Giudizio di rinvio dalla Cassazione

Raffaele Marenghi
07 Febbraio 2019

Il lavoro intende ripercorrere, in generale, il procedimento del giudizio di rinvio dalla Cassazione, ex combinato disposto degli artt. 383, 384, 392 e 394 c.p.c., nonché degli effetti dell'estinzione dell'intero processo in caso di mancata riassunzione del giudizio, ex art. 393 c.p.c..
Normativa e procedimento

Nell'ambito delle disposizioni che regolano il procedimento per Cassazione, gli artt. 383 e 384 c.p.c. prevedono la cassazione della sentenza con rinvio della causa ad altro giudice, di grado pari a quello che ha pronunciato la sentenza cassata, qualora siano necessari ulteriori accertamenti di fatto e con enunciazione del principio di diritto cui quest'ultimo deve conformarsi.

Il Legislatore, in effetti, ha delineato un percorso del

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giudizio di rinvio

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obbligato, attribuendo – ratione materiae – una competenza funzionale inderogabile, non sucettibile di successive contestazioni nemmeno in relazione alla sopravvivenza di norme che modifichino i criteri di competenza.

Inoltre, stante il carattere

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chiuso

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della fase rescissoria, la sentenza della cassazione, nel disporre il rinvio, fissa il principio di diritto non in via meramente astratta, bensì agli effetti della concreta decisione della lite, cosicché il “thema decidendum” rimane immutabilmente fissato dalla sentenza rescindente della corte e l'effetto di tale giudizio non può che essere limitato alla parte dell'originaria controversia cassata e rinviata alla C.T.R..

Ne restano estranei, quindi, tutti gli altri capi della sentenza di secondo grado che non siano stati cassati dal giudice di legittimità e che formano oggetto del giudicato implicito interno (da ultimo: Cass. Civ., n. 13825/2018).

L'art. 63 del D.Lgs. n. 546/1992 disciplina dettagliatamente il giudizio di rinvio, adeguando le disposizioni contenute negli artt. 392 e segg. del c.p.c. alle peculiarità del processo davanti alle Commissioni Tributarie.

Giova ricordare che, generalmente, mediante il giudizio di rinvio si tende a sostituire la sentenza cassata con una nuova decisione: invero, parte della dottrina suole distinguere il rinvio «prosecutorio o proprio» (cioè a seguito di accoglimento dei motivi di ricorso proposti ex art. 360 nn. 3 e 5) dal rinvio

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restitutorio o improprio

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(cioè a seguito di accoglimento dei ricorsi proposti ai sensi dell'art. 360 nn. 1, 2 e 4), con un riflesso pratico per la determinazione dei poteri del giudice del rinvio, ma soprattutto in punto di caducazione della sentenza di rinvio di primo grado.

Il distinguo, tuttavia, di fronte al tenore letterale dell'art. 393 c.p.c., non è accettato dalla dottrina dominante e così pure dalla giurisprudenza cosicché, quando la Cassazione annulla la sentenza impugnata, avendo riscontrato in essa vizi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., il giudizio di rinvio rappresenta una prosecuzione del giudizio di cassazione, che deve essere completato applicando al caso concreto il principio di diritto enunciato dalla Corte.

In questo caso, dunque, il rinvio non è una prosecuzione del precedente giudizio di secondo grado, ma una nuova e autonoma fase, con natura rescissoria funzionale all'emanazione di una sentenza che statuisce direttamene sulle domande proposte dalle parti.

Pertanto, il giudice dovrà soltanto uniformarsi, ex art. 384 – co. 1 – c.p.c. al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l'accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo.

L'art. 392 c.p.c. disciplina, poi, le modalità di riassunzione della causa davanti al nuovo giudice, che può essere fatta, ai sensi degli artt. 18, 20 e 53 D.Lgs. n. 546/1992, con ricorso nei confronti di tutte le parti personalmente: ciò implica, da una parte, che l'atto di riassunzione, per quanto riguarda specificamente i contribuenti, va notificato non al domicilio eletto ai sensi dell'art. 17, bensì, in conformità a quanto previsto dall'art. 392 c.p.c., nel luogo di residenza o della sede degli stessi; dall'altra parte, che troveranno applicazione le disposizioni degli artt. 331 e 333 c.p.c..

La corretta instaurazione del rapporto processuale, stante la stretta correlazione tra “iudicium rescindens e iudicium rescissorium”, non può prescindere dalla chiamata in giudizio di tutti i destinatari della pronuncia rescindente e di quella cassata (cd. litisconsorzio necessario processuale), configurandosi il ricorso in riassunzione propriamente come attività d'impulso processuale che coinvolge gli stessi soggetti che furono parti nel giudizio di legittimità.

Ne consegue che il giudizio di rinvio, pur risultando tempestivamente instaurato con la citazione di una sola (o di alcune soltanto) di dette parti, entro il termine di legge, non può legittimamente proseguire se il giudice adito, in applicazione dei principi in tema di litisconsorzio necessario nella fase di gravame, non disponga l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutte le parti cui non risulti notificato l'atto introduttivo del giudizio, mentre l'intero processo andrà ad estinguersi in caso di mancata ottemperanza a tale disposizione ordinatoria (Cass. Civ., n. 6829/1998).

Il ricorso dovrà avvenire entro il termine perentorio di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, nelle forme, rispettivamente, previste per i giudizi di primo e secondo grado; alla spedizione del ricorso, poi, dovrà seguire la costituzione in giudizio ex artt. 22 e 53 stesso decreto.

Il termine è rispettato con la notificazione del ricorso alla controparte e, in sede di rinvio, le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza cassata.

Relativamente alla

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alterità

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del giudice, secondo l'interpretazione giurisprudenziale consolidata, è stato affermato che “in ipotesi di cassazione con rinvio, il nuovo collegio può essere composto anche con magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio, non determinando ciò alcuna compromissione dei requisiti di

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imparzialità e terzietà

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del giudice” (Cass. Civ., SS.UU. n. 24148/2013; Cass. n. 21835/2018).

Copia autentica di sentenza della cassazione deve essere prodotta nel giudizio riassunto.

Vincoli e limiti di operatività del giudizio di rinvio

Dal complesso della normativa di riferimento e dalla costante interpretazione della S.C., discende che il "rinvio", anche in materia tributaria, è destinato a svolgersi, nei confini invalicabili e nei limiti di quanto segnato dalla sentenza di annullamento della cassazione e nel rispetto del principio di diritto ivi enunciato, con impossibilità di estendersi a questioni non poste dalle parti e non rilevate d'ufficio (da ultimo: Cass. Civ. n. 12792/2016).

Infatti, nel giudizio di rinvio è inibito alle parti prendere conclusioni diverse da quelle precedenti e che non siano conseguenti alla sentenza di cassazione, non potendosi riesaminare gli antecedenti logico e giuridici della stessa, così come non sono modificabili i termini oggettivi della controversia, sia espressi che impliciti.

I limiti del nuovo giudizio, pertanto, non sono soltanto quelli che derivano dal divieto di ampliare il “thema decidendum” (prendendo nuove conclusioni), ma anche quelli inerenti alle preclusioni che discendono dal giudicato implicito formatosi con la sentenza di Cassazione.

Tale preclusione si estende, poi, alle questioni di diritto, non rilevate d'ufficio e non sollevate dalle parti, anche se rilevabili in qualunque stato e grado del processo, che tendono a porre nel nulla o a limitare gli effetti intangibili della sentenza di cassazione che fissa – in concreto – il principio di diritto ai fini della soluzione della controversia.

Il giudizio di riassunzione, in sostanza, deve rimanere confinato nei limiti tracciati dalla sentenza di annullamento e non consente un sindacato del giudice di rinvio su eventuali vizi della pronuncia di cassazione, anche ammesso che la pronuncia ne sia affetta, essendo precluso alle parti di prospettare, in sede rescissoria, nuove domande e nuove eccezioni, nonché di produrre nuova documentazione, se non necessitata dalla decisione di rinvio.

Il processo di rinvio, non a caso, è stato qualificato, da dottrina e giurisprudenza, a istruzione chiusa, finalizzato solo a sostituire la pronuncia cassata con una statuizione di merito, tenuto conto della decisione annullata e dei limiti fissati dal principio enunciato.

Il giudice di merito, perciò, nella cd. fase rescissoria, non ha facoltà di discostarsi dal principio di diritto enunciato in sede di legittimità ed è chiamato non a rinnovare il precedente grado di merito, ma a sostituire la sentenza nella parte in cui sia stata riconosciuta affetta dai vizi contestati con il ricorso di legittimità.

Al giudice del rinvio, infatti, non solo non è consentito di sindacare l'esattezza del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., dal quale egli è comunque vincolato ancorché non lo condivida, ma non gli è consentito neppure disattenderlo mediante adozione di conclusioni palesemente confliggenti con il principio affermato sia sul piano logico che sotto il profilo giuridico.

Inoltre, una decisione di Cassazione con rinvio, ancorché inficiata da violazione di norme di diritto sostanziale o processuale, non può essere disapplicata, salvo il caso di giuridica inesistenza, sia dal giudice di rinvio che dalla stessa Corte di Cassazione ulteriormente adita (Cass. Civ., n. 19307/2004).

Costituisce, invero, ius receptum nell'ordinamento quello secondo cui «il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, in sede di annullamento con rinvio di una sentenza di merito, può essere disatteso solo nei casi in cui la norma da applicare, in relazione al principio stesso, risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di ius superveniens (comprensivo sia dell'emissione di una norma di interpretazione autentica, sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale), ma non può, per converso, formare oggetto di riesame neppure sotto il profilo della legittimità costituzionale, a causa della definitività del principio stesso in relazione a tutte le questioni costituenti il presupposto logico ed inderogabile della pronuncia di annullamento, sia prospettata dalle parti che rilevabili d'ufficio, quand'anche la stessa Corte costituzionale, con successivo intervento interpretativo, abbia, della norma controversa, postulato un'interpretazione non coincidente con il principio di diritto già affermato dalla Cassazione» (Cass. Civ., n. 6986/2004).

L'orientamento è in linea con quanto – ulteriormente – sostenuto dalla Corte Costituzionale (ordinanza n. 149/13), che ha sottolineato che non è assolutamente compatibile con il sistema processuale delle impugnazioni la rivendicazione da parte del giudice del rinvio di un «riesame» su asseriti vizi della pronuncia emessa dai giudici di legittimità.

Le censure eventualmente sollevate con l'atto di riassunzione, infatti, si risolverebbero nella «rivendicazione di un sindacato del giudice del rinvio su (presunti) errores in iudicando e in procedendo della Corte di Cassazione: sindacato da ritenere peraltro incompatibile con il sistema delle impugnazioni, anche nel suo “volto costituzionale” ».

Consentire al giudice inferiore di operare un nuovo esame delle questioni, anche di diritto e già esaminate in sede di legittimità, non sarebbe rispondente al dettato dell'art. 384 – co.2 – C.p.c., che «risponde all'esigenza, propria del principio di definitività delle sentenze di Cassazione», per far si che il processo pervenga ad una soluzione finale e che questa assuma «valore definitivo, così da impedire la perpetuazione dei giudizi» (Corte Cost.n.149/2013).

Per i giudici delle leggi è connaturale, quindi, al «sistema delle impugnazioni ordinarie» che vi sia una pronuncia terminale, identificabile in quella della Cassazione, «per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad essa affidato dalla stessa Costituzione (…), che definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta o deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di ulteriore sindacato a opera di un giudice diverso».

Ha precisato, inoltre, la Corte Cost. che una siffatta esigenza di definitività e certezza rappresenta un valore costituzionalmente protetto, «in quanto ricollegabile sia al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), la cui effettività risulterebbe gravemente compromessa se fosse sempre possibile discutere sulla legittimità delle pronunce di Cassazione, sia al principio della ragionevole durata del processo, ora assunto al rango di precetto costituzionale alla luce del comma due dell'art. 111 Cost., come mod. dall'art. 1 della Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2».

Deve, poi, essere rispettata «la funzione nomofilattica assegnata dall'ordinamento alla Cassazione, di recente ulteriormente valorizzata dal legislatore a seguito delle riforme processuali del 2006 e del 2009, della quale è sicuramente partecipe il vincolo del “principio di diritto”».

Ius novorum

Lo ius novorum in sede di rinvio, che consente alle parti di prendere conclusioni diverse da quelle formulate nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza, poi, cassata, quando la relativa necessità insorga dalla sentenza di cassazione, resta riferito alla possibilità di dedurre nuovi mezzi di prova e non anche a quella di formulare domande in tutto o in parte nuove, continuando le parti a trovarsi, nel giudizio rescissorio, nella medesima situazione processuale in cui erano quando venne pronunciata la sentenza poi cassata.

Risultano, pertanto, ammissibili, nella fase nuova del giudizio di merito, conclusioni diverse, sostitutive di quelle originarie, quando le stesse siano conseguenza della mutata «ratio decidendi» prospettata dalla Corte di Cassazione nella sentenza che ha disposto il rinvio, ovvero in ipotesi di <<ius superveniens>> (attraverso una diversa definizione del rapporto, un diverso indirizzo della controversia o l'emissione di tesi giuridica in precedenza non prospettata).

Deve, in sostanza, configurarsi necessariamente l'ipotesi che il giudice del rinvio sia chiamato a decidere in modo diverso e sorga la necessità di illustrare ed eventualmente istruire questioni di diritto o di fatto divenute rilevanti ai fini del decidere (Cass. Civ., n. 3109/2004).

Nel giudizio di rinvio possono, invece, allegarsi fatti nuovi incidenti nel processo, a condizione che si tratti di fatti impeditivi, modificativi o estintivi intervenuti in un momento successivo a quello della loro possibile allegazione nelle pregresse fasi processuali (Cass.n.1927/2001).

Il giudizio di rinvio, si ripete, è un giudizio chiuso nel quale, dovendo il giudice limitarsi a completare il sillogismo giudiziale applicando il “dictum” della Cassazione ad un materiale di cognizione già completo, le parti sono obbligate a riproporre la controversia negli stessi termini e nello stato di istruzione anteriore alle sentenza cassata, senza possibilità di dedurre prove ed eccezioni nuove, ferma restando la possibilità di riproporre, comunque ed in ogni caso, le domande e le eccezioni assorbite e non formanti oggetto di ricorso incidentale per cassazione (Cass. Civ., n. 5503/2001).

Tuttavia, è facoltà delle parti chiarire e rendere più espliciti gli articolati di prova testimoniale in precedenza dedotti, soprattutto se le integrazioni proposte siano chiarificatrici del fatto già compiutamente descritto (Cass.n.8337/2005).

I limiti di ammissibilità delle prove concernono l'attività delle parti e non si estendono, però, ai poteri del giudice, il quale può sempre, secondo le necessità di giudizio, disporre una C.T.U. o rinnovare quella già espletata (Cass. Civ., n. 17686/2004).

Il divieto di nuove o diverse conclusioni, ex art. 393 c.p.c., non esclude, invece, la possibilità di abbandonare, nel giudizio rescissorio, una domanda già proposta, restringendo così il “thema decidendi” (Cass.n.3554/84).

È inammissibile, infine, in sede di rinvio, la proposizione di querela incidentale di falso contro documenti già acquisiti nel processo conclusosi con la pronuncia della sentenza poi cassata, non assumendo rilievo, a contrariis, la possibilità di contestare, tramite la querela di falso, i documenti stessi, atteso che, in nessun caso, l'eventuale accoglimento della querela potrebbe avere riflessi diretti nel giudizio di rinvio, nel quale il documento sia stato prodotto e non tempestivamente contestato ex artt.221 e segg. C.p.c. (Cass. Civ., n. 326/1999).

Mancata riassunzione del giudizio di rinvio

Nel rito tributario, ai sensi dell'art. 63 – co. 2 – D.Lgs. n. 546/1992, se la riassunzione non è effettuata tempestivamente o se, per una qualsiasi causa si estingue il giudizio di rinvio, l'intero processo si estingue con la cristallizzazione della pretesa tributaria, ma la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che si sia instaurato con la riproposizione della domanda.

Va rimarcato che la mancata riassunzione del giudizio, oltre ad assumere importanza dirimente del processo, comporta ex art. 393 c.p.c. e art. 63 – co. 2 – D.Lgs. n. 546/1992, la definitività dell'avviso di accertamento perché il giudizio di rinvio non è un nuovo procedimento di appello.

Se lo fosse, l'estinzione farebbe passare in giudicato la sentenza di primo grado; invece, essa rende definitivo l'atto impugnato e non è ipotizzabile un nuovo processo.

Per tali motivi è opportuno sottolineare che soltanto il contribuente ha interesse alla riassunzione del processo.

Costituisce orientamento costante della Corte di legittimità che “l'estinzione del processo travolge la sentenza impugnata ma non l'atto amministrativo, che non è un atto processuale bensì l'oggetto dell'impugnazione. Poiché l'opposizione avverso l'ingiunzione fiscale integra una mera azione di accertamento negativo della legittimità della pretesa tributaria, l'eventuale estinzione di tale processo di opposizione (per mancata riassunzione davanti al giudice di rinvio), non può implicare estinzione dell'obbligazione tributaria, la quale vive di forza propria per effetto dell'ingiunzione stessa, ed in essa trova titolo costitutivo” (da ultimo: Cass. Civ., n. 13808/2014).

Ciò contrariamente all'ipotesi prevista e disciplinata dall'art. 338 c.p.c., compatibile con la disciplina speciale del contenzioso tributario (artt. 49 e 61 D.Lgs. n. 546/1992), laddove non può rimanere in vita il provvedimento impositivo impugnato, ormai travolto e sostituito dal titolo giudiziale che ne ha annullato gli effetti. In ipotesi, la S.C. ha chiarito che “l'estinzione del processo tributario, per inattività delle parti, intervenuto in appello, in un giudizio già definito in primo grado con una decisione di fondatezza dell'azione del contribuente, determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale, come definita dalla sentenza di merito oggetto d'impugnazione, che passi in giudicato” (cit. Cass. Civ., n. 13808/2014).

Sommario