Reati contro la P.A. e pene accessorie. La disciplina modificata dalla l. 3/2019

Paolo Cirillo
Paolo Cirillo
08 Febbraio 2019

Decisamente in primo piano nel complesso della riforma sono le modifiche prospettate alla disciplina complessiva delle pene accessorie previste per i reati contro la pubblica amministrazione: nello specifico, interdizione dai pubblici uffici e incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. La strategia della legge 3/2019 è centrata sul significativo potenziamento della risposta sanzionatoria...
Abstract

Decisamente in primo piano nel complesso della riforma sono le modifiche prospettate alla disciplina complessiva delle pene accessorie previste per i reati contro la pubblica amministrazione: nello specifico, interdizione dai pubblici uffici e incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.

La strategia della legge 3/2019 è centrata sul significativo potenziamento della risposta sanzionatoria sul terreno di tali misure, ancor più che su quello delle pene principali, già interessate dai precedenti interventi di riforma.

Le modifiche operano su piani differenti, essendo modulate sull'estensione della latitudine applicativa (quanto ai casi), sull'aggravamento (quanto alla durata) e, infine, sull'inasprimento degli istituti connessi alle pene medesime.

L'estensione del campo applicativo

Innanzitutto, rispetto al primo profilo, è ampliata l'area di intervento delle pene accessorie.

In questo senso, l'art. 1, comma 1, lettera m), della l. 3/2019, modificando l'art. 317-bis c.p., integra il catalogo dei reati alla cui condanna consegue l'interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.

Parallelamente, la medesima norma fa riferimento, oggi, anche alle ipotesi di incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, alle quali dunque tocca analoga sorte (estensiva).

In relazione a quest'ultime pene accessorie, la disciplina è rafforzata dall'art. 32-quater c.p. che contempla le fattispecie incriminatrici, commesse in danno o a vantaggio di un'attività imprenditoriale (o comunque in relazione ad essa), alla cui condanna consegue la menzionata sanzione.

Tale disposizione, riformulata dall'art. 1, comma 1, lettera c), omologa l'elenco dei reati-presupposto, quanto a quelli contro la pubblica amministrazione, al novero previsto dal novellato art. 317-bis c.p. Le uniche differenze attengono al riferimento da parte dell'art. 32-quater c.p. alla sola ipotesi più grave di peculato, a quelle degli artt. 316-bise 316-ter c.p. e, da ultimo, alla fattispecie prevista dal neointrodotto art. 452-quaterdecies c.p.

Più in particolare, ai preesistenti reati di peculato (art. 314 c.p.), concussione (art. 317 c.p.), corruzione propria (art. 319 c.p.) e corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), tra le ipotesi legittimanti le predette pene accessorie, sono aggiunte nel 317-bis c.p. le condanne per i seguenti reati:

  • corruzione per l'esercizio della funzione (art. 318 c.p.);
  • corruzione (propria) aggravata dall'avere ad oggetto il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l'amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene nonché il pagamento o il rimborso di tributi (art. 319-bis);
  • induzione indebita a dare o promettere utilità (limitatamente all'ipotesi più grave, prevista dal primo comma dell'art. 319-quater c.p.);
  • corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 c.p.);
  • corruzione attiva in tutte le sue forme (art. 321 c.p.);
  • istigazione alla corruzione, attiva o passiva (art. 322 c.p.);
  • peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle comunità europee o di funzionari delle Comunità europee o di Stati esteri (art. 322-bis c.p.);
  • traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.).

Da tale quadro normativo emerge una considerevole estensione dell'area di applicazione delle pene accessorie, le quali conseguono, ora, alla condanna per una ben più ampia gamma di delitti contro la pubblica amministrazione.

Orbene, l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione già nella versione ante riforma era riferibile a un numero considerevole di fattispecie incriminatrici specifiche del settore in esame, con l'eccezione rappresentata dai delitti di cui agli artt. 314, 319-ter e 346-bis c.p. L'interdizione dai pubblici uffici, prevista in generale dagli artt. 28 e 29 c.p., era espressamente contemplata, rispetto alla materia dei delitti contro la P.A., con riferimento alle sole quattro ipotesi ex artt. 314, 317, 319 e 319-ter c.p.: si tratta di reati espressione di un ben più pregnante disvalore offensivo di quelli contemplati dal novellato art. 317-bis c.p. e per i quali si prevede(va) il carattere perpetuo della sanzione accessoria.

L'irrigidimento della durata: la perpetuità

L'ampliamento del novero dei delitti ai quali consegue l'applicazione delle summenzionate pene accessorie si accompagna, nell'ambito della riforma, a una revisione, nel segno di un maggior rigore, del rapporto tra interdizione perpetua e temporanea.

Come si è anticipato, un ulteriore significativo profilo di novità attiene proprio all'aggravamento, sul piano della durata, delle pene accessorie.

Si prevede, sempre all'art. 1, comma 1, lettera m), di modifica dell'art. 317-bis c.p., che, da un lato, la sanzione interdittiva, dall'altro, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione trovano applicazione in perpetuo, nel caso in cui la pena inflitta in concreto per uno dei reati de qua sia superiore ai due anni.

Nell'ipotesi in cui la pena sia inferiore a tale limite la durata di ambedue le pene accessorie si staglia in un periodo di tempo che va dai cinque ai sette anni.

Gli stessi margini edittali valgono anche nel caso in cui ricorra la circostanza attenuante del fatto di particolare tenuità di cui all'art. 323-bis, comma 1, c.p.

La cornice di riferimento scende da un anno, come minimo, a cinque anni, come massimo, nell'ipotesi in cui sia integrata la circostanza attenuante ad effetto speciale prevista dall'art. 323-bis, comma 2, c.p.: per chi, cioè, si sia efficacemente adoperato per evitare che l'azione delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite.

La ratio di quest'ultimo – più temperato – regime sanzionatorio si spiega alla luce della volontà di non disincentivare la c.d. “collaborazione processuale”, così da assicurare l'emersione delle vicende corruttive, di per sé a elevata “cifra oscura”.

Il prospettato quadro di irrigidimento della durata delle sanzioni accessorie costituisce una vistosa eccezione alla disciplina ordinaria attualmente prevista per tali istituti, rispetto ai quali il settore dei reati contro la pubblica amministrazione già si caratterizza(va) – almeno in parte – per aspetti di maggior rigore.

Sul punto è opportuna una precisazione.

Viene, infatti, mantenuto il contenuto afflittivo tradizionale di tali pene. In altri termini, l'interdizione continua a privare il condannato, salvo che la legge disponga diversamente:

  • del diritto di elettorato attivo e passivo e di ogni altro diritto politico;
  • di ogni pubblico ufficio e di ogni incarico, non obbligatorio, di pubblico ufficio;
  • dell'ufficio di tutore o di curatore;
  • dei gradi e delle dignità accademiche, dei titoli, e in generale dei diritti onorifici;
  • degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico, esclusi quelli derivanti da rapporto di lavoro.

Analogamente, l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione continua a comportare il divieto, presidiato dalla sanzione della nullità ex art. 1418 c.c., comma 1, di stipulare contratti con quest'ultima, se non per ottenere prestazioni di pubblico servizio.

Le deroghe rispetto alla disciplina di base attengono, come detto, al profilo temporale.

Infatti, quanto alle misure perpetue previste dalla riforma, va tenuto presente che, da un lato, le medesime non erano contemplate dall'art. 32-ter c.p. per il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, che, difatti, conosceva solo la declinazione pro tempore.

D'altro lato, l'art. 29 c.p. ammetteva ipso iure l'interdizione perpetua dai pubblici ufficiali ma limitatamente ai casi di condanna all'ergastolo o a pena non inferiore a cinque anni, nonché nelle ipotesi di dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato o di tendenza a delinquere; e ancora, l'art. 317-bis c.p., per la specifica materia dei delitti contro la pubblica amministrazione, anticipava, nella sua versione ante riforma, l'applicazione di tale misure per le condanne alla reclusione a partire da tre anni.

La novella in esame arretra ulteriormente, stabilendo che le predette sanzioni accessorie perpetue conseguono ad ogni condanna superiore a due anni e, per di più, in riferimento ad un più corposo catalogo di reati-presupposto.

La riforma inasprisce anche la previgente disciplina relativa alle ipotesi di pene accessorie temporanee nei delitti contro la pubblica amministrazione contemplati all'art. 317-bis c.p.

Oltre all'abbassamento da tre a due anni del limite edittale che comporta l'applicazione delle suddette sanzioni, risulta aumentata la durata delle stesse (da 5 a 7 anni) rispetto ai limiti ordinari che dall'art. 28 c.p., per l'interdizione dai pubblici uffici, e dall'art. 32-ter c.p., per il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, sono fissati tra uno e cinque anni (tale disciplina in riferimento all'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione è stata il frutto della l. 69/2015. Prima di tale intervento era previsto che la misura accessoria in questione non potesse avere durata inferiore ad un anno né superiore a tre anni. In questo senso, l'ulteriore aggravamento della durata della pena prospettato dal disegno di legge in commento si pone in linea di continuità con la politica-criminale inaugurata dalla precedente riforma).

Insomma, in tutti questi casi quella che, fino ad ora, rappresentava la durata massima della sanzione accessoria diventerebbe, alla luce della prospettata riforma, il minimo temporale.

La scelta di conservare comunque un'area di attenuazione per le pene inflitte che non superino i due anni di reclusione deriva, come si apprende nella Relazione al disegno di legge, da un argomento sistematico, volto a garantire l'intrinseca razionalità del quadro sanzionatorio.

L'obiettivo è, cioè, evitare contraddizioni con la disciplina della sanzione accessoria dell'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego (art. 32-quinquies c.p.), prevista nel caso di condanna per un tempo non inferiore a due anni per i delitti di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, e 320 c.p.

Ne deriva una normativa che, nel complesso, estende considerevolmente i casi di applicazione delle sanzioni accessorie perpetue e aggrava notevolmente, nella loro entità, quelle temporanee. Per queste ultime, infatti, risulta ridotta la possibilità di mitigarne la durata in rapporto a quella della pena principale: possibilità, fino ad ora, prevista sia per l'interdizione temporanea dai pubblici uffici, che la giurisprudenza tende a commisurare in termini coincidenti con quelli della pena principale irrogata, sia pure per l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, giacché l'art. 32-ter c.p. si fonda su di una cornice edittale più ampia.

La sospensione condizionale della pena

La riforma si propone anche di irrobustire l'effettività delle pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, scardinando ogni tipo di automatismo che possa regolare la loro applicazione.

In questa prospettiva, estremamente rilevanti sono le modifiche che incidono sull'attuale disciplina della sospensione condizionale della pena.

Rispetto a tale istituto, innanzitutto, è da segnare l'innovazione che l'art. 1, comma 1, lett. g) della l. 3/2019 apporta all'art. 165 c.p. in relazione agli obblighi del condannato per specifici reati contro la pubblica amministrazione che accede alla sospensione condizionale.

Il previgente art. 165, comma 4, c.p., a titolo di riparazione pecuniaria in favore della pubblica amministrazione, subordinava la concessione della causa estintiva del reato al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all'ammontare di quanto indebitamento percepito, da corrispondere in favore dell'amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.

La novella sostituisce tale disciplina e, oltre ad aggiungere al catalogo dei reati di cui all'art. 165, comma 4, c.p., la corruzione attiva (art. 321 c.p.), fa riferimento, come obbligo del condannato, alla somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria ai sensi dell'art. 322-quater c.p. Più precisamente, si tratta di una somma pari all'ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio della somma equivalente al prezzo o al profitto del reato da corrispondere in favore dell'amministrazione cui il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio appartiene.

Al di là di tale modifica, l'innovazione più radicale sul versante della stabilizzazione delle pene accessorie è quella che investe gli effetti della sospensione condizionale della pena.

Su questo profilo, l'art. 1, comma 1, lett. h), riforma l'art. 166 c.p., integrandone il contenuto del primo comma. Specificamente, si prevede la possibilità per il giudice, nella sentenza di condanna per una serie di reati contro la pubblica amministrazione, di disporre che la sospensione condizionale della pena non estenda gli effetti anche all'interdizione dai pubblici uffici e alla incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.

Il catalogo dei reati in oggetto comprende svariate fattispecie caratterizzate da differente disvalore:

  • il peculato, escluso quello d'uso;
  • la concussione;
  • la corruzione per l'esercizio della funzione;
  • la corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio, semplice e aggravata;
  • la corruzione in atti giudiziari;
  • l'induzione indebita a dare o promettere utilità;
  • la corruzione di persona incaricata di pubblico servizio;
  • la corruzione attiva;
  • l'istigazione alla corruzione;
  • i reati di peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri;
  • il traffico di influenze illecite.

La modifica normativa in questione cerca di eliminare ogni automatismo attualmente previsto circa le sanzioni accessorie nel caso di condanna per i sopracitati – più gravi – reati contro la pubblica amministrazione.

Si tratta di un'evidente rottura rispetto al sistema che, al momento, non conosce ipotesi di scissione tra il regime della pena principale e quello della pena accessoria nel caso di sospensione condizionale.

In realtà, in passato, prima delle modifiche apportate dal Legislatore del 1990, l'art. 166 c.p. impediva ipso iure alla sospensione condizionale di estendere i suoi effetti sulle pene accessorie, così come sugli altri effetti penali della condanna e sulle obbligazioni civili derivanti da reato. In quel contesto, proprio in relazione ai reati commessi con abuso di funzioni o professione, alla condanna a pena detentiva generalmente sospesa seguiva l'effettiva esecuzione della pena accessoria.

È stata la riformulazione della disposizione avutasi con la l. 19/1990 ad ammettere l'operatività della sospensione condizionale anche in riferimento alle pene accessorie, tanto che si ebbe l'esigenza di precisare che «la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione».

La nuova riforma, accentuando l'autonomia della sanzione accessoria rispetto a quella principale, andrebbe a ripristinare l'assetto precedente al 1990: con l'importante differenza di riservare la valutazione al giudice.

È lasciato, infatti, a quest'ultimo il compito di valutare la possibilità di applicare l'istituto di cui agli artt. 163 ss. c.p. anche rispetto all'interdizione dai pubblici uffici e al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, laddove, come risulta dalla Relazione al decreto, tale opzione sia effettivamente giustificata in chiave special-preventiva.

Vale la pena ricordare che prima della riforma del 1990, il problema della mancata sospensione condizionale delle pene accessorie, fu sottoposto in termini parzialmente corrispondenti alla Corte costituzionale, che ne condivise le premesse di fondo (Corte cost., 31 gennaio 1990, n. 60).

Logica pressoché analoga a quella che sottrae da automatismi l'istituto della sospensione condizionale della pena riguarda anche l'inedito meccanismo processuale prospettato con riferimento all'applicazione concordata della pena (comma 4, lett. e), l. 3/2019). Più nello specifico, il giudice del patteggiamento nei procedimenti per certi reati contro la pubblica amministrazione, quando la pena non superi i due anni di reclusione o arresto, può applicare le sanzioni di cui agli artt. 32-ter e 317-bis c.p., le quali, dunque, risultano del tutto svincolate dall'effetto premiale riconosciuto dall'art. 445 c.p.p.

La riabilitazione

Il medesimo scopo di una maggiore afflittività delle sanzioni accessorie è perseguito con l'art. 1, comma 1, lett. i), che incide sulla disciplina della riabilitazione ex art. 179 c.p.

Come è noto, quest'ultima estingue le pene accessorie e ogni altri effetto penale della condanna, salvo sia diversamente stabilito dalla legge (art. 178 c.p.).

La funzione è quella di consentire il reinserimento sociale del condannato, dopo aver espiato la pena principale, o dopo che questa si è altrimenti estinta, rimuovendo ogni ulteriore preclusione. Insomma, il riabilitato riacquisisce la capacità giuridica perduta a seguito della condanna e viene rimesso in condizioni di svolgere la sua normale attività nella società.

Per regola generale, sancita all'art. 179, comma 1, c.p., l'istituto è concesso quando siano decorsi almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. Il termine è di almeno otto anni se si tratta di recidivi e pari a dieci anni per i delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

La l. 3/2019 prevede una regola opposta, arrestando l'odierna disciplina.

Si aggiunge un settimo comma all'art. 79 c.p. che, in deroga alla normativa di riferimento, stabilisce che la riabilitazione ottenuta dopo la condanna per taluni reati contro la pubblica amministrazione (indicati dalla lettera h)) non ha effetto sulle pene accessorie perpetue.

Le conseguenze saranno pertanto limitate ad altre e diverse misure accessorie temporanee, eventualmente irrogate con la sentenza di condanna, nonché agli effetti penali della stessa: che ad esempio non potrà essere tenuta in conto per contestare la recidiva dopo la commissione di un nuovo reato.

Nella riforma si precisa, inoltre, che la dichiarazione di estinzione delle predette sanzioni avverrà una volta decorso un termine di 7 anni e nel caso in cui il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (la versione originaria del disegno di legge prevedeva la dichiarazione di estinzione della pena accessoria con il decorso di un termine pari a 12 anni).

Per raccordare la nuova disposizione con le norme processuali, che disciplinano il procedimento di riabilitazione, al comma 4, lett. g), si modifica l'art. 683 c.p.p., attribuendo la competenza per l'accertamento delle condizioni per l'estinzione della pena accessoria a seguito di riabilitazione al tribunale di sorveglianza, che procede nelle stesse forme previste per il procedimento di riabilitazione.

Le modifiche alla riabilitazione, se evitano rigidi meccanismi che ne impediscono in assoluto l'esplicarsi, comportano un significativo aggravamento delle condizioni per ottenere l'effetto estintivo delle sanzioni accessorie.

Come si legge nella Relazione al disegno di legge, l'intento è – ancora una volta – preservare la dissuasività e la persistenza di tali pene, inducendo le persone condannate per alcuni più gravi reati contro la pubblica amministrazione a mantenere una buona condotta per un tempo più lungo, ai fini dell'estensione delle conseguenze proprie della riabilitazione alle pene accessorie.

I profili applicativi

Diverse – e rilevanti – sono le conseguenze pratiche che le prospettate modifiche possono produrre nell'ambito della prassi applicativa.

Innanzitutto, l'ampliamento del novero delle fattispecie alle quali, in caso di condanna, segue una pena accessoria perpetua ex artt. 317-bis e 32-quater c.p. si traduce in un aumento esponenziale dell'applicazione di tali misure.

Evidentemente, ciò si verificherà anche rispetto a reati non caratterizzati da un particolare disvalore offensivo, tale da giustificare l'estensione.

Basti pensare, ad esempio, all'innalzamento a tre anni della pena minima per il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione (art. 318 c.p.): ben sarà possibile una condanna, al minimo edittale, per un fatto di corruzione del tutto minimale, dalla quale potrebbe conseguire la (sproporzionata) conseguenza dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici o dell'incapacità di contrattare in perpetuo con la pubblica amministrazione.

È vero che si potrebbe evitare la pena accessoria perpetua attraverso l'attenuante del fatto di particolare tenuità prevista dall'art. 323-bis, comma 1, c.p. che potrebbe abbattere il limite di pena a due anni di reclusione, ma è anche da considerare cosa nella pratica frequentemente avviene: quella attenuante, attratta nel giudizio di bilanciamento, potrebbe risultare equivalente o soccombente rispetto a concorrenti aggravanti.

Lo stesso discorso varrebbe anche in riferimento al delitto di traffico di influenze illecite: anche qui, una pena pari a due anni di reclusione, indice di fatti di non significativo disvalore, legittimerebbe l'applicazione di pene accessorie perpetue.

Singolare è l'assenza nel catalogo dei reati previsti agli artt. 317-bis e 34-ter c.p. della fattispecie di abuso d'ufficio aggravato. Se l'obiettivo è assicurare pene interdittive rigorose ai delitti contro la pubblica amministrazione avvertiti come particolarmente allarmanti, la disciplina non è del tutto coerente, giacché sembra difficile escludere da questi il reato previsto dal secondo comma dell'art. 323 c.p.

Le altre novità, foriere di conseguenze rilevanti sul piano pratico, sono quelle che prospettano l'aggravamento del trattamento delle misure in questione.

In proposito, va rilevato che, da un lato, la durata minima di queste stesse sarebbe più alta di quella massima prevista per un numero cospicuo di reati-presupposto; dall'altro lato, riducendosi la “forchetta” edittale, la conseguenza nella prassi applicativa sarà quella di una più ristretta possibilità per il giudice di calibrare la durata delle sanzioni accessorie su quella della pena principale, come avveniva in riferimento – almeno – all'interdizione.

Ma vi è di più. Considerate le pene comminate per i delitti richiamati dall'art. 317-bis c.p., nella nuova formulazione, le medesime variano, nel minimo, da un anno di reclusione (traffico di influenze) a due anni (corruzione impropria dell'incaricato di un pubblico servizio, istigazione alla corruzione impropria, attiva e passiva), tre anni (corruzione impropria del pubblico ufficiale), quattro anni (peculato, corruzione propria dell'incaricato di un pubblico servizio istigazione alla corruzione propria, attiva e passiva), sei anni (concussione, corruzione propria del pubblico ufficiale, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita del pubblico agente).

È evidente come, alla luce di tale quadro edittale, residui uno spazio molto limitato per l'interdizione e l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione a carattere temporaneo. Queste, a meno che operino circostanze attenuanti o riduzioni di pena collegate ad un rito processuale che riducano la reclusione entro due anni, potranno essere applicate solo per il traffico di influenze, la corruzione impropria dell'incaricato di pubblico servizio e l'istigazione alla corruzione impropria.

Parallelamente, l'irrogazione di una pena accessoria perpetua si staglierà come regola generale per numerose ipotesi delittuose: dalla corruzione del pubblico ufficiale all'istigazione alla corruzione propria, dalla corruzione propria dell'incaricato di pubblico servizio all'induzione indebita a dare o promettere utilità.

Il rischio è che nell'esperienza giudiziale la tendenza diventi quella di sottoporre tutti i fatti lato sensu corruttivi, tra loro caratterizzati da un disvalore molto diverso, ad un'unica pena fissa, per di più perpetua.

Ancora, misure destinate ad assumere un ruolo decisamente rilevante nelle dinamiche applicative sono quelle che prospettano l'abolizione degli automatismi previsti dalla legge nei casi di sospensione condizionale della pena o di applicazione su richiesta: in particolar modo alla luce del peso che, dal punto vista quantitativo, gli istituti menzionati rivestono oggi nelle condanne per le fattispecie corruttive, in realtà già di per sé assai rare nel nostro ordinamento.

Verosimilmente, è possibile che la dissociazione facoltativa degli effetti sospensivi delle due tipologie di pena spinga il giudice a formulare con maggior favore la prognosi richiesta dall'art. 164, comma 1, c.p., così da arrivare a concedere in termini più ampi la sospensione della pena detentiva (breve).

D'altronde, l'esperienza di altri Paesi nei quali è già previsto un meccanismo siffatto sembrerebbe corroborare tale tesi (Cardenal Montraveta, Sospensione condizionale della pena e rati di corruzione, in Diritto penale contemporaneo, 1, 2018, 87 ss.).

Piuttosto, il vero punctum dolens è un altro. Il rischio, cioè, è trasformare le pene accessorie in una sorta di “cautela” applicabile al fine di evitare che il reo rimanga in contatto con ambienti che hanno favorito la commissione del reato, nonostante l'espiazione della sanzione principale. In altri termini, si potrebbe avere, sotto la veste della pena (accessoria), una misura di sicurezza.

Tuttavia, in questo modo, si introdurrebbe un elemento di contraddizione con il comma 2 dell'art. 166 c.p. e, soprattutto, con l'art. 164, comma 3, c.p., che fa divieto di far conseguire alla sospensione condizionale della pena misure di sicurezza diverse dalla confisca.

Tra l'altro, suscettibile di cadute pratiche considerevoli è anche la previsione del limite di sette anni, come momento a partire del quale può ottenersi la riabilitazione rispetto alla pena accessoria.

Anche a non voler contare il tempo della durata del processo, in caso di condanna a due anni e un giorno di reclusione la pena accessoria perpetua non potrebbe estinguersi prima del decorso di dodici anni e un giorno: deve infatti attendersi l'esecuzione della pena principale, l'intervallo di tre anni per poter chiedere la riabilitazione, e l'ulteriore termine di sette anni per poter conseguire l'estinzione della pena stessa.

Si tratta di un momento che si colloca, fuori di dubbio, a un'enorme distanza dalla commissione del fatto e che è in grado di estromettere in modo irreversibile un individuo dalla pubblica amministrazione e un imprenditore dai rapporti commerciali con la stessa.

Insomma, dall'afflittività con cui la l. 3/2019 configura giuridicamente le pene accessorie derivano significative ricadute sul piano pratico, che possono incidere in termini rilevanti sulla concreta emersione dei fenomeni corruttivi.

Come è noto, la l. 69/2015 ha introdotto una circostanza attenuante per la collaborazione processuale nei delitti contro la pubblica amministrazione, garantendo una riduzione compresa tra un terzo e due terzi della pena. Si tratta di un istituto essenziale per un reato plurisoggettivo e bilaterale come la corruzione in cui, altrimenti, non vi sarebbe alcun interesse dei partecipanti a rendere noto il pactum sceleris.

L'inasprimento del sistema delle pene accessorie proposto dalla riforma potrebbe, dunque, incidere negativamente scoraggiando la collaborazione in sede dibattimentale.

È anche vero, però, che proprio con specifico riferimento a queste ipotesi la legge introduce un trattamento di favore. Tuttavia, proiettandoci sul versante applicativo, non si tratta di un meccanismo sufficiente a stimolare l'emersione dei fenomeni in questione, laddove comunque è forte il rischio di applicazione di una sanzione accessoria interdittiva, spesso persino più temuta di quella detentiva.

Un'analisi condotta sul terreno del processo suggerisce il pericolo di un sistema globalmente meno efficiente. Quasi che l'eccessivo aggravio nella disciplina delle pene accessorie sia destinato a condurre, in sede pratica, a una paradossale eterogenesi dei fini: si può, cioè, dubitare che l'innovazione porterà davvero a vedere aumentata la percentuale di sentenze cui segua l'effettiva esecuzione delle pene che inibiscono l'accesso a funzioni pubbliche ovvero a rapporti economici con la pubblica amministrazione (Camon, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Archivio Penale, 2018, 3, 11).

In conclusione

Preliminarmente, è opportuna una considerazione in merito alla scelta terminologica che stigmatizza le modifiche prospettate al sistema delle pene accessorie come Daspo per i corrotti.

La semplificazione letterale, nonostante l'indubbia efficacia comunicativa, è in realtà impropria. Una sanzione accessoria può scattare solo all'esito del giudizio penale e non può in alcun modo essere assimilata a una misura di prevenzione nata per contrastare il tifo violento e applicata in un arco temporale molto vicino ai fatti contestati.

Al di là della discutibile nomenclatura, nel complesso, l'idea di fondo della legge di insistere sulle pene accessorie, di carattere interdittivo, risulta in via di principio apprezzabile dal punto di vista politico-criminale.

L'interdizione dai pubblici uffici e il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione presentano un grado di affilittività minore rispetto alla reclusione, pena principale per i reati in questione, almeno per i profili che attengono alle limitazioni della libertà personale.

Tuttavia, non si può non rilevare come le pene accessorie siano avvertire dai consociati con uno sfavore spesso anche di gran lunga superiore a quello della pena detentiva strettamente intesa. Infatti, esse incidono, in termini segnatamente negativi, sulla possibilità di esercizio professionale, compromettendo, talvolta anche in via irreversibile, il diritto al lavoro e quello a riprendere l'attività imprenditoriale, costituzionalmente tutelato all'art. 41 Cost.

Comunque, per quello che in tale sede ci riguarda, si può considerare ragionevole, in via astratta, impedire al corrotto e al corruttore, rispettivamente, di rivestire di nuovo un ufficio pubblico o di contrattare con la P.A.

Non è un caso che in questo senso fosse costruita anche la precedente disciplina.

Sennonché, una verifica attenta si pone sotto il piano delle possibili frizioni che la scelta, come modulata dalla riforma, potrebbe determinare con i principi fondamentali del diritto e del processo penale, nonché con i capisaldi del sistema democratico nel suo complesso (in senso critico si veda Padovani, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusione della riforma, in Archivio penale, 3/2018).

L'impressione, che si anticipa, è quella di una iper-valorizzazione della funzione di prevenzione (generale e speciale), nella sola declinazione negativa della deterrenza e della neutralizzazione del reo: il marchio del corrotto diventerà davvero difficile da cancellare (Pellissero, Le nuove misure di contrasto alla corruzione: ancora un inasprimento della risposta sanzionatoria, in www.quotidianogiuridico.it).

Procediamo per ordine.

L'estensione del carattere perpetuo delle pene accessorie, in presenza di una condanna superiore a due anni, che nel nostro sistema – come si è detto – non è indice di un fatto di particolare gravità, si pone in antitesi con il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto. E, inoltre, collide con l'esigenza di ragionevolezza perché finisce per trattare allo stesso modo situazioni non dotate di disvalore omogeneo: una concussione non è equiparabile a chi ha dato o promesso al millantatore un'influenza inesistente.

Si badi che analoga considerazione vale anche per le misure accessorie temporanee, giacché la riduzione dello spazio edittale e la conseguente restrizione della valutazione individualizzante le avvicinano notevolmente a vere e proprie “pene fisse”, non idonee a registrare la differente carica offensiva delle distinte figure criminose.

D'altra parte, il carattere perpetuo delle sanzioni in questione si scontra soprattutto con il principio del finalismo rieducativo della pena ex artt. 27, 1 e 3 comma Cost.

La pena deve tendere a rieducare, nel senso di risocializzare, il condannato e dunque anche al corretto e al corruttore deve essere offerta dall'ordinamento la possibilità di un graduale e pieno recupero nella società, a un certo punto del percorso di espiazione della pena stessa.

In questo senso, è assai problematica anche la modifica che incide sulla disciplina della riabilitazione, laddove è previsto un termine fisso, spostato parecchio in avanti rispetto alla commissione del fatto, per ottenere l'effetto estintivo, a sua volta subordinato all'accertamento di un requisito, quello della buona condotta, già soddisfatto ex art. 179, comma 1, c.p.

Le perplessità attengono, soprattutto, alla circostanza per cui la determinazione del tempo suddetto è assolutamente svincolata dalla pericolosità, dalla recidiva del soggetto o da qualsivoglia giudizio individualizzante.

Insomma, si traccia un sistema in cui un soggetto, pur essendo riabilitato, continua a subire una pena accessoria nel caso di reati corruttivi; mentre, irragionevolmente, in presenza degli altri delitti, anche di ben maggiore gravità, continuerebbe a realizzarsi l'effetto estintivo nel limite temporale ordinario di tre anni.

Sul punto, de jure condendo, si è avanzata la proposta, più compatibile con i principi costituzionali in questione, di differire direttamente il termine entro il quale il condannato può ottenere la riabilitazione, magari modulando diversi regimi temporali di riferimento, così da consentire il reinserimento nella società in tempi adeguati al disvalore penale della condotta e al percorso seguito dal singolo.

Problematicità affini, rispetto al finalismo rieducativo della pena, emergono anche dalle innovazioni apportate alla sospensione condizionale della pena.

La creazione, cioè, del regime speciale che dà al giudice la possibilità di sospendere le pena principale, mandando in esecuzione quelle accessorie, solleva forti dubbi di costituzionalità. Non ha senso la rieducazione, attraverso l'applicazione di sanzioni interdittive, di un soggetto che è già risultato favorevole alla prognosi ex art. 63 c.p.: per di più, considerando che si tratta di una disciplina che – ancora una volta irragionevolmente – non vale per altri reati, anche di maggiore gravità.

Ora, non si può non rimarcare come, anche dal complessivo esame critico delle modifiche, emerga nitidamente un dato.

L'irrogazione di una pena accessoria perpetua sta diventando la regola generale per i reati corruttivi e, dunque, come si anticipava, fatti che possono presentare nell'esperienza concreta un disvalore molto diverso, e che infatti sono contenuti in una forbice edittale ampia, sono destinati ad essere sottoposti a un'unica pena fissa.

Da qui l'estrema problematicità delle innovazioni sul versante costituzionale: esse sembrano costruire una sorta di “ergastolo ostativo” delle sanzioni interdittive (Manna, Il fumo della pipa (il c.d. populismo politico e la reazione dell'Accademia e dell'Avvocatura), in Archivio Penale, 3, 2018. Sul punto, sia consentito il rinvio a Paliero, Pene fisse e Costituzione: argomenti vecchi e nuovi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, 725 ss.).

La questione è quanto mai attuale. Invero, quello della proporzionalità della pena è un terreno sul quale, recentemente, la Corte costituzionale ha maturato indirizzi che le riconoscono un sindacato penetrante.

Fautrice di un approccio radicalmente nuovo nelle valutazioni giudiziali sulla sanzione penale è stata la sentenza n. 236 del 2016 (con commento di Viganò, Un'importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Diritto penale contemporaneo, Riv. trim. 2/2017, 61 ss.). La Consulta, seppure in un contesto differente da quello di cui si sta discutendo, ha precisato che la pena, dovendo essere proporzionata all'entità del fatto e alla personalità dell'autore, è determinata nell'esercizio di una discrezionalità politica non assoluta, ma contenuta «da ulteriori principi e diritti costituzionali, a cui deve conformarsi anche il legislatore della punizione».

E ancora, appartiene al controllo di costituzionalità sulla pena non solo un giudizio di proporzione estrinseca, determinata dal confronto tra fattispecie diverse, ma anche un giudizio di proporzione intrinseca tra la cornice di pena e il disvalore del fatto al quale essa consegue.

Sul filo di tale principio di diritto, la Corte è intervenuta proprio sull'argomento delle pene (accessorie) fisse.

In particolare, ad essere oggetto dello scrutinio di legittimità è stato l'art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare nella parte in cui stabilisce nella misura rigida di dieci anni, a prescindere dalla durata della pena principale irrogata, il tempo d'irrogazione delle pene accessorie previste a carico dei condannati per bancarotta: nello specifico, inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

La disposizione è stata tacciata di incostituzionalità da un'ordinanza della Corte di cassazione con riferimento agli artt. 3, 4, 41, 27 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 8 Cedu e 1, Protocollo n. 1 Cedu (Cass., Sez. I, ord. 17 novembre 2017, n. 52613, con nota di Galluccio, Pene fisse, pene rigide e Costituzione: le sanzioni accessorie interdittive nei delitti di bancarotta fraudolenta ancora al cospetto del giudice delle leggi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 876 ss.).

Ebbene, rispetto a tale previsione, ben meno penalizzante di quanto la novella prevede per i reati di corruzione, la Consulta, nel settembre scorso, ha accolto la questione di legittimità prospettata: la durata fissa delle pene accessorie dei delitti di bancarotta non appare compatibile con i principi costituzionali di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. La regola generale dovrebbe essere quella della mobilità delle sanzioni penali, così da assicurare il necessario finalismo rieducativo che le medesime sono tenute a perseguire (Corte cost., 25 settembre 2018, n. 222 (dep. 5 dicembre 2018), con commento di Galluccio, La sentenza della Consulta su Pene fisse e “rime obbligate”: costituzionalmente illegittime le pene accessorie dei delitti di bancarotta fraudolenta, in www.penalecontemporaneo.it.).

Con tutta probabilità l'eco di questa pronuncia esplicherà i suoi effetti (riflessi) anche rispetto al sistema delle pene accessorie descritto nella riforma in materia di reati corruttivi. In questa sede, i dubbi di costituzionalità sono addirittura acuiti dalla circostanza che la sanzione accessoria non solo è stabilità in termini fissi ma per di più è, come regola, perpetua.

Tratto da: AA.VV. La legge anticorruzione 2019, di prossima pubblicazione

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