La conversione delle pene pecuniarie dopo l’introduzione dell'art. 238-bis nel testo unico spese di giustizia

Leonardo Degl'Innocenti
14 Febbraio 2019

A norma del combinato disposto degli artt. 136 c.p. e 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) le pene pecuniarie non pagate per insolvibilità del condannato si convertono nella libertà controllata la cui durata non può superare il periodo massimo di un anno in caso di multa e di sei mesi in caso di ammenda. Per effetto della sentenza n. 1 del 12 gennaio 2012, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale...
Abstract

A norma del combinato disposto degli artt. 136 c.p. e 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) le pene pecuniarie non pagate per insolvibilità del condannato si convertono nella libertà controllata la cui durata non può superare il periodo massimo di un anno in caso di multa e di sei mesi in caso di ammenda.

Per effetto della sentenza n. 1 del 12 gennaio 2012, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 102, comma 3,l. 689/1981 cit., la conversione avviene secondo lo stesso criterio di ragguaglio stabilito dall'art. 135 c.p. (quindi calcolando euro 250,00, o frazione di euro 250,00 di pena pecuniaria per un giorno di libertà controllata).

Il procedimento di conversione era originariamente disciplinato dagli artt. 660 c.p.p. e 182 disp. att. c.p.p.; tali norme erano state abrogate dall'art. 299 del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) e la disciplina del procedimento di conversione era stata trasfusa negli artt. 237 e 238 del citato d.P.R.; la Corte costituzionale con la sentenza n. 212 del 18 giugno 2003 ha dichiarato incostituzionali i predetti articoli determinando così la reviviscenza della disciplina dettata dagli artt. 660 c.p.p. e 182 disp. att. c.p.p.

Tale disciplina è stata di recente integrata dal legislatore (art. 1, comma 473, legge 27 dicembre 2017, n. 205) mediante l'inserimento nel testo del d.P.R. 115/2002 dell'art. 238-bis.

Prima esaminare il procedimento di conversione e le problematiche a esso correlate occorre rammentare che l'esecuzione della pena pecuniaria è presidiata, ancorché in forma indiretta, da una sanzione penale: trattasi del delitto previsto dall'art. 388-ter c.p., introdotto dall'art. 109 della legge 689/1981, che punisce colui che al fine di sottrarsi all'esecuzione di una pena pecuniaria compie sui beni propri o altrui atti simulati o fraudolenti, ovvero pone in essere altri fatti fraudolenti.

In ordine alla delimitazione dell'ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che: «integra gli estremi del reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice - e non quello di mancata esecuzione dolosa di sanzioni pecuniarie - la condotta dell'agente che sottrae alla garanzia del creditore beni, già sottoposti a pignoramento, nell'ambito della procedura esecutiva promossa per il recupero delle somme dovute a titolo di multa, di ammenda o di sanzione amministrativa, in quanto l'ipotesi criminosa di cui all'art. 388, comma 3, c.p. presuppone, non la compromissione della generica garanzia offerta dal patrimonio del debitore, bensì l'esistenza dello specifico vincolo giudiziale sulla cosa oggetto dell'illecita condotta di sottrazione, che il privato non può eludere se non quando il giudice civile ne abbia eventualmente dichiarato l'inefficacia» (così Cass. pen., Sez. VI, 9 gennaio 2001 - 1 marzo 2001, n. 8601, Di Serio).

I compiti del pubblico ministero competente ad attivare il procedimento di conversione

Secondo i principi generali in tema di esecuzione spetta al pubblico ministero il compito di dare impulso al procedimentodi conversione della pena pecuniaria non pagata.

Per quanto riguarda l'individuazione del pubblico ministero onerato/legittimato a instaurare il procedimento merita di essere segnalato il decreto n. 533/2018 emesso dalla procura generale presso la Corte di vassazione in data 22 ottobre 2018 con il quale si è affermato, confermando l'orientamento espresso col decreto della stessa procura generale n. 441/2018 del 23 luglio 2018, che il compito di attivare il procedimento spetta all'ufficio del pubblico ministero incardinato presso il magistrato di sorveglianza competente per territorio in relazione al luogo di residenza del condannato e non all'ufficio del pubblico ministero costituito presso il giudice dell'esecuzione, come previsto in materia di misure di sicurezza dall'art. 658 c.p.p.

Nella motivazione del decreto si è evidenziato, inter alia, che tale soluzione è imposta anche dalla necessità di assicurare il rispetto «della regola generale della naturale identità tra il P.M. che propone la domanda e quello legittimato ad impugnare la relativa decisione».

Infatti, adottando l'altra soluzione, da un lato, la richiesta di conversione verrebbe proposta dal pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione, dall'altro, il provvedimento che definisce il procedimentodi conversione deve essere notificato ex art. 667, comma 4, c.p.p. al pubblico ministero incardinato presso l'ufficio del magistrato di sorveglianza, pubblico ministero al quale spetta la legittimazione ad impugnare detto provvedimento proponendo opposizione allo stesso giudice.

L'instaurazione del procedimento di conversione trova il suo presupposto nella accertata impossibilità di esazione della pena pecuniaria ed è subordinata all'iniziativa dell'Ufficio recupero crediti che ai sensi dell'art. 238-bis d.P.R. 115/2002 deve investire il pubblico ministero.

Detta norma prevede che l'Ufficio recupero crediti investa il pubblico ministero in due casi:

a) entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione da parte dell'Agente della riscossione relativa all'infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni;

b) ovvero se decorsi ventiquattro mesi dalla presa in carico del ruolo da parte del predetto Agente della riscossione ed in mancanza della ricordata comunicazione, non risulti esperita alcuna attività esecutiva ovvero se gli esiti di quella esperita siano indicativi dell'impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa (commi 2 e 3).

Nei ricordati casi sono trasmessi al pubblico ministero tutti i dati acquisiti rilevanti ai fini dell'accertamento dell'impossibilità di esazione (comma 3).

D'altra parte l'art. 660, comma 2, c.p.p. prevede che il pubblico ministero trasmetta gli atti al magistrato di sorveglianza competente quando è accertata l'impossibilità di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa.

In questo quadro normativo appare condivisibile quanto sostenuto nella circolare emessa in data 26 settembre 2018 dalla procura generale della Repubblica presso la Corte di appello di Reggio Calabria e cioè che se la trasmissione degli atti da parte ufficio recupero creditideve comprendere gli esiti dell'attività esecutiva indicativi dell'impossibilità di esazione, compito del pubblico ministero competente «sarà allora quello di valutare la fondatezza di tale impossibilità, verificando in primo luogo l'esistenza attuale del credito e il decorso dei 24 mesi nelle ipotesi di cui al comma 3 della disposizione in esame, controllando la rispondenza formale tra l'importo iscritto a ruolo dall'Agente della riscossione e l'entità della sanzione pecuniaria inevasa, inoltre se la stessa si sia estinta (per indulto, depenalizzazione, prescrizione) oppure modificata per via di ipotetiche altre statuizioni del giudice dell'esecuzione (ad es. applicazione della continuazione in fase esecutiva)».

In dottrina è stato parimenti evidenziato che il sistema delineato dall'art. 238-bis d.P.R. 115/2002 potrebbe portare l'Ufficio a investire il pubblico ministeroaffinchéattivi la conversione presso il magistrato di sorveglianza competente anche in caso di mancata effettuazione di procedure di pignoramento potenzialmente fruttuose e che per evitare una simile conseguenza e il compimento di un'inutile attività istruttoria da parte dell'Ufficio di sorveglianza è possibile leggere il quarto comma dell'art. 238-bis cit. in combinato disposto con il già citato comma secondo dell'art. 660 c.p.p.

In altri termini è possibile sostenere, a livello interpretativo, che ove il pubblico ministero riscontri una inadeguatezza della procedura esecutiva debba, anziché trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per l'attivazione del procedimento di conversione, investire l'Ufficio incaricato della riscossione per l'ulteriore corso della procedura esecutiva stessa ossia la rimessione degli atti al concessionario (Agenzia delle Entrate-Riscossione) perché esperisca l'attività di riscossione coattiva necessaria (così E. QUARTA, Il procedimento di conversione delle pene pecuniarie inevase, 2018).

A questo riguardo deve essere ricordato come antecedentemente all'entrata in vigore del d.P.R. 115/2002 in giurisprudenza sia stato affermato che «nel procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie, il compito del pubblico ministero, nelle ipotesi in cui la procedura di recupero - cui è preposta istituzionalmente la cancelleria del giudice dell'esecuzione - abbia avuto esito negativo, consiste soltanto nel controllo formale dell'attività svolta dalla cancelleria medesima. Pertanto, una volta ricevuti gli atti della procedura risoltasi negativamente, egli deve limitarsi ad accertare se le ragioni di tale esito diano luogo a un'effettiva impossibilità di esazione della pena pecuniaria ovvero se risultino in qualche modo superabili, rivolgendosi, nella prima ipotesi al magistrato di sorveglianza - cui è demandato l'accertamento del passaggio dalla situazione di mera e contingente impossibilità di esazione a una condizione di insolvenza effettiva e concreta - perché provveda alla conversione della pena pecuniaria, e, nella seconda ipotesi, restituendo gli atti alla cancelleria del giudice dell'esecuzione, perché riprenda la procedura di riscossione» (così Cass. pen., Sez. I, 19maggio 1997, n. 3460, pubblico ministero in proc. Gelsomino).

Analoga opzione interpretativa appare sostenibile, tenuto conto di quanto verrà di seguito esposto nei successivi paragrafi, in ordine all'opportunità che il pubblico ministero effettui, prima di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza, accertamenti in ordine all'effettiva irreperibilità del condannato.

Il magistrato di sorveglianza territorialmente competente

In ordine alla individuazione del giudice competente per territorio adisporre la conversione della pena pecuniaria si riscontrano in giurisprudenza due diversi orientamenti.

Secondo un primo indirizzo il criterio da utilizzare per l'individuazione è quello, stabilito dall'art. 107, comma 1, della legge 689/1981, del luogo di residenzadel condannato, criterio applicabile anche nel caso in cui il condannato sia ristretto in un istituto penitenziario ubicato in un luogo diverso da quello di residenza del medesimo.

La conclusione che precede è stata affermata in considerazione della natura di norma speciale del citato art. 107, comma 1, legge 689/1981 che prevale sulla regola generale prevista dal primo comma dell'art. 677 c.p.p. in forza del disposto dell'art. 210 disp. att. c.p.p. giusto il quale continuano ad osservarsi le disposizioni di leggi o decreti che regolano la competenza per materia o per territorio in deroga alla disciplina del codice di rito (cfr. in questo senso, tra le altre e da ultimo, Cass. pen., Sez. I, 14maggio 1997, n. 3378, confl. competenza in proc. Testa e Cass. pen., Sez. I, 3 febbraio 1997, n. 730, confl. competenza in proc. Serra).

Un diverso indirizzo sostiene, invece, come la disposizione dell'art. 107, comma 1, della legge 689/1981 sia stata abrogata con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale che ha disciplinato ex novo l'istituto della conversione della pena pecuniaria modificando in modo radicale le linee del procedimento e l'ambito delle funzioni tanto del magistrato di sorveglianza quanto del pubblico ministero.

La clausola di salvezza contenuta nell'art. 210 disp. att. c.p.p. non può, pertanto, produrre l'effetto di assicurare la perdurante vigenza di una norma abrogata (cfr. in questo senso, tra le altre e da ultimo, Cass. pen., Sez. I, 6 marzo 1997, n. 1874, confl. competenza in proc. Addati e Cass. pen., Sez. I, 22 febbraio 1995, n. 1037, confl. competenza in proc. Ziggiotto).

È possibile, poi, individuare un terzo indirizzo a tenore del quale i concorrenti criteri di determinazione della competenza per territorio previsti dai ricordati artt. 677, comma 1, c.p.p. e 107, comma 1, l. 689/1981 coesistono con la conseguenza che la prima di tali norme individua il magistrato di sorveglianza territorialmente competente a disporre la conversione della pena pecuniaria mentre la seconda disposizione regola la competenza territoriale attinente alla fase della determinazione delle concrete modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva (cfr., in questo senso e da ultimo, Cass. pen., Sez. I, 5 novembre 1996, n. 5759, confl. competenza in proc. Grimaldi).

La Corte di cassazione con due recentissime sentenze della Prima Sezione (28 settembre 2018 - 8 novembre 2018, n. 50971, confl. competenza in proc. Leveque, inedita e 18 settembre 2018 - 28 dicembre 2018, n. 57902, confl. competenza in proc. Motta, inedita) ha aderito al secondo degli indirizzi sopra riportati.

Tali decisioni hanno valorizzato il riferimento alla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte stessa che hanno evidenziato come il codice di procedura penale del 1988 abbia, appunto, completamente ridisegnato la materia in esame mutando anche l'ambito di competenza dei relativi organi con la conseguenza che il criterio di determinazione della competenza per territorio del magistrato di sorveglianza è quello dettato dall'art. 677 c.p.p.il cui primo comma concerne l'ipotesi del condannato detenuto in Istituto di prevenzione o di pena (cfr., in termini, Cass. pen., Sez. unite., 29 ottobre 1997, n. 12, confl. comp. in proc. Russo).

Le Sezioni unite hanno inoltre affermatocome ai sensi del combinato disposto dal citato art. 107 legge 689/1981 e dall'art. 586 del codice di rito del 1930 la competenza in materia di conversione della pena pecuniaria era riservata al pubblico ministero o al Pretore con conseguente erroneità del richiamo effettuato all'art. 210 disp. att. c.p.p. per giustificare la sopravvivenza di un regola di competenza territoriale in favore di un soggetto, il magistrato di sorveglianza, che è stato investito di detta competenza soltanto con l'entrata in vigore del codice del 1988.

Quanto, infine, alla coesistenza dei più volte concorrenti criteri di determinazione della competenza per territorio, è stato osservato come la possibilità di emettere distinti provvedimenti non trovi supporto giuridico in alcuna disposizione di legge e sia, al contrario, esclusa dalla lettera del quarto comma dell'art. 660 c.p.p. che prescrive l'adozione delle modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva con lo stesso provvedimento di conversione (così Cass. pen., Sez. unite, 25 ottobre 1995, n. 35, Nikolic).

Dalla natura unitaria del procedimento di conversione consegue necessariamente, ad avviso delle due recentissime pronunce della Corte di cassazione, che il criterio determinativo della competenza per territorio deve essere necessariamente unico e che, nel caso del condannato ristretto in un Istituto di prevenzione o di pena, trova applicazione il disposto del primo comma dell'art. 677 c.p.p. «la cui estensione copre tanto la pronuncia dell'ordine di conversione quanto l'individuazione delle modalità esecutive, sicché, anche sotto questo profilo, non ha alcuna ragione di essere il riferimento all'art. 107 della legge n. 689/1981».

Per concludere, deve essere ricordato come in caso di conversione della pena pecuniaria in libertà controllata (o in lavoro sostitutivo) la competenza alla gestione complessiva della sanzione sostitutiva e, di conseguenza, anche alla eventuale modifica delle prescrizioni imposte spetta, nel caso di trasferimento di residenza (o di domicilio) del condannato, al magistrato di sorveglianza che ha provveduto alla conversione e non a quello che ha giurisdizione nel territorio di residenza o domicilio dello stesso (cfr., in termini, Cass. pen., Sez. I, 29 ottobre 2004, n. 46025, confl. comp. in proc. Caloria).

Il condannato irreperibile

La questione della competenza territoriale del magistrato di sorveglianza assume un rilievo particolare nel caso in cui il mancato pagamento della pena pecuniaria riguardi un condannato irreperibile.

Anteriormente alla riforma operata dal d.P.R. 30maggio 2002, n. 115 sussistevano, in giurisprudenza, due opposti orientamenti.

Secondo il primo di tali orientamenti poiché l'accertamento dell'effettiva insolvibilità ai sensi dell'art. 660 c.p.p. costituisce il presupposto per disporre la conversione della pecuniaria e poiché un tale accertamento non può che avere luogo dopo il materiale reperimento del condannato (il quale deve, peraltro ed ai sensi del secondo comma dell'art. 107 legge 689/1981, essere preventivamente sentito), anche perché il medesimo, originariamente insolvibile, potrebbe avere mutato la propria condizione, in caso di irreperibilità del condannato l'intera esecuzione (e non la sola conversione della pena pecuniaria) resta subordinata all'effettivo rintraccio della persona che vi deve essere sottoposta (cfr., in questo senso e tra le altre, Cass. pen., Sez. I, 10 aprile 1995, n. 2196, P.M. in proc. Toledo).

Nessun magistrato di sorveglianza è pertanto competente, nel perdurare dello stato di irreperibilità del condannato, a disporre la conversione che potrà avere luogo soltanto se e quando il condannato verrà reperito, con la conseguenza che il giudice adito dovrà restituire gli atti al pubblico ministero richiedente.

Secondo un altro indirizzo, per altro minoritario, il perdurante stato di irreperibilità del condannato non costituisce una condizione ostativa all'adozione da parte del magistrato di sorveglianza del provvedimento di conversione, provvedimento che, tuttavia, dovrebbe essere emesso senza determinazione delle modalità di esecuzione della pena convertita, determinazione alla quale si provvederà soltanto in un momento successivo se e quando il condannato verrà reperito (così, tra le altre, Cass. pen., Sez. I, 10 marzo 1994, n. 1180, pubblico ministero in proc. Bicim, ove si evidenzia, a favore della tesi sostenuta, come l'art. 102, comma 4, legge 689/1981 consenta di fare cessare in ogni momento la sanzione sostitutiva mediante il pagamento della pena pecuniaria dovuta).

Tanto premesso, deve essere ricordato come sulla questione sia intervenuta la ricordata pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione 25 ottobre 1995, n. 35, Nikolic che ha ritenuto di non poter seguire il descritto orientamento minoritario dovendosi, appunto, escludere la possibilità di emissione di due distinti provvedimenti.

Ancora, hanno osservato le Sezioni unite che presupponendo, appunto, la conversione il necessario accertamento dell'effettiva insolvibilità del condannato (concetto distinto dalla mera insolvenza dell'obbligazione pecuniaria richiedendo l'impossibilità economica del condannato di fare fronte ai propri impegni) «non si scorge come possa essere compiuto quell'accertamento, nei confronti di soggetti, per i quali, proprio a cagione della loro irreperibilità, non è possibile conoscere quali siano le effettive attuali (eventualmente anche sopravvenute) possibilità economiche».

Ciò chiarito, la S.C. ha comunque ritenuto non condivisibile la soluzione adottata dall'altro indirizzo giurisprudenziale perché pone a carico del pubblico ministero l'onere di accertare l'effettiva insolvibilità del condannato e ha adottato una distinta soluzione in forza della quale il magistrato di sorveglianza, una volta accertata l'irreperibilità del condannato e, di conseguenza, l'impossibilità di dichiarare lo stato di insolvibilità (presupposto della conversione), non potrà procedere alla conversione della pena pecuniaria ma dovrà restituire gli atti al pubblico ministero il quale a propria volta dovrà restituirli alla cancelleria del giudice dell'esecuzione perché provveda a rinnovare periodicamente la procedura dell'esecuzione essendo detto Ufficio quello istituzionalmente preposto alla riscossione delle pene pecuniarie.

Ancora, deve essere ricordato come la Corte costituzionale con ordinanza 107 dicembre 1997 n. 416 abbia dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 660 c.p.p. sollevata nella parte in cui non consente la conversione delle pene pecuniarie non recuperate per insolvibilità del condannato ove quest'ultimo risulti irreperibile.

La soluzione che precede appare confermata dal disposto dell'art. 235 d.P.R. 115/2002 che prevedendo l'iscrizione a ruolo del debito esistente a carico del condannato costituito dal mancato pagamento della pena pecuniaria soltanto nel caso in cui il medesimo sia reperibile evidenzia come il magistrato di sorveglianza non possa procedere alla conversione della pena pecuniaria richiesta qualora sia stata accertata la sua irreperibilità.

Da ultimo, deve essere segnalato il ricorso per Cassazione proposto dalla procura generale presso la Corte di appello di Firenze avverso il provvedimento con il quale il magistrato di sorveglianza ha dichiarato non luogo a provvedere in ordine alla richiesta conversione della pena pecuniaria in considerazione dell'irreperibilità del condannato.

A sostegno dell'impugnazione il procuratore generale:

a) ha dedotto, richiamandosi al principio enunciato da Cass. pen., Sez. I, 2maggio 1995, n. 2668, pubblico ministero in proc. Duri, Rv. 201480, che in caso di irreperibilità del condannato il magistrato di sorveglianza «non può per ciò solo restituire gli atti medesimi al pubblico ministero, ma deve disporre comunque le opportune indagini in ordine alla solvibilità del soggetto ed al connesso punto delle reperibilità di costui, posto che, tra l'altro, anche l'irreperibile può risultare proprietario di beni espropriabili in via esecutiva siti in luoghi diversi da quello in cui la cancelleria del giudice dell'esecuzione, in base di dati in suo possesso, ha tentato di esperire la procedura esecutiva»;

b) ha richiamato il comma 6 dell'art. 238-bis d.P.R. 115/2002 in forza del quale «Il magistrato di sorveglianza, al fine di accertare l'effettiva insolvibilità del debitore, può disporre le opportune indagini nel luogo del domicilio o della residenza, ovvero dove si abbia ragione di ritenere che lo stesso possieda altri beni o cespiti di reddito e richiede, se necessario, informazioni agli organi finanziari»;

c) ha affermato, tenuto presente che «per insolvibilità si intende una situazione di oggettiva e permanente difficoltà di adempiere non essendo sufficiente a giustificare la conversione la semplice e temporanea insolvenza»,che solo all'esito degli accertamenti prescritti dalla norma sopra richiamato «il magistrato di sorveglianza può restituire gli atti al pubblico ministero e non anche al fine di onerare il pubblico ministero di quegli accertamenti che l'art. 238-bis pone a suo carico. Nell'ordinare la restituzione degli atti il magistrato di sorveglianza deve precisare l'esito degli accertamenti circa la insolvibilità, talché il pubblico ministero possa restituire gli atti alla cancelleria del giudice dell'esecuzione o perché provveda alla riscossione coattiva quando sia risultata la solvibilità o, in caso contrario, perché provveda a rinnovare periodicamente gli atti esecutivi in quanto ufficio istituzionalmente preposto alla riscossione delle pene» (come statuito da Cass. pen., Sez. I, 19 maggio 1997, n. 3460, citata nei motivi di ricorso).

Il condannato dichiarato fallito

Occorre premettere che in data 10 gennaio 2019 il Consiglio dei Ministri ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo che, dando attuazione alla legge 19 ottobre 2017, n. 155, ha introdotto il nuovo cice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (nelle more della pubblicazione dell'articolo il decreto legislativo 12 gennaio 219, n. 14 è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale - Serie Generale n. 38 del 14 febbraio 2019 - Suppl. Ordinario n. 6).

Deve sinteticamente essere ricordato che la legge fallimentare, ivi comprese le norme di rilevanza penale, non è stata abrogata restando disciplinati dalla normativa a oggi vigente i ricorsi e le domande pendenti alla data in cui entrerà in vigore il menzionato decreto legislativo (nonché le procedure aperte in conseguenza degli stessi) oltre che le procedure pendenti alla medesima data.

Ancora, deve essere osservato come il concetto di fallimento scomparirà (anche nelle disposizioni penali) e verrà sostituito con quello di liquidazione giudiziale procedura quest'ultima corrispondente, nelle caratteristiche essenziali, a quella fallimentare.

Tanto premesso, appare opportuno ricordare la giurisprudenza formatasi in relazione alla normativa attualmente vigente e in forza della quale è stato, dapprima, affermato che qualora il condannato sia stato dichiarato fallito la pena pecuniaria inflittagli per un fatto commesso anteriormente alla data di dichiarazione di fallimento non può essere convertita se non successivamente alla chiusura della procedura concorsuale posto che prima di tale dichiarazione sussiste soltanto una situazione di insolvenza del condannato e non di insolvibilità che potrebbe risultare esclusa una volta che il fallito sia tornato in bonis (così, tra le altre conformi, Cass. pen., Sez. I, 17 dicembre 2002, n. 1996, Presti).

Successivamente la Corte di Cassazione ha, però, affermato che, escluso l'obbligo di insinuarsi nel passivo fallimentare ritenuto superfluo ed irrilevante l'esito della procedura concorsuale, una volta accertata l'insolvibilità del condannato è possibile procedere alla conversione della pena pecuniaria inflitta in relazione a reati commessi antecedentemente alla dichiarazione di fallimento (cfr., in termini, Cass. pen., Sez. I, 9 giugno 2005, n. 26358, Petrillo).

La conversione delle pene pecuniarie irrogate dal giudice di pace

La Corte di cassazione ha ritenuto che la competenza a decidere in ordine a una richiesta di conversione per insolvibilità di pena pecuniaria irrogata dal giudice di pace spetti al magistrato di sorveglianza (cfr. Cass. pen., Sez. I, 15 novembre 2018, n. 56967, confl. competenza in proc. Maroane, inedita; Cass. pen., Sez. I, 27 novembre 2018, n. 526, confl. competenza in proc. Troci, inedita; Cass. pen., Sez. I, 27 novembre 2018, n. 527, confl. competenza in proc. Bllazhde, inedita e Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 2018, n. 1560, confl. competenza in proc. Grisolia, inedita, in quest'ultimo caso le conclusioni del Procuratore Generale sono state nel senso di ravvisare la competenza del giudice di pace).

La S.C. ha motivato la propria decisione, in tutte e quattro le ricordate pronunce, nel modo che segue:

«1. Il conflitto deve essere risolto nel senso indicato dal giudice che l'ha sollevato.

Osserva il Collegio che si verte, con certezza, in una ipotesi di conflitto negativo di competenza a norma dell'art. 28 cod.proc.pen. poiché due organi giurisdizionali hanno ritenuto che la competenza a provvedere spettasse all'altro.

Giova richiamare la norme del D.Lvo n. 274 del 2000 che vengono prese in considerazione dai due Giudici sopra indicati, e cioè: l'art 55 (“Per i reati di competenza del giudice di pace, la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi con le modalità indicate nell'articolo 54”), l'art 62 (“Le sanzioni sostitutive previste dagli articoli 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, non si applicano ai reati di competenza del giudice di pace”), l'art 42 (“Le condanne a pena pecuniaria si eseguono a norma dell'articolo 660 del codice di procedura penale, ma l'accertamento della effettiva insolvibilità del condannato è svolto dal giudice di pace competente per l'esecuzione che adotta altresì i provvedimenti in ordine alla rateizzazione, ovvero alla conversione della pena pecuniaria”) e l'art. 40 (“Salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento è il giudice di pace che l'ha emesso”).

Ciò va tenuto presente nella ricostruzione storica dell'evoluzione dell'istituto de quo: l'esecuzione delle pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace era disciplinata dall'art. 42 del D.Lvo n. 274 del 2000, il quale stabiliva che essa aveva luogo ai sensi dell'art. 660 cod.proc.pen.; tuttavia, per scelta legislativa di concentrazione delle competenze in executivis, si era previsto che l'accertamento della effettiva insolvibilità del condannato fosse svolto dal Giudice di Pace competente per l'esecuzione, il quale adottava anche i provvedimenti in ordine alla rateizzazione o alla conversione della pena pecuniaria; in ordine al meccanismo di conversione delle pene pecuniarie inflitte dal Giudice di Pace, conseguente alla loro mancata esecuzione per insolvibilità del condannato, l'art. 55 del citato D.Lvo n. 274 del 2000 prevede in prima istanza il ricorso alla sanzione del lavoro sostitutivo per la durata e con le modalità regolate dallo stesso articolo: qualora sia violato l'obbligo del lavoro sostitutivo (o se esso non sia stato chiesto dal condannato), la parte residua della pena pecuniaria non eseguita mediante tale sanzione si converte in permanenza domiciliare.

Tuttavia, l'art. 299 del DPR n. 115 del 2002 (c.d. testo unico delle spese di giustizia) ha abrogato l'art. 42 sopra menzionato, stabilendo che le condanne a pena pecuniaria, a seguito della entrata in vigore della nuova normativa, dovevano eseguirsi a norma degli artt. 235, 237, 238 e 241 del testo unico: secondo tali disposizioni, le somme dovute erano recuperate dall'ufficio incaricato della gestione delle attività connesse alla riscossione (con la notifica dell'invito di pagamento si fissava il termine per l'adempimento, scaduto il quale si procedeva ad iscrizione a ruolo ed al recupero per il tramite del concessionario). Si trattava di una previsione inserita in più vasto ambito di attribuzione, in via generale, dei procedimenti di conversione delle pene pecuniarie al giudice dell'esecuzione: ed infatti, la norma prima indicata abrogava anche l'art. 660 cod.proc.pen., il quale stabiliva appunto la competenza del magistrato di sorveglianza per la conversione delle sanzioni pecuniarie inflitte dagli altri Giudici.

2. Questa nuova disciplina, però, non ha superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza 18/06/2003 n. 212, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 238 e 299 del DPR n. 115 del 2002, per eccesso di delega, nella parte in cui veniva abrogato l'art. 660 cod.proc.pen.

Scriveva la Corte Costituzionale nella citata sentenza che la delega conferita atteneva al procedimento di gestione e di alienazione dei beni sequestrati e confiscati, al procedimento relativo alle spese di giustizia ed ai procedimenti per l'iscrizione a ruolo e il rilascio di copie di atti in materia tributaria e in sede giurisdizionale, compresi i procedimenti in camera di consiglio, gli affari non contenziosi e le esecuzioni mobiliari ed immobiliari: in definitiva, era una delega che riguardava l'intera materia delle spese di giustizia; di conseguenza, notava che il Legislatore delegato aveva ritenuto esistesse una sostanziale comunanza della materia delle pene pecuniarie con quella delle spese di giustizia, poiché aveva riformato anche la disciplina del procedimento giurisdizionale di conversione delle pene pecuniarie, con particolare riguardo alla nuova competenza, sottratta al magistrato di sorveglianza per essere attribuita, in via generale, al giudice dell'esecuzione. Questa valutazione non veniva condivisa dalla Corte Costituzionale appunto, in quanto l'esistenza di una delega in materia coperte da riserva assoluta di legge – quale appunto quella della competenza del Giudice, ex art. 25 Cost. – non poteva essere desunta da una mera connessione con l'oggetto della delega stessa: doveva quindi ritenersi che il Legislatore delegato fosse privo del potere di dettare una disciplina del procedimento di conversione delle pene pecuniarie che comportasse una radicale modifica delle regole di competenza.

Pertanto, veniva dichiarata, fra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 299 del citato testo unico nella parte in cui aveva abrogato l'art. 660 cod.proc.pen..

Di conseguenza, l'intera materia della conversione delle pene pecuniarie confluiva nelle competenze del magistrato di sorveglianza.

Ed invero, avendo la Corte Costituzionale abrogato il menzionato art. 299 soltanto parzialmente, restava salva l'efficacia abrogativa che tale norma operava dell'art. 42 del D.L.vo n. 274 del 2000, il quale aveva attribuito la conversione delle pene pecuniarie inflitte dal Giudice di Pace a questo stesso giudice.

A questa efficacia abrogativa va aggiunto un altro effetto della decisione menzionata: la Corte Costituzionale ha anche abrogato, e per intero, l'art. 238 del citato testo unico, il quale articolo attribuiva in via generale la competenza per la conversione al giudice dell'esecuzione competente. Questo principio generale, dunque, non trova più applicazione all'istituto della conversione delle pene pecuniarie.

Ulteriore conseguenza è quella per cui, difettando una norma che attribuisca al Giudice di Pace la competenza alla conversione delle pene pecuniarie (o specificamente o quale giudice dell'esecuzione), non sussiste più una norma di legge che attribuisca al Giudice di Pace la materia della conversione delle pene pecuniarie inflitte con le sue sentenze.

In questa materia, unica norma residuata, e con portata generale, è l'art. 660 cod.proc.pen., che contempla una competenza specifica del magistrato di sorveglianza.

4. In dottrina, non isolati commenti hanno auspicato un nuovo intervento del Legislatore che torni ad assegnare formalmente tale attribuzione al Giudice di Pace.

Ma, allo stato, va preso atto della normativa vigente, così come risultante dall'intervento della Corte Costituzionale sopra indicato.

Va tuttavia precisato che detto intervento ha determinato una situazione normativa che non può dirsi irragionevole o non equilibrata: esso ha fatto riprendere vigenza ad una norma (e cioè l'art. 660 cod.proc.pen.) la quale si prestava comunque a disciplinare, in via generale, l'intera materia della conversione delle pene pecuniarie, per cui risulta eliminata soltanto la competenza derogatoria del Giudice di Pace. Ma il complesso normativo non è rimasto privo di una disciplina organica, giacché l'art. 660 cod.proc.pen., al suo comma 1, prevede appunto in via generale che la conversione delle pene pecuniarie è eseguita nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti: pertanto, è pienamente rispondente a questo dettato normativo che sussista una competenza giurisdizionale alla conversione delle pene pecuniarie che sia distinta da quella del giudice dell'esecuzione; parimenti è rispondente a questo dettato normativo che le pene pecuniarie inflitte dal Giudice di Pace (per il quale sussiste un apposito corpus normativo che tiene conto delle sue peculiarità) siano convertite in sanzioni differenti da quelle che convertono le pene pecuniarie inflitte dagli altri Giudici (lavoro sostitutivo ex art. 55 del D.L.vo n. 274 del 2000 o permanenza domiciliare, in luogo della libertà controllata o del lavoro sostitutivo ex art. 102 della legge n. 689 del 1981); non viola questo dettato normativo il fatto che tali sanzioni siano applicate dal magistrato di sorveglianza anziché dal Giudice di Pace, in applicazione del comma 1 dell'art. 660 cod.proc.pen, poiché la mera collocazione dell'art. 55 citato nel testo citato quale indicazione delle sanzioni applicabili dal Giudice di Pace non può significare che esse debbono essere applicate soltanto dal Giudice di Pace, considerato il mutamento del quadro normativo complessivo. Va infine considerato che il magistrato di sorveglianza già è competente per la conversione delle pene pecuniarie inflitte da tutti gli altri Giudici, per cui l'attribuzione anche di tale competenza non viola principi generali o funzioni particolari».

L'Ufficio di sorveglianza di Pisa (nel caso di specie ritenuto competente in risoluzione del conflitto negativo sollevato dal giudice di pace di Asti), ritenuto che il regime normativo vigente in virtù del quale è stata riconosciuta la competenza del magistrato di sorveglianza a decidere in ordine ad una richiesta di conversione per insolvibilità di pena pecuniaria irrogata dal Giudice di Pace sia il frutto di un intervento del legislatore delegato affetto da eccesso di delega e dunque in violazione dell'art. 76 Cost., hasollevato questione di legittimità costituzionale sulla scorta della motivazione che si riporta:

«A giudizio del magistrato di sorveglianza di Pisa la lucida esposizione del dettato normativo vigente, posta a fronte delle considerazioni e conclusioni della sentenza costituzionale 18.06.2003 n. 212 avrebbe dovuto condurre ad un diverso approdo: ovvero a ritenere che l'art. 299DPR n. 115/2002 (in questa sede si farà riferimento al Testo Unico in materia di spese di giustizia, comprensivo delle disposizioni legislative, D. L.vo n. 113/2002 che qui interessa, e di quelle regolamentari, D. L.vo n. 114/2002) è affetto da vizio di incostituzionalità per eccesso di delega anche nella parte in cui ha abrogato l'art. 42 D.L.vo n. 274/2000, norma che in virtù di tale riconosciuta illegittimità avrebbe dovuto (dovrebbe) essere restituita a piena vigenza (ex tunc) esattamente come l'art. 660 c.p.p., così da ripristinare integralmente il regime regolatore delle competenza in materia di conversione per insolvibilità di pene pecuniarie, quale disegnato dal legislatore al momento di introdurre il Giudice di Pace nell'ordinamento giuridico nazionale e legittimamente in vigore antecedentemente all'introduzione del DPR n. 115/2002.

Non sembra dubitabile in proposito che quando la Corte Costituzionale ha lapidariamente sancito che

“Il legislatore delegato - indipendentemente dall'ampiezza dei contorni che vogliano attribuirsi alla materia delle spese di giustizia - era, dunque, sicuramente privo del potere di dettare una disciplina del procedimento di conversione delle pene pecuniarie che comportasse - come quella impugnata - una radicale modifica delle regole di competenza.”

ha inteso riferirsi all'intervento normativo nel suo complesso e dunque, ancorché abbia poi limitato la portata demolitoria del suo dispositivo all'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 660 c.p.p., anche all'art. 299 nella parte in cui abroga l'art. 42 D.L.vo n. 274/2000; del resto avendo dato ulteriore conferma del proprio chiaro intendimento procedendo a dichiarare incostituzionali anche gli artt. 237 e 238 DPR n. 115/2002.

Alla luce dunque del significato della sentenza costituzionale richiamata, tanto limpido quanto riferito esplicitamente all'intera modifica normativa dettata dal legislatore delegato del 2002 in tema di competenza a decidere in merito alle conversioni per insolvibilità di pene pecuniarie, risulta non manifestamente infondata (rectius: ampiamente fondata) la questione di legittimità costituzionale dell'art. 299DPR n. 115/2002 nella parte in cui ha abrogato l'art. 42 D.L.vo n. 274/2000, per come affetto da eccesso di delega in violazione dell'art. 76 Cost.

Parallelamente tale questione risulta rilevante, e nei fatti decisiva, nel procedimento di sorveglianza in corso atteso che il suo accoglimento comporterà un elemento nuovo e risolutivo per affermare che – diversamente da quanto sancito a risoluzione del conflitto venutosi a creare - competente a valutare la richiesta di conversione per insolvibilità della pena pecuniaria irrogata a TROCI Fatjon è il Giudice di Pace di Asti.

In tal senso e per completezza espositiva può osservarsi che quale effetto – evidentemente non voluto – della sentenza costituzionale n. 212/2003 è stata travolta anche la legittima volontà del legislatore che nel 2000 aveva deciso di affidare al Giudice di Pace, in veste di Giudice dell'Esecuzione, le questioni afferenti la conversione per insolvibilità di pene pecuniarie da lui stesso irrogate.

L'art. 42 D.L.vo n. 274/2000 era stato infatti introdotto del tutto legittimamente nel contesto unitario del sistema normativo che regola il funzionamento del Giudice di Pace nell'ordinamento, ed in attuazione di una logica coerente tenendo in primo luogo conto dei ruoli radicalmente diversi che rivestono tale Giudice Onorario e il magistrato di sorveglianza il quale ultimo vede i suoi compiti collegati esclusivamente alle vicende esecutive delle decisioni della Magistratura Penale Ordinaria, al cui interno si colloca quale naturale articolazione.

L'art. 42 citato introduceva quindi in tema di conversione per insolvibilità di pene pecuniarie, un'idea di competenza diversa da quella sottesa al codice di rito, fondata sull'attribuzione di tale specifica funzione al Giudice dell'Esecuzione trattandosi di un intervento sul titolo esecutivo allorché se ne fosse constatata l'ineseguibilità nelle forme originariamente stabilite nella sentenza di condanna.

Il legislatore del 2002 ha quindi evidentemente inteso estendere tale opzione funzionale – in verità assai più coerente con la sistematica processuale - anche alla Magistratura Ordinaria, e volendo attribuire al Tribunale o alla Corte di Appello in veste di Giudice dell'Esecuzione la procedura di conversione di pena pecuniaria inesigibile per insolvibilità, ha simultaneamente abrogato l'art. 660 c.p.p. e introdotto l'art. 237 DPR n. 115/2002 secondo cui

“L'ufficio investe il pubblico ministero, perché attivi la conversione presso il giudice dell'esecuzione competente, entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione, da parte del concessionario, relativa all'infruttuoso esperimento del primo pignoramento su tutti i beni”.

Norma quest'ultima riferibile – e riferita – ad ogni Giudice dell'ordinamento giuridico penale, Ordinario o Onorario, e regolatrice della competenza funzionale tanto del Tribunale e della Corte di Appello quanto del Giudice di Pace, per il quale ultimo confermava la scelta già adottata a suo tempo nel 2000, così che nessuna variazione sostanziale determinava per tale parte atteso che il Giudice di Pace rimaneva competente, come in precedenza, per vagliare le richieste di conversione per insolvibilità di pene pecuniarie che aveva comminato.

Con il venir meno dell'art. 237 DPR n. 115/2002 per effetto della sentenza costituzionale che andava ad affiancare la già occorsa abrogazione dell'art. 42 D.L.vo n. 274/2000, ad opera dell'art. 299 DPR n. 115/2002 nella parte qui oggi impugnata dinanzi al Giudice delle Leggi, si è dunque cassata senza motivo la volontà del legislatore del 2000 che era stata espressa in modo assolutamente conforme a Costituzione, e che la legge delega n. 50/1999 non aveva autorizzato a modificare.

L'odierna questione di costituzionalità, allorché accolta, consentirà dunque di ripristinare quella disposizione che è stata posta nell'ordinamento in modo pienamente legittimo».

La prescrizione della pena pecuniaria

Occorre preliminarmente osservare come la disciplina relativa all'estinzione della pena per decorso del tempo di cui agli artt. 172 e 173 c.p. non preveda disposizioni in tema di sospensione e interruzione del termine di prescrizione che trovano, di conseguenza, applicazione soltanto in materia di prescrizione del reato (cfr., in termini, Cass. pen., Sez. III, 3 novembre 2016, n. 17228, Ghidini).

Ciò premesso occorre, però, aggiungere come non risulti condivisibile l'assunto giusto il quale il termine di prescrizione della pena pecuniaria della multa o dell'ammenda si determina con la maturazione del decennio (multa od ammenda se si tratta di recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell'art. 99 c.p., o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza) o del quinquennio (ammenda fuori dei casi ricordati) dall'irrevocabilità del titolo esecutivo.

La Corte di cassazione ha, invero, avuto modo di precisare che l'inizio dell'esecuzione è sufficiente a evitare l'estinzione della pena pecuniaria e che nessuna rilevanza assume, in mancanza di una previsione legislativa in tale senso, la circostanza se detto inizio sia avvenuto coattivamente o con la collaborazione del condannato (cfr., in questo senso, Cass. pen., Sez. I, 19 settembre 2017, n. 53156, Cardone, inedita, nonché Cass. pen., Sez. III, 3 novembre 2016, n. 17228, Ghidini, cit.).

Gli artt. 212 e 213 d.P.R. 115/2002 prevedono, infatti, che, entro un mese dal passaggio in giudicato o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo di pagamento, l'ufficio notifica al debitore l'invito a pagare l'importo dovuto entro un ulteriore mese dalla notificazione e a depositare la ricevuta di versamento di quanto dovuto entro dieci giorni dell'avvenuto pagamento, con l'avvertenza che si procederà a iscrizione a ruolo scaduto inutilmente il termine per l'adempimento e decorsi dieci giorni per il deposito della ricordata ricevuta.

L'art. 235 d.P.R. 115/2002 infine, e come già ricordato, stabilisce che dopo l'annullamento del credito per irreperibilità del debitore (art. 219 d.P.R. 115/2002), nel caso di invito al pagamento riferito a pene pecuniarie, l'Ufficio provvede all'iscrizione a ruolo soltanto se il condannato risulta reperibile.

La normativa sopra richiamata consente, pertanto e ad avviso della Corte di cassazione, di affermare che l'inizio dell'esecuzione della pena pecuniaria non si verifica al momento dell'irrevocabilità della sentenza o del decreto penale di condanna ma al momento successivo in cui il debito erariale viene iscritto a ruolo decorsi i termini, assegnati con l'invito al pagamento, per il pagamento e per il deposito della ricevuta con conseguente applicabilità del disposto del quarto comma dell'art. 172 c.p. a tenore del quale il tempo necessario per l'esecuzione della pena, nel caso di specie pecuniaria, decorre dal giorno in cui è scaduto il termine fissato dalla legge per l'esecuzione della pena (così Cass. pen., Sez. I, 19 settembre 2017, n. 53156, Cardone, cit.).

La sentenza sopra indicata conclude ribadendo che l'inizio dell'esecuzione come sopra determinato è sufficiente a evitare l'estinzione della pena pecuniaria evidenziando che per tale ragione parte della giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2017, n. 18702, Morabito) utilizza impropriamente il termine interruzione della prescrizione della pena pecuniaria con riferimento alla notificazione della cartella esattoriale fondata sulla iscrizione a ruolo della pena pecuniaria non pagata.

Altra sentenza della S.C. coeva alla precedente precisa, in senso conforme, che l'esecuzione della pena pecuniaria ha appunto inizio con il ricordato atto di invito al pagamento e con la successiva iscrizione a ruolo del debito erariale una volta scaduto il termine per l'adempimento con la conseguenza che «una volta avvenuta l'iscrizione a ruolo del debito a carico del condannato, prima del decorso del termine di prescrizione e previo compimento degli atti prodromici, se poi l'obbligato non adempie nei termini al pagamento si deve ritenere che egli si sia sottratto all'esecuzione della pena iniziata, a far tempo dalla data di iscrizione a ruolo, per gli effetti di cui all'art. 172, quarto comma, c.p.» (così letteralmente Cass. pen., Sez. I, 21 novembre 2017, n. 21729, Baglione, inedita, che ribadisce come in tale senso debbano essere recepite le indicazioni della giurisprudenza di legittimità relative alla “interruzione” della prescrizione conseguente alla notifica della cartella esattoriale).

Per completezza deve essere ricordato come la competenza in merito all'accertamento della sussistenza o meno del titolo esecutivo sia devoluta in via esclusiva al giudice dell'esecuzione anche con riferimento alla corrispondente fase dell'esecuzione (cfr. Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2017, n. 18702, Morabito, cit. che afferma appunto la competenza esclusiva del giudice dell'esecuzione penale in merito all'estinzione della pena pecuniaria, nonché Cass. pen., Sez. unite, 29 settembre 2011, n. 491, Pislor, per la definizione del rapporto tra le attribuzioni, nella stessa materia, del gudice dell'esecuzione penale e del giudice civile.)

Da quanto esposto consegue che l'intervenuta prescrizione della pena pecuniaria non è, comunque, denunciabile innanzi al competente magistrato di sorveglianza in sede di procedimento di conversione della pena pecuniaria, trattandosi di questione che deve ritenersi rientrante, in forza del disposto dell'art. 676 c.p.p., nella esclusiva competenza del giudice dell'esecuzione (così Cass. Sez. I, 30 gennaio 2001 - 11 aprile 2001, n. 15038, Papa, Rv. 218375).

Ancora, deve essere evidenziato come l'estinzione per decorso del tempo della sanzione pecuniaria penale possa essere fonte di responsabilità per danno erariale (cfr. Corte dei Conti, Sez. giur. Toscana, n. 580/2011).

Per completezza, deve essere ricordato come ai sensi degli artt. 172 e 173 c.p.:

a) quando congiuntamente alla pena della reclusione od a quella dell'ammenda è inflitta la pena della multa o quella dell'ammenda, per l'estinzione delle predette pene si ha riguardo soltanto al decorso del termine stabilito per la reclusione e per l'arresto;

b) nelle descritte ipotesi il termine di prescrizione della pena pecuniaria non è influenzato da vicende successive, quali quelle relative all'esecuzione della pena detentiva o la sua stessa estinzione (cfr., in termini, Cass. pen., Sez. I, 16 gennaio 2018, n. 8166, E., ove si afferma, peraltro, che il differimento dell'esecuzione della pena pecuniaria disposto dal magistrato di sorveglianza prima di ordinare, ai sensi degli artt. 660 c.p.p. e 102 legge 689/1981, la conversione di detta pena determina la sospensione della decorrenza del termine di estinzione per decorrere del tempo).

c) l'estinzione della pena pecuniaria della multa non può avere luogo se si tratta di recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell'art. 99 c.p., o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza ovvero se il condannato, durante il tempo necessario per l'estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.

Da ultimo occorre rammentare che:

a) ai sensi del quinto comma dell'art. 238-bis d.P.R 115/2002 l'articolo di ruolo relativo alle pene pecuniarie è sospeso dalla data in cui il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente;

b) quando il magistrato di sorveglianza accerta la solvibilità del debitore, l'Agente della riscossione riavvia le attività di competenza sullo stesso articolo di ruolo (comma 7 art. 238-bis cit.);

c) nel caso in cui il magistrato di sorveglianza disponga la conversione della pena pecuniaria o la rateizzazione della stessa o ancora il differimento della conversione di cui al comma terzo dell'art. 660 c.p.p., l'Ufficio ne dà comunicazione all'Agente della riscossione, anche ai fini del discarico per l'articolo di ruolo relativo (comma 8 art. 238-bis cit.).

Le pene pecuniarie irrogate con sentenza di applicazione pena o con decreto penale di condanna

Come noto in forza di quanto dispone l'art 136 disp. att. c.p.p., l'effetto estintivo di cui all'art. 445, comma 2 c.p.p. non si produce «[...] se la persona nei cui confronti la pena è stata applicata si sottrae volontariamente alla sua esecuzione».

Come puntualizzato in giurisprudenza tale preclusione opera unicamente nel caso di «una determinazione volontaria di sottrazione agli effetti della condanna passata in giudicato, rintracciabile soltanto in caso di evasione, oppure di omesso pagamento della sanzione pecuniaria» (così Cass. pen., Sez. I, 24 ottobre 2013, n. 45296, Milan).

Quanto agli effetti premiali del decreto penale di condanna, la mancata previsione di una disposizione analoga al citato art. 136 disp. att. c.p.p. è stata positivamente vagliata dalla Corte costituzionale (v. ordinanza n. 407/2007) che ha riconosciuto il carattere di norma sostanziale dell'art. 460, comma 5, c.p.p. con conseguente preclusione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, a una interpretazione estensiva che consenta l'applicazione anche al rito per decreto penale della norma in questione.

La Corte di cassazione ha conseguentemente ritenuto che l'effetto estintivo di cui all'art. 460, comma 5, c.p.p non è condizionato dalla mancata esecuzione della pena pecuniaria inflitta con il decreto penale di condanna (cfr., in termini, Cass. Sez. I, 23 gennaio 2018 - 6 marzo 2018, n. 10235, Marinelli, inedita).

Per concludere, deve essere rilevato che in entrambe le fattispecie esaminate occorrerà, perché si verifichi l'effetto estintivo, una pronuncia di accertamento del competente Giudice dell'esecuzione.

La sospensione dell'esecuzione della pena pecuniaria

Come noto l'esito positivo dell'affidamento in prova, sia ordinario che terapeutico, comporta l'estinzione della pena detentiva, di ogni effetto penale della condanna e, in caso di disagiate condizioni economiche del reo, anche della pena pecuniaria inflitta congiuntamente a quella detentiva (art 47, comma 12, ord. penit.).

In caso di ammissione del condannato all'affidamento in prova si era posto il problema della individuazione del giudice competente (giudice di sorveglianza o giudice dell'esecuzione)a pronunciarsi in merito alla sospensione dell'esecuzione della pena pecuniaria in attesa della decisione sull'esito della prova. La Corte di cassazione ha affermato che la competenza a decidere sull'istanza di sospensione spetta al Tribunale di Sorveglianza (Cass. Sez. I, 12 dicembre 2017, n. 18720, Albertin).

La Corte ha preliminarmente osservato che la questione della tutela cautelare non può neanche porsi qualora:

a) l'andamento della misura induca a formulare una ragionevole prognosi in ordine al suo esito negativo;

b) difetti il presupposto delle disagiate condizioni economiche “da porre in rapporto con l'entità della pena da eseguire, tenendo anche conto della possibilità di rateizzazione secondo le modalità e le decisioni del magistrato di sorveglianza previste dall'art. 660 cod. proc. pen.”;

c) l'esecuzione abbia raggiunto la data del suo completamento con esito positivo con la possibilità di adottare, in termini rapidi, il provvedimento di dichiarazione di estinzione anche della pena pecuniaria.

Ciò precisato, ha aggiunto la S.C. che quando sussiste il presupposto delle disagiate condizioni economiche del condannato ed è formulabile una ragionevole prognosi positiva in ordine anche ai presupposti estintivi della pena pecuniaria competerà ugualmente al Tribunale di Sorveglianza «[…] l'individuazione del modo in cui i suoi poteri potranno garantire apprezzabili e concrete esigenze a salvaguardia dell'effettività del provvedimento di favore nel prosieguo adottabile, al fine di non pregiudicare in itinere gli obiettivi rieducativi del trattamento che il comma 12 dell'art. 47 intende ulteriormente proteggere».

Nel caso di specie la Corte di cassazione affermata la competenza a pronunciasi sull'istanza cautelare del tribunale di sorveglianza di Torino, al quale sono stati trasmessi gli atti, ha ritenuto attribuita allo stesso giudice ogni determinazione in ordine alla questione di legittimità costituzionale sollevata in via subordinata dal ricorrente con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. là dove la mancata attribuzione del potere di sospendere l'esecuzione della pena pecuniaria (nella prospettazione del ricorrente al giudice dell'esecuzione) si porrebbe in contrasto con il principio di rieducazione della pena e determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento in favore dei condannati sottoposti all'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti dei quali durante l'applicazione della misura non sia stata posta in esecuzione (mediante la riscossione) la pena pecuniaria

Detta soluzione è stata poi confermata da Cass. pen., Sez. I, 8 aprile 2018, n. 18499, conflitto competenza in proc. Ippolito, inedita, la quale, dopo avere ricordato le competenze della magistratura di sorveglianza in subiecta materia, ha affermato che, se la competenza per l'emissione del provvedimento di merito conclusivo del procedimento avente ad oggetto la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale (declaratoria di estinzione, oltre che della pena detentiva, anche della pena pecuniaria) appartiene al tribunale di sorveglianza, parimenti la deliberazione in ordine all'istanza cautelare è devoluta, in carenza di una diversa indicazione normativa, al medesimo Giudice.

La S.C. ha, poi, evidenziato che il descritto principio è peraltro desumibile dal disposto dell'art. 279 c.p.p. (a tenore del quale sull'applicazione e sulla revoca delle misure cautelari personali e sulle modifiche delle loro modalità esecutive provvede, dopo l'esercizio dell'azione penale, il giudice che procede) e che l'esercizio del potere cautelare nel corso del procedimento non determina una situazione di incompatibilità deducibile come motivo di ricusazione in quanto il giudice è titolare della competenza cautelare accessoria che si radica in conseguenza di quella principale del giudizio sul merito (così Cass. pen., Sez. VI, 29 dicembre 2015, n. 11, Gammuto).

Il Giudice di legittimità ha, da ultimo, ricordato nuovamente che:

a) l'attribuzione della competenza al tribunale di sorveglianza lascia impregiudicato l'apprezzamento giudiziale in ordine alla «formulazione di una ragionevole prognosi di futura estinzione della pena pecuniaria fin dalla fase antecedente all'ammissione all'affidamento in prova, oltre che alla verifica delle disagiate condizioni economiche della parte esecutata apparendo oggettivamente tanto più complessa la prevedibilità degli effetti estintivi da salvaguardare quanto meno prossimo e tangibile sia l'esito finale del percorso normativamente contemplato per il compimento della misura alternativa, con il favorevole epilogo del percorso trattamentale»;

b) resta impregiudicata l'evenienza che il magistrato di sorveglianza disponga, ricorrendone le condizioni, la rateizzazione della pena pecuniaria ex art. 660 c.p.p..

Per concludere, deve essere evidenziato come Cass. pen., Sez. I, 21 luglio 2018, n. 38775, M. (in ANPP 4/2018, pp. 545 e ss.) abbia affermato che la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p. noncomporta anche la sospensione della pena pecuniaria che può avere luogo soltanto nei casi previsti dall'art. 90, comma 1, d.P.R. 309/1990 previo accertamento, da parte del Tribunale di Sorveglianza, che il condannato si trovi in disagiate condizioni economiche.

La Corte di Cassazione nell'escludere la competenza al riguardo del Giudice dell'esecuzione ha, però, evidenziato come nell'art. 47 ord. penit. difetti una previsione analoga a quella del primo comma del citato art. 90 d.P.R. 309/90 così rendendo plausibile una conclusione nettamente difforme da quella raggiunta dalle altre due illustrate pronunce di legittimità e cioè che in mancanza di un'espressa previsione normativa neanche il Tribunale di Sorveglianza possa adottare un provvedimento cautelare di sospensione dell'esecuzione della pena pecuniaria.

Applicabilità del patrocinio a spese dello Stato al procedimento di conversione delle pene pecuniarie

La Corte di cassazione ha ritenuto che la disciplina del patrocinio a spese dello Stato trovi applicazione anche nel procedimento di conversione delle pene pecuniarie.

A fondamento di tale soluzione si colloca il rilievo secondo cui l'art. 75, comma 2,d.P.R. 115/2002 nel menzionare la fase dell'esecuzione si riferisce a detta fase per la sua connotazione sostanziale rispetto alle altre fasi e non identifica, di conseguenza, un organo piuttosto che l'altro ma comprende tutti gli organi della giurisdizione penale chiamati a compiere, oggettivamente, attività di esecuzione (così letteralmente Cass. pen., Sez. IV, 4maggio 2006, n. 20811, Martinelli ed altro; nello stesso senso cfr. anche Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre 2008, 42852, Traversa; sempre in tale senso e con riferimento all'istituto della liberazione anticipata cfr. Cass. pen., Sez. IV, 30 settembre 2014, n. 43476, Rat).

L'orientamento della Suprema Corte risulta avvalorato anche dalla giurisprudenza costituzionale. Il giudice delle leggi con la sentenza 23 aprile 1998 n. 139 la Corte costituzionale – nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge 30 luglio 1990 n. 217 (norma sostanzialmente sovrapponibile, ai fini di interesse in questa sede, al citato art. 75 co. 2 d.P.R. 115/2002) in cui «non prevederebbe il gratuito patrocinio per tutti i procedimenti che si svolgono avanti al magistrato di sorveglianza» – affermò l'erroneità della premessa interpretativa del remittente evidenziando, da un punto vista letterale, che la norma là dove aveva fatto riferimento alla fase dell'esecuzione, aveva evidentemente inteso riferirsi a tutti gli organi della giurisdizione penale chiamati a compiere, oggettivamente, attività di esecuzione«mentre, sotto il profilo logico, teleologico e sistematico, costituendo la legge sul patrocinio a spese dello Stato attuazione della garanzia di cui all'art. 24 Cost., comma 3, e non imponendo, la norma censurata, in maniera espressa, di escludere l'accesso al beneficio nel procedimento davanti al magistrato di sorveglianza, di questo andava affermata l'ammissibilità, in applicazione del principio per cui tra più interpretazioni possibili va privilegiata quella che dia alla norma un senso conforme al dettato costituzionale».

Ovviamente in sede di liquidazione di regola dovrà essere esclusa la fase introduttiva.

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