IRAP: ai giudici di merito la verifica se il contributo dei praticanti accresce la produttività del professionista

La Redazione
28 Gennaio 2019

Il commercialista non deve pagare l'IRAP per l'impiego dei praticanti nello studio se manca la prova che l'apporto di questi è stato utile ad incrementare il reddito del professionista. Ove invece venga contestata l'entità degli emolumenti corrisposti al collaboratore i giudici di merito devono verificare il concreto contributo fornito dallo stesso in termini di accrescimento della produttività del professionista. Questo il principio di diritto emerso nell'ordinanza n. 33382 dello scorso 27 dicembre 2018.

Il commercialista non deve pagare l'IRAP per l'impiego dei praticanti nello studio se manca la prova che l'apporto di questi è stato utile ad incrementare il reddito del professionista. Ove invece venga contestata l'entità degli emolumenti corrisposti al collaboratore i giudici di merito devono verificare il concreto contributo fornito dallo stesso in termini di accrescimento della produttività del professionista.

Questo il principio di diritto emerso nell'ordinanza n. 33382 dello scorso 27 dicembre 2018.

Il contribuente (commercialista) richiedeva all'Agenzia delle Entrate un rimborso d'imposta IRAP versata per la presenza in studio (e relativa remunerazione) di due praticanti.

La tesi sostenuta del Fisco è che essersi avvalso per alcuni anni di un praticante - e per altri anni di due o tre -, ed aver loro corrisposto compensi elevati (per un totale di circa 40 mila euro) è indice della circostanza che questi ultimi non fossero praticanti, ma collaboratori in grado di incidere sulla capacità produttiva.

I Giudici della Corte risolvono la controversia sostenendo che l'Irap presuppone il ricorso ad una struttura organizzativa che contribuisca alla produzione del reddito. In astratto, è vero che, nel caso di utilizzazione di praticanti si deve presumere che la loro utilizzazione non è fatta in vista di un aumento del reddito, ma in vista della loro formazione.

Ed è altresì vero che la finalità del ricorso a praticanti è di impartire loro istruzione professionale piuttosto che di avvalersi della loro opera per incrementare il reddito (in tal senso anche Cass. n. 22705/2016).

È però altrettanto vero che questa regola vale, per l'appunto, in astratto e che non esime il giudice di merito dalla necessità di verificare se, in concreto, anche in ragione della consistenza dei compensi corrisposti al praticante, quest'ultimo abbia contribuito alla produttività del professionista, incrementandone il reddito. E ciò a maggior ragione ove si consideri che la questione del concreto contributo fornito dal praticante alla produzione del reddito era stata sollevata da Agenzia delle Entrate, la quale aveva ritenuto la prova di tale contributo presumendola dai compensi elevati (per un semplice praticante) corrisposti dal professionista.

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