Revocazione e correzione di errori materiali delle sentenze

Raffaele Marenghi
14 Marzo 2019

Il lavoro intende ripercorrere – in generale – l'istituto della revocazione (art.393 c.p.c.), il suo coordinamento con l'art.64 D.Lgs. n.546/1992 e – in particolare – l'ipotesi dell'errore revocatorio (art.395 n.4 c.p.c.), nonché la differenza con il procedimento di correzione di errori materiali delle sentenze (art.287 c.p.c.).
Premessa

La revocazione, in via generale, è un mezzo d'impugnazione a carattere eccezionale, che può aggiungersi o sovrapporsi all'appello e al ricorso per cassazione.

Con essa si sollecita allo stesso giudice che ha emesso la sentenza impugnata (art. 65 – co. 1 – D.Lgs. n. 546/1992 e art. 398 c.p.c.) la sua sostituzione per alcuni motivi, a carattere tassativo, che non ne censurano direttamente la legittimità come avviene per il giudizio per cassazione, bensì l'erroneità di fatto ed altre specifiche ipotesi.

È, dunque, un mezzo d'impugnazione, un rimedio a «critica vincolata», per il quale il codice di rito fissa, in modo tassativo, i motivi che riflettono

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fatti

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che abbiano in concreto esplicato un'influenza sulla formazione della decisione, di modo che il giudizio avrebbe potuto avere esito diverso qualora il giudice ne fosse stato a conoscenza.

Normativa e procedimento applicabile

Sulla base all'interpretazione della dottrina dominante e della giurisprudenza costante, nel processo tributario, il rimedio previsto dall'art. 398 c.p.c. può coesistere con il ricorso per Cassazione, quando il giudizio non è più impugnabile per questioni afferenti il fatto, anche se dovesse essere pendente il ricorso per Cassazione.

Essendo, nel processo civile, la revocazione un'impugnazione a contenuto sia «rescindente» (cioè di annullamento della sentenza impugnata), sia «rescissorio» (cioè di sostituzione della sentenza impugnata con una nuova sentenza di merito), deve ritenersi – parimenti – che, differentemente dal passato, essa non possa subire restrizioni applicative nel nuovo processo tributario.

Si distingue, pertanto, tra revocazione ordinaria e straordinaria: la prima (art. 395 c.p.c. n.1, 2, 3 e 6) si ha quando l'azione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza; quella straordinaria, (art. 395 c.p.c. n.4 e 5) invece, si configura qualora l'azione venga proposta dopo il passaggio in giudicato della stessa.

A dissipare ogni dubbio circa la possibile coesistenza dei due giudizi, la S.C. ha affermato che “in tema di contenzioso tributario, l'art. 64 – co.1 – D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui subordina l'ammissibilità della revocazione ordinaria alla non ulteriore impugnabilità della sentenza sul punto dell'accertamento in fatto, non si riferisce all'inoppugnabilità derivante dalla scadenza dei termini per l'impugnazione, ma a quella derivante dalle preclusioni relative all'oggetto del giudizio, ovverosia, per la sentenze di secondo grado, all'impossibilità di contestare l'accertamento in fatto in sede di legittimità: è pertanto ammissibile la revocazione ordinaria avverso una sentenza della C.T.R. inoppugnabile sotto il profilo dell'accertamento in fatto, ancorché non sia ancora scaduto il termine per la proposizione del ricorso per Cassazione" (Cass. Civ., n. 19522/2008).

Anche per la revocazione devono trovare applicazione i principi generali sull'interesse e sulla legittimazione ad impugnare che attengono ai rimedi ordinari; una sentenza, quindi, può essere impugnata per revocazione soltanto dagli stessi soggetti processuali che hanno partecipato al giudizio in cui la sentenza stessa è stata pronunciata e, al giudizio di revocazione, devono partecipare gli stessi soggetti che hanno preso parte al processo conclusosi con la pronuncia di cui si chiede la revoca.

Ai fini della sussistenza dell'interesse ad impugnare rileva una nozione sostanziale e materiale di soccombenza, che faccia riferimento non già alla divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia, ma agli effetti pregiudizievoli che dalla sentenza derivino nei confronti della parte (Cass. Civ., n.8326/2004).

Venendo ai motivi per i quali è possibile, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 64 D.Lgs. n. 546/1992 e 395 c.p.c., ricorrere al giudizio di revocazione, va in primo luogo precisato che sono passibili di revocazione le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado (quelle in cui le parti abbiano concordato per il ricorso diretto in Cassazione), mentre le sentenze di primo grado sono soggette a revocazione solo quando sono scaduti i termini per l'appello e solo per i motivi di revocazione straordinaria (dolo della parte, falsità delle prove, rinvenimento di documenti, dolo del giudice), perché gli altri motivi (errore di fatto, contrasto di giudicati), inerenti la revocazione ordinaria, devono essere fatti valere con l'appello.

E' evidente che la revocazione ha carattere pregiudiziale rispetto al ricorso per cassazione per quanto riguarda questioni di fatto (come nel caso dell'errore revocatorio) che costituiscono antecedente logico agli aspetti di legittimità.

I termini perentori per impugnare rientrano nell'istituto generale della decadenza e, pertanto, decorrono per il solo fatto materiale del trascorrere del tempo, indipendentemente dalla situazione soggettiva ed oggettiva verificatasi medio tempore e dalle quali sia dipeso l'inutile decorso del termine, salvo le eccezioni tassativamente previste dalla legge (artt. 328 co. 1, 395 n. 1, 2, 3 e 6 e 397 co. 2 c.p.c.).

Riguardo al termine nel quale il ricorso per revocazione deve essere proposto, a pena di inammissibilità, occorre distinguere la revocazione ordinaria da quella straordinaria. Difatti, nella revocazione ordinaria il termine per impugnare la sentenza è di 60 giorni, operando, tuttavia, in caso di mancata notifica della sentenza il cd. “termine lungo” di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza (art. 38 – co. 3 – D.Lgs. n. 546/1992).

Nella revocazione straordinaria il termine di 60 giorni per la proposizione della domanda decorre dalla data in cui a seconda dei casi:

  • è stato scoperto il dolo;
  • sono state dichiarate false le prove. In tale ipotesi, il termine dovrebbe decorrere dal momento in cui il soggetto ha avuto notizia della dichiarazione o del riconoscimento della falsità (Cass. Civ., n.11451/2011);
  • è stato recuperato il documento;
  • è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice.

Se tali fatti accadono durante il termine per proporre appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell'avvenimento in modo da raggiungere i 60 giorni da esso (art. 64 – co.3 – D.Lgs. n. 546/1992).

In tema di revocazione straordinaria, va precisato che il principio di «consumazione» dell'impugnazione, desumibile dall'art. 387 c.p.c., mentre ha ragione d'essere per le impugnazioni ordinarie (appello, ricorso per cassazione o anche revocazione ordinaria per i motivi di cui ai n.ri 4 e 5 dell'art. 395 c.p.c.), non offre alcuna giustificazione perché possa essere esteso anche alla cd. «revocazione straordinaria», per i motivi di cui ai n.ri 1, 2, 3 e 6 dello stesso articolo, che resta esperibile pure dopo il passaggio in giudicato della sentenza ancorché pronunciata in ordine ad un distinto motivo di revocazione (Cass. Civ., n. 6322/1992).

L'art. 66 del D.Lgs. n. 546/1992 dispone che, davanti alla Commissione tributaria adita per la revocazione, si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti alla stessa, salvo che non siano derogate dalle stesse norme che il decreto legislativo detta appositamente.

Ai sensi dell'art. 65 – co. 1 – cit. decreto, competente per la revocazione è la stessa Commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata; l'ultimo comma della suddetta norma dispone, poi, che il ricorso per la revocazione è proposto e depositato a norma dell'art. 53 – co. 2 – e, quindi, secondo quanto è previsto per l'appello, implica, ovviamente, che tale domanda si propone appunto con ricorso.

Quest'ultimo, dopo la notifica alla controparte, ai sensi dell'art. 20, deve essere depositato nella segreteria della Commissione tributaria adita, nei modi e termini previsti dall'art. 22.

Occorre ricordare che, ai sensi dell'art. 398, co. 4, c.p.c., la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione o il procedimento relativo.

Tuttavia, il giudice davanti al quale è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l'uno o l'altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione proposta (Cass. Civ., n. 12701/2014).

Si pone, quindi, un problema di coordinamento tra il giudizio di revocazione e quello di Cassazione, a seconda che l'un giudizio preceda l'altro determinandosi in questo caso l'alternativa tra la cessazione della materia del contendere del processo di revocazione - se ancora pendente – o la caducazione della sentenza resa sulla revocazione, come sentenza dipendente da quella cassata.

Errore revocatorio di fatto

L'errore di fatto di cui all'art. 395 n. 4 c.p.c., oltre a rappresentare il motivo più ricorrente nell'esperienza pratica, è quello che spesso maggiormente inganna a riprova di un'attenzione dell'istituto, negli studi del diritto, inferiore a quella che meritava.

Va ribadito innanzitutto, in linea generale, che esso consiste in una falsa percezione della realtà, in un errore sulla supposizione di un «fatto», meramente percettivo e tale da aver indotto il giudice ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e dai documenti di causa, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato in essi, sempre che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta adeguata decisione.

Restano fuori dall'ambito della norma, non solo gli errori di diritto, ma pure gli errori nel giudizio di fatto derivanti dalla violazione di norme giuridiche, come pure è certo che l'errore quale motivo di revocazione deve distinguersi dall'errore materiale, che è motivo di correzione della sentenza.

Resta esclusa, quindi, dall'area del “vizio revocatorio” la sindacabilità di errori formatisi sulla base di una pretesa errata interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investono direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perché siffatto tipo di errore, se fondato, costituirebbe un errore di giudizio e non un errore di fatto, ai sensi dell'art. 395 – co.1 n.4 - c.p.c. (Cass. Civ., n. 22171/2010).

L'errore revocatorio si concretizza, quindi, in una falsa percezione della realtà da parte del giudice, risultante dagli atti di causa e consistente in uno sbaglio, in una svista materiale che lo abbia indotto ad affermare l'esistenza di un fatto incontestatamente inesistente, o che comunque lo abbia indotto a considerare inesistente un fatto la cui verità risulti, al contrario, positivamente accertata, mentre laddove la «svista» del giudice si traduca non in una semplice disattenzione, ma in una vera e propria omissione di valutazione di un fatto che ha formato oggetto di indagine (e quindi di discussione) nel corso del processo concluso con la sentenza denunziata, si è in presenza di un errore di giudizio che esclude il ricorso alla revocazione della sentenza.

Insegna la giurisprudenza, a partire dalle SS.UU. n. 5303/1997, che l'errore di fatto, che può dar luogo a revocazione della sentenza ex art.395 n.4 c.p.c. - richiamato dall'art. 391 c.p.c. – consiste “nell'erronea percezione degli atti di causa…sempre che il fatto oggetto dell'asserito errore non abbia costituito un punto controverso, sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunziato. Tale genere di errore presuppone quindi il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l'altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, e, dall'altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia contestata dalle parti”.

In altri termini, in diritto, il fatto sul quale può cadere l'errore revocatorio - ovverosia quello risultante in modo incontrovertibile dagli atti -, deve avere indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (o esistenza) di un fatto, positivamente acquisito, nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati (Cass. Civ., SS.UU. n. 15227/2009).

In sostanza, l'errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti della causa sussiste, non quando sia viziata la valutazione delle prove e delle allegazioni delle parti, ma quando sia frutto di una falsa percezione di ciò che emerge dagli atti e che non è soltanto incontroverso, ma non è neanche controvertibile e non può dar luogo ad apprezzamenti di alcun genere.

Si è precisato, inoltre, che la denuncia di un <<travisamento>> di fatto, quando attenga non più alla motivazione della sentenza impugnata, ma a un fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395 n.4, importando essa un accertamento di merito non consentito al giudice di legittimità (Cass. Civ., n. 1512/2003).

Il motivo in oggetto, idoneo a determinare la revocabilità anche delle sentenze della Corte di Cassazione, a seguito delle pronunce di Corte Cost. n. 17 e 36 del 1981 e dell'entrata in vigore dell'art. 391-bis c.p.c., non può riguardare «l'interpretazione dei fatti, la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche e l'attività valutativa del giudice di situazioni processuali» (Cass. Civ., n. 13366/2003).

L'errore deve avere, però, i caratteri dell'assoluta evidenza e della semplice rilevabilità, sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche.

Quindi, esso non è ravvisabile nelle diverse ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali (Cass. Civ., n. 9673/2017), né deve riguardare errore di diritto concernente la falsa percezione di norme.

Inoltre, deve essere decisivo (nel senso che deve sussistere un nesso di causalità necessaria tra l'erronea supposizione e la decisione resa); non deve cadere su un punto controverso e deve, infine, presentare i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività.

È, pertanto, inammissibile il rimedio della revocazione in relazione ad errori che non rilevino, con assoluta immediatezza, ma richiedono per essere apprezzati lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche, ovvero errori che non siano decisivi in se stessi, ma che debbano essere valutati nel più ampio contesto delle risultanze di causa o, infine, errori che non consistono in un vizio di assunzione del fatto, ma si riducano ad errori di criterio nella valutazione del fatto, di modo che la decisione non derivi dall'ignoranza di atti e documenti di causa ma dall'erronea interpretazione di essi (ex multis: Cass. Civ., n. 2713/2007).

In definitiva, alla stregua dei principi elaborati dalla S.C., l'errore di fatto revocatorio deve consistere:

  • in un'errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale – oggettivamente e immediatamente – rilevabile;
  • essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa;
  • non cadere su di un punto controverso sul quale il giudice si è già pronunciato (errore di giudizio);
  • presentare i caratteri dell'evidenza e dell'obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche;
  • non consistere in un vizio di assunzione del fatto, né in errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo;
  • riguardare gli atti interni, cioè quelli che la Corte esamina direttamente con propria autonoma indagine di fatto, nell'ambito dei motivi d'impugnazione e delle questioni rilevabili d'ufficio, e avere quindi carattere autonomo nel senso di incidere – direttamente ed esclusivamente – sulla sentenza.

La correzione delle sentenze

Il procedimento di correzione di errori materiali, disciplinato dagli artt. 287 e segg. c.p.c., spesso – a prima vista – concorrente con l'errore revocatorio, in quanto anch'esso funzionale all'eliminazione di errori od omissioni del documento cartaceo, rappresenta un rimedio esperibile per ovviare a vizi meramente formali, derivanti da divergenza evidente e facilmente rettificabile fra l'intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, mediante un provvedimento di natura amministrativa del giudice medesimo che lascia intatto il contenuto della decisione corretta, e non anche per emendare vizi attinenti al processo formativo della volontà, implicando ciò un riesame del contenuto della decisione consentito solo in sede di impugnazione (Cass. SS.UU. n. 5165/2004).

Gli errori correggibili, con l'apposito procedimento di cui all'art. 288 c.p.c., possono consistere, infatti, in omissioni nell'epigrafe o intestazione della sentenza, in errori materiali o di calcolo, consistenti nell'erronea utilizzazione delle regole matematiche, sulla base di presupposti numerici esattamente determinati e dell'esatta individuazione delle operazioni da compiere e dell'ordine nel quale eseguirle.

È, invece, necessario il ricorso per Cassazione nell'ipotesi in cui l'errore sia riconducibile ad inesatta determinazione dei presupposti numerici, in quanto si risolve in un vizio logico della motivazione, determinante, pertanto, error in iudicando (Cass. Civ., n. 11712/2002; Cass. Civ., n. 5330/2005).

È regola comune, invero, che in ipotesi di errori materiali di calcolo, contenuti in un provvedimento giurisdizionale, non è ammissibile il ricorso per Cassazione rientrando l'ipotesi nell'esclusiva competenza del giudice, che ha emesso il provvedimento contenente l'errore, a procedere alla sua eliminazione in contraddittorio delle parti (Cass. Civ., n. 8526/2000).

In sostanza, per applicarsi la correzione di sentenza, occorre che la contraddittorietà integri gli estremi non del vizio di motivazione ma dell'errore materiale, risolvendosi, essenzialmente, in un difetto di corrispondenza tra il contenuto “ideale” della sentenza e la sua materiale rappresentazione, emergente – ictu oculi – dalla lettura del provvedimento (Cass. Civ., n. 7712/2000).

Sulla base di tali principi può porsi rimedio, con lo strumento previsto dagli artt. 287 e segg. c.p.c. e mediante l'istanza di correzione, anche alla contraddittorietà tra dispositivo e motivazione, laddove il contrasto non integri un vizio insanabile, riferibile al contenuto sostanziale della decisione e incidente sulla sua idoneità a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, bensì a un errore materiale - riconducibile a "mera svista" o disattenzione nella redazione del provvedimento - senza alcuna divergenza evidente tra intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione (da ultimo: Cass. Civ., n. 26074/2018).

La procedura di correzione degli errori materiali, infine, deve ritenersi applicabile anche nel processo di esecuzione, non ostandovi né il potere del giudice dell'esecuzione di modifica o revoca dei suoi provvedimenti, né la possibilità dell'impugnazione con il rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi, che esclude la revocabilità del provvedimento impugnato e non la sua correzione (Cass. Civ., n. 7399/1992).

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