conseguono ad un istituto di natura sostanziale, quale è la pena accessoria perpetua, pertanto, in ossequio ai princìpi cardine del diritto penale costituzionale (ex art. 25, comma 2, Cost.) non può aversi applicazione retroattiva di norme incriminatrici e pene peggiorative, ivi comprese, le pene accessorie.
Prime conclusioni in attesa della risposta applicativa
Ragionando, in conclusione, sulle possibili ricadute pratiche di simili modifiche, corre alla mente la questione dell'individuazione di un regime applicativo il più possibile uniforme: tenuto conto, infatti, che nel complesso la riforma introduce esclusivamente disposizioni peggiorative, si dovrebbe ipotizzare come l'attuazione della nuova disciplina esecutiva venga integralmente eseguita solo per i fatti commessi successivamente all'entrata in vigore del testo definitivo, con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Ragionando diversamente, si avrebbero plurimi regimi applicativi diversi, a fronte della commissione del medesimo reato: si pensi al caso, già trattato, del soggetto autore di peculato, ai sensi dell'art. 314, comma 1, c.p., il quale abbia commesso il fatto in vigore dell'attuale disciplina e condannato prima dell'entrata in vigore e il caso del soggetto, che, pur avendo commesso il fatto prima, venga condannato successivamente, a legge riformata, oppure condannato prima, ma raggiunto dall'ordine di esecuzione solo successivamente. Tempistiche processuali varie – che non dipendono dal colpevole – a cui seguono però trattamenti esecutivi e penitenziari nettamente diversi.
La nuova disciplina, inoltre, per i fatti commessi successivamente all'entrata in vigore del testo definitivo delinea uno schema complessivo (inquisitorio, processuale, punitivo ed esecutivo) ben preciso, fortemente repressivo e peggiorativo rispetto all'attuale disciplina, con uno scarto significativo per i soggetti processati e condannati in data precedente alla pubblicazione del testo in Gazzetta ufficiale. Proprio per questo, si ritiene che tutte le modifiche inerenti l'ordinamento penitenziario debbano trovare applicazione solo per i fatti commessi successivamente all'entrata in vigore della riforma: del resto è lo stesso legislatore ad aver previsto, per la disciplina sostanziale della prescrizione, un'applicazione diversa dal testo in generale, avendo inteso della delicatezza della questione trattata e tenuto conto delle pesanti ricadute pratiche conseguenti alla sua attuazione (con il primo gennaio 2020).
Una simile interpretazione, peraltro, potrebbe essere ottenuta – oltre che da un'auspicabile presa di posizione del legislatore con un'indicazione ad hoc – dall'orientamento della giurisprudenza di legittimità, che, in una materia analoga (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2011, n. 27919; Cass. pen., Sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 48462, in relazione ai mutamenti normativi sopraggiunti in peius sulla disciplina delle misure cautelari personali), ha affermato il principio dell'irretroattività delle modifiche normative sfavorevoli che incidono sulla libertà della persona, in ossequio al principio di legalità di natura sostanziale (di cui all'art. 25, comma 2 Cost.). In tale prospettiva, non può non riconoscersi anche l'ulteriore e complementare principio della progressività di trattamento a favore del condannato (in un'ottica di affidamento preventivo dello stesso all'applicabilità della norma di favore rispetto alla disciplina peggiorativa sopravvenuta), principio di diritto riaffermato anche di recente dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 149/2018, già ricordata in apertura [e che trova le proprie origini nelle pronunce della Corte cost. n. 306/1993; Corte cost. n. 445/1997; Corte cost. n. 257/2006; Corte cost. n. 79/2007; interpretazione che trova conferma anche nella casistica giurisprudenziale della Corte di Strasburgo: i leading case in questione sono sicuramente Scoppola (n. 2) c. Italia (interpretazione in termini sostanziali dell'art. 442, comma 2 c.p.p.), Del Rio Prada c. Spagna (qualificazione sostanziale, ex art. 7 Cedu, del beneficio penitenziario della redención de penas por trabajo) e M. c. Germania (divieto di irretroattività sfavorevole della misura di sicurezza della custodia cautelare, Sicherungsverwahrung)].
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Sommario
Ubi aliqua serpens in monstrum excrevit: l'anticorruzione è legge!
Il “volto” repressivo della riforma c.d. anti-corruzione: facciamo il punto
Le modifiche all'ordinamento penitenziario: l'art. 4-bis ord. pen. e la nuova ipotesi di collaborazione
Riflessioni sull'applicabilità temporale delle modifiche in peius
Le torsioni applicative del sistema: l'art. 47, comma 12, ord. pen. e la riabilitazione