Codice Civile art. 1467 - Contratto con prestazioni corrispettive.

Cesare Taraschi

Contratto con prestazioni corrispettive.

[I]. Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'articolo 1458 [168 trans.].

[II]. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto.

[III]. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto [1623, 1664].

Inquadramento

La norma in esame cristallizza il principio generale della tutela del debitore contro il rischio di un eccezionale aggravio della prestazione. Invero, un rapporto giuridico patrimoniale, ove non altrimenti disciplinato, non può essere mantenuto in vita quando siano venute meno, in misura notevole, le condizioni di equilibrio sulle quali è sorto (Cass. II, n. 6584/1986).

L'istituto della risoluzione per eccessiva onerosità riguarda, però, i soli contratti con prestazioni corrispettive a esecuzione continuata o periodica o differita. Invece, nei contratti con prestazioni corrispettive a efficacia istantanea, nei quali la residua attività esecutiva non sia rinviata, né si protragga nel tempo, né sia ripetuta a intervalli periodici, non potrà invocarsi tale forma di risoluzione, atteso che le parti affrontano consapevolmente il rischio, assunto all'atto della conclusione del contratto, nei limiti previsti dalla legge, che eventi sopravvenuti possano rendere una delle attribuzioni più onerosa rispetto al costo e al sacrificio che allo spostamento patrimoniale erano in origine ricollegati e che erano ragionevolmente prevedibili (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 882).

Nell'ambito indicato, l'ipotesi di risoluzione del contratto, di cui alla norma in commento, presuppone un'alterazione dell'equilibrio patrimoniale fra le prestazioni (Boselli, 334), dovuta all'eccessiva onerosità sopravvenuta dell'una o alla diminuzione del valore originario dell'altra (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 541). Sul punto si contrappongono due criteri proposti per la valutazione di tale squilibrio sopravvenuto, entrambi di natura dinamica: un criterio di comparazione del sinallagma e un criterio di comparazione della prestazione. In base al primo criterio l'eccessiva onerosità deve essere valutata raffrontando l'equilibrio iniziale tra le prestazioni con l'alterazione successivamente intervenuta (Tartaglia, 164). In ragione del secondo criterio, il confronto deve avvenire sulla base della prestazione dovuta, verificando il mutamento di valore che essa subisce tra il momento della conclusione del contratto e quello dell'adempimento, nonché assumendo il valore monetario della prestazione come unità di misura dell'intervenuta sproporzione (Gambino, Eccessiva onerosità della prestazione e superamento dell'alea normale del contratto, in Riv. dir. comm., 1960, I, 416; Carresi, in Tr. C. M., 1987, 981), sicché non avrebbe alcun rilievo il c.d. svilimento della controprestazione.

La giurisprudenza puntualizza che l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per poter determinare la risoluzione del contratto, richiede la sussistenza di due necessari requisiti: da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto, e, dall'altro, la riconducibilità dell'eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell'ambito della normale alea contrattuale (Cass. III, n. 22396/2006).

Secondo la dottrina, la sproporzione è irrilevante qualora intervenga dopo l'adempimento della prestazione (Tartaglia, 163). Essa deve essersi determinata successivamente alla stipulazione del contratto, ma può derivare anche da eventi anteriori alla stipulazione, le cui conseguenze, straordinarie e imprevedibili, si verifichino nel periodo di esecuzione del contratto (Tartaglia, 163). Può agire per richiedere la risoluzione solo la parte che non abbia ancora eseguito la prestazione divenuta eccessivamente onerosa (Tartaglia, 171) e che non sia inadempiente (Boselli, 335) o non abbia dato causa al verificarsi dell'evento o non abbia concorso ad aggravare la propria posizione debitoria (Bianca, 1994, 387; Mirabelli, 656). In ogni caso l'eccessiva onerosità non giustifica la sospensione dell'adempimento (Mirabelli, 660), né può essere fatta valere come eccezione nel giudizio promosso dalla controparte (Boselli, 336; Bianca, 1994, 397). La pronuncia giudiziale di risoluzione per eccessiva onerosità ha natura costitutiva (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 885; Sacco, in Tr. Vas., 1975, 1001). In ragione dell'espresso rinvio, gli effetti della risoluzione per eccessiva onerosità sono quelli regolati nella risoluzione per inadempimento. L'eccessiva onerosità si distingue dall'impossibilità sopravvenuta: mentre la prima delinea un concetto di natura quantitativa, la seconda attiene ad un fenomeno di natura qualitativa (Cagnasso, Impossibilità sopravvenuta della prestazione, in Enc. giur., Roma, 1991, 4).

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che l'eccessiva onerosità non possa essere invocata da chi vi abbia dato causa con il proprio comportamento inadempiente (Cass. II, n. 4554/1989; Cass. II, n. 1739/1985) o abbia rinviato l'adempimento per speculare su di essa (Cass. n. 1462/1954) o, comunque, abbia già interamente eseguito la propria prestazione (Cass. III, n. 5785/1985). La richiesta di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, anche quando proviene dalla parte convenuta per l'esecuzione del contratto, costituisce una vera e propria domanda, e non un'eccezione, con conseguente inammissibilità della proposizione della stessa per la prima volta in appello; la relativa pronuncia ha carattere costitutivo (Cass. II, n. 26363/2017; Cass. III, n. 20744/2004; Cass. II, n. 1090/1995). L'inammissibilità, per tardività o altra causa, della domanda di risoluzione per eccessiva onerosità preclude ogni esame sulla relativa questione, proprio perché quest'ultima non può essere formulata come eccezione (Cass. II, n. 955/1990). Inoltre, la domanda di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta costituisce domanda nuova rispetto a quella di risoluzione per inadempimento, essendo fondata su una diversa causa petendi (Cass. II, n. 8232/1987). Il giudice può rilevare d'ufficio l'improponibilità della domanda di risoluzione perché formulata dalla parte che abbia già eseguito la propria prestazione (Cass. II, n. 6858/1982). L'eccessiva onerosità non giustifica la sospensione dell'adempimento (Cass. III, n. 3492/1978).

L'onere della prova dell'integrazione dei relativi presupposti ricade sulla parte che chiede la risoluzione (Cass. III, n. 608/1981, secondo cui la prova di tali presupposti deve essere data per tutto l'arco di tempo intercorrente tra il momento in cui doveva avvenire l'esecuzione del contratto e quello in cui viene richiesto l'accertamento dell'eccessiva onerosità, potendo accadere che essa venga meno medio tempore, cioè in epoca successiva alla richiesta giudiziale di adempimento, ma anteriore alla domanda formulata dalla parte che intende essere esonerata dall'esecuzione della prestazione; Cass. n. 1462/1954)

Il campo applicativo

La norma si riferisce espressamente ai contratti con prestazioni corrispettive a esecuzione continuata o periodica o differita, anche se tali requisiti attengano ad una sola prestazione (Sacco, cit., 992), purché si tratti di una prestazione fondamentale e non accessoria (Tartaglia, 162). Pertanto, l'eccessiva onerosità si riferisce essenzialmente ai contratti di durata e non ai contratti traslativi, la cui prestazione si esaurisce con il consenso (Bianca, 1994, 392).

Si ritiene che la norma sia applicabile estensivamente anche ai contratti la cui esecuzione, che avrebbe dovuto essere immediata, sia stata consensualmente rinviata (Boselli, 335). La risoluzione trova spazio anche nella vendita a rate con riserva della proprietà (Tartaglia, 162; Mirabelli, 660), nonché nel preliminare e nell'opzione (Bianca, 1994, 394). Qualora il contratto sia sottoposto a condizione sospensiva, si afferma che lo stesso è risolubile nell'ipotesi in cui l'eccessiva onerosità si verifichi prima dell'avveramento dell'evento dedotto in condizione, sempre che il contratto non rimanga inefficace per la mancata realizzazione della condizione, dal momento che il rimedio si riferisce ai contratti efficaci ancora da eseguire (Tartaglia, 162). Secondo una tesi, la risoluzione per eccessiva onerosità può riguardare anche i contratti con obbligazioni di una sola parte, purché ciò non arrechi alcun pregiudizio alla parte che deve ricevere la prestazione. Viceversa, quando un contratto a prestazioni corrispettive è stato già eseguito per intero da una sola parte, la sua risolubilità andrebbe esclusa e si dovrebbe applicare l'art. 1468 c.c. (Sacco, De Nova, cit., 536; Sacco, cit., 986). In dottrina si è anche sostenuto che il contratto non può essere risolto neppure qualora l'oggetto della prestazione sia stato alienato a terzi, dovendosi analogicamente applicare, in tal caso, l'art. 1492, comma 3 c.c., e dunque potendosi al più chiedere una riduzione del prezzo (Bianca, 1994, 427, il quale adduce il caso di chi, in cambio di un terreno, già rivenduto a terzi, abbia assunto l'impegno di costruire e trasferire alcuni appartamenti, il cui costo viene a raddoppiare a causa dell'assoggettamento dell'area a norme antisismiche).

Le norme sull'eccessiva onerosità non si applicano ai contratti associativi (Boselli, 334), né ai contratti a titolo gratuito. Tuttavia, con riferimento al contratto di società, si è rilevato che la funzione associativa non escluderebbe il reciproco condizionamento tra le prestazioni dei soci che, se differite nel tempo, possono divenire eccessivamente onerose (Sacco, cit., 987).

La giurisprudenza ritiene che la continuazione, la periodicità e il differimento possano concernere anche una sola prestazione (Cass. III, n. 966/1974, secondo cui non è necessario il differimento nel tempo dell'intera prestazione, ma è sufficiente che sia differita l'esecuzione di una parte, economicamente rilevante, di questa). L'istituto non può trovare applicazione con riferimento ai contratti a efficacia reale immediata, ancorché le parti abbiano differito ad un momento successivo la stipula dell'atto notarile, inteso nella sua funzione meramente riproduttiva, per esigenze di trascrizione, della preesistente scrittura privata (Cass. II, n. 5480/1991). Sicché tale causa di scioglimento è invocabile per il contratto di compravendita ad efficacia obbligatoria (nel quale, cioè, per il verificarsi dell'effetto traslativo non basta il semplice consenso, occorrendo altresì il verificarsi di un ulteriore fatto, come la specificazione, per la vendita di cose indicate solo nel genere, o l'acquisto da parte del venditore, per la vendita di cose altrui) e non invece per la vendita con effetti reali immediati, nella quale la prestazione del venditore si intende eseguita al momento della manifestazione del consenso, senza che rilevi in contrario il pattuito differimento della materiale consegna della cosa (Cass. II, n. 1371/1999; Cass. I, n. 2415/1967). Né può avere applicazione ad un contratto di compravendita con immediato trasferimento della proprietà e con la consegna del bene, sebbene debba ancora essere corrisposta una parte del prezzo (Cass. II, n. 11947/2003; Cass. II, n. 7876/1990). Si applica, invece, ai contratti i cui effetti siano posticipati rispetto alla stipulazione, in ragione dell'apposizione di una condizione sospensiva o di un termine iniziale (Cass. I, n. 685/1967), ovvero la cui esecuzione dovuta immediatamente sia stata rinviata per mutuo consenso, anche tacito (Cass. n. 316/1948), e a quelli in cui l'adempimento sia divenuto temporaneamente impossibile per causa non imputabile agli obbligati (Cass. n. 1477/1952), nonché, a favore del solo compratore, nella vendita a rate con patto di riservato dominio (Cass. III, n. 2815/1971; contra Cass. n. 1736/1947).

È ammessa anche la risoluzione per eccessiva onerosità del preliminare (Cass. II, n. 7266/2003; Cass. II, n. 5302/1998; Cass. II, n. 1559/1995; Cass. II, n. 6574/1984), salvo che le relative prestazioni (pagamento del prezzo e consegna del bene) siano state anticipate (Cass. II, n. 5349/1997; Cass. II, n. 1649/1994). Può riferirsi anche ad un contratto atipico di compravendita immobiliare in cui sia prevista l'assunzione della garanzia di redditività del bene venduto (Cass. II, n. 7225/2009). La S.C. poi chiarisce che l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, nei contratti a titolo gratuito, consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario della prestazione ed il valore successivo, mentre nei contratti onerosi consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni (Cass. III, n. 12235/2007). L'istituto non trova applicazione nei contratti associativi (Cass. II, n. 1507/1998), mentre è controverso se si applichi alla transazione (in senso affermativo, Cass. n. 1105/1956; App. Firenze 5 marzo 1952, in Giur. tosc., 1952, 452; in senso contrario, App. L'Aquila 17 giugno 1952, in Foro it., 1953, I, 411; secondo App. Messina 3 marzo 1954, in Rep. Foro it., 1954, T., 18, è ammissibile la risoluzione per eccessiva onerosità della transazione solo quando le parti, componendo la lite, abbiano assunto prestazioni corrispettive di cui erano in grado di valutare i vantaggi ed i sacrifici). Di recente si è sostenuto che la transazione ad esecuzione differita è suscettibile di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, in quanto l'irresolubilità della transazione novativa stabilita in via eccezionale dall'art. 1976 c.c. è limitata alla risoluzione per inadempimento, e l'irrescindibilità della transazione per causa di lesione, sancita dall'art. 1970 c.c., esaurisce la sua ratio sul piano del sinallagma genetico (Cass. II, n. 4451/2020).

Gli avvenimenti straordinari e imprevedibili

Ai fini dell'integrazione dei presupposti della risoluzione per eccessiva onerosità assume rilievo ogni avvenimento il cui rischio non è stato assunto nel contratto, in quanto ritenuto improbabile secondo la valutazione compiuta dalle parti al momento della conclusione del contratto stesso (Mirabelli, 657). Di contro, l'evento non è rilevante qualora il debitore negligentemente non l'abbia previsto o quando egli abbia contribuito con il proprio comportamento a determinare l'eccessiva onerosità (Mirabelli, 656). Tipici eventi straordinari sono quelli indicati nelle polizze assicurative per escluderne la copertura (Bianca, 1994, 396). La valutazione della prevedibilità costituisce un giudizio di fatto (Sacco, De Nova, cit., 541) e si sostanzia nella capacità di prevedere un evento probabile, avendo riguardo al potere di previsione dell'uomo medio (Boselli, 335). Il relativo giudizio deve essere compiuto facendo riferimento alle circostanze concrete, e non alle condizioni personali del debitore, in adesione alla coscienza sociale del momento in cui è effettuata la valutazione (Sacco, cit., 990; Gambino, cit., 447; Pino, La eccessiva onerosità della prestazione, Padova, 1952, 74). Straordinarietà e imprevedibilità possono eventualmente coincidere, ma hanno natura diversa (Tartaglia, 162); in senso contrario altro autore sostiene che straordinarietà e imprevedibilità abbiano la stessa natura (Boselli, 336).

La giurisprudenza sostiene che il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l'intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi tali da consentire attraverso analisi quantitative classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere dell'imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza (Cass. III, n. 22396/2006; Cass. II, n. 2661/2001). Si conferma al riguardo che, ove il rischio sia stato previsto, la risoluzione non è possibile (Cass. III, n. 3694/1984); analogamente, la stessa non può essere invocata dalla parte alla cui inerzia o inadempimento (Cass. II, n. 10139/1991; Cass. II, n. 4554/1989; Cass. II, n. 595/1989) o colpa (Cass. II, n. 6464/1980) è dovuto il vano decorso del tempo da cui è derivata la dedotta eccessiva onerosità. La prevedibilità deve essere valutata in relazione alla natura del contratto e alle condizioni di mercato (Cass. n. 649/1950), facendo riferimento alla capacità di previsione dell'uomo medio (Cass. II, n. 1559/1995). Essa può riguardare non solo l'evento fenomenico in se stesso, ma anche la sua entità (Cass. II, n. 7833/1990; Cass. III, n. 7119/1986; Cass. II, n. 5827/1984). La valutazione di tali requisiti postula una comparazione tra il valore di entrambe le prestazioni al momento in cui sono sorte e a quello in cui devono eseguirsi, mentre la prescrizione (ordinaria decennale) della relativa azione decorre dal momento in cui si verifica la sperequazione (Cass. II, n. 7266/2003; Cass. II, n. 5302/1998). L'accertamento, da parte del giudice di merito, della sussistenza o meno dei caratteri di straordinarietà ed imprevedibilità addotti dalla parte è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi (Cass. III, n. 22396/2006).

In alcuni casi la straordinarietà dell'evento è prevista ex lege, come nell'ipotesi di cui all'art. 67-quater  l. n. 134/2012, che, in relazione al sisma verificatosi a L'Aquila il 6 aprile 2009, risponde alla scopo di intervenire e disciplinare i contratti in corso di esecuzione in ragione dei danni diffusi e generalizzati verificatisi, in seguito ad un evento eccezionale ed imprevedibile come il terremoto, in alcune aree preventivamente individuate, esonerando la parte dall'onere di dimostrare l'effettivo danneggiamento del bene, purché la contrattazione fosse antecedente al predetto evento (Cass. II, n. 37778/2021). In ordine alla configurabilità della pandemia da Covid-19 come evento straordinario ed imprevedibile, si rinvia al paragrafo 8.

L'alea normale

Non si ha eccessiva onerosità, rilevante ai fini della risoluzione, quando la sproporzione tra le prestazioni ricade nell'alea normale del contratto, intesa come rischio, non prevedibile né esplicitamente assunto, connaturato alla causa concreta del contratto, al quale ciascuna parte implicitamente si sottopone. Ne consegue che non assume al riguardo rilievo la sopravvenienza di circostanze prevedibili che rendano comunque eccessivamente gravoso — e pertanto inesigibile — l'adempimento della prestazione, vertendosi in tal caso non già in tema di alterazione dell'economia contrattuale bensì d'inadempimento (Cass. III, n. 12235/2007).

L'alea normale segna il limite, non determinabile a priori, oltre il quale, per effetto dell'incidenza del rischio, un contratto commutativo si trasformerebbe in un contratto aleatorio (Mirabelli, 658). Essa dipende dal contenuto del contratto e dalle circostanze in cui è stipulato e, pertanto, non può essere ricondotta ad una misura fissa. Al riguardo occorre tenere conto, oltre che del tipo contrattuale, anche degli elementi legislativamente atipici rispetto a quel contratto e in esso eventualmente inseriti (Gambino, cit., 447; Pino, cit., 70). Per l'effetto, l'eccessiva onerosità deve essere calcolata stabilendo se la sproporzione fra le prestazioni sia compatibile con la natura e la funzione del contratto (Mirabelli, 658). Uno squilibrio di valori può essere normale anche se cagionato da eventi imprevedibili, come accade nei contratti di borsa. Qualora la svalutazione monetaria rivesta in concreto connotati di straordinarietà e imprevedibilità, essa è causa di risoluzione del contratto (Sacco, cit., 998; Bianca, 1994, 395), che non è esclusa neanche dall'esistenza di una clausola adeguatrice del prezzo, qualora questa risulti insufficiente (Tartaglia, 172). Secondo un autore, gli effetti che sulle prestazioni pecuniarie derivano dall'inflazione monetaria sarebbero irrilevanti in virtù del principio nominalistico (Tartaglia, 165). In senso contrario si evidenzia che l'ostacolo può essere aggirato determinando l'onerosità all'esito del raffronto fra l'iniziale valore monetario della prestazione e quello che essa assume al momento dell'adempimento, anziché confrontarla con il valore della controprestazione (Gambino, cit., 436).

Secondo la giurisprudenza, rientrano nell'alea normale le oscillazioni di valore delle prestazioni che siano originate dal fenomeno della svalutazione monetaria (Cass. II, n. 9314/2017; Cass. II, n. 4423/2004; Cass. II, n. 2904/1987) o dalle oscillazioni dei cambi di valuta (Cass. I, n. 9263/2011; Cass. III, n. 11200/2003) o dalle variazioni in aumento del prelievo comunitario, che costituisce una sorta di dazio doganale sulle importazioni (Cass. II, n. 2386/1998), salvo che non presentino le caratteristiche di un evento straordinario e imprevedibile (Cass. II, n. 1559/1995; Cass. II, n. 6574/1984). Deve trattarsi, cioè, di squilibri che importino reali difficoltà di esecuzione, e non di squilibri virtuali od eventuali (Cass. II, n. 794/1979); in altre pronunce, si è precisato che deve trattarsi di abnormi cause di natura economica e finanziaria, di carattere generale o particolare, che incidano sui prezzi stessi in maniera straordinaria e imprevedibile (Cass. II, n. 6867/1982). Pertanto, si è ritenuto che rientrino nell'alea normale gli aumenti dei prezzi di mercato degli immobili (Cass. II, n. 9314/2017; Cass. II, n. 4423/2004; Cass. II, n. 7145/1995), nonché i mancati pagamenti da parte della clientela, non idonei a determinare la risoluzione per eccessiva onerosità in relazione alla prestazione di pagamento del canone di una locazione commerciale (Cass. III, n. 7460/1997)

L'offerta di riduzione ad equità

La parte contro cui è richiesta la risoluzione per eccessiva onerosità può evitare la relativa pronuncia mediante un'offerta di equa modifica delle condizioni contrattuali, volta a ristabilire l'equilibrio turbato dall'avvenimento straordinario e imprevedibile che ha causato l'eccessiva onerosità. In questo senso, la parte avversa, rispetto a quella che vanta l'interesse a richiedere la risoluzione, è titolare di un diritto potestativo di rettifica del contenuto contrattuale. La rettifica, per converso, non può essere pretesa dalla parte che risente il pregiudizio per effetto dell'integrazione dell'avvenimento straordinario e imprevedibile (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 886). Sul piano della natura giuridica, valorizzandone gli aspetti sostanziali, si ravvisa nell'offerta l'esercizio di uno ius variandi che asseconda un'esigenza generale di conservazione del contratto. Essa si concretizza in una dichiarazione di volontà unilaterale, negoziale e recettizia, contenuta in un atto processuale e diretta alla formazione, mediante l'accettazione della controparte o, in difetto, l'attestazione di idoneità del giudice, di un regolamento modificativo dell'originario contenuto contrattuale (Bianca, 1994, 399; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, 532). Tale offerta non può essere avanzata in via stragiudiziale e può avvenire solo nel giudizio di primo grado, fino al momento della precisazione delle conclusioni (Tartaglia, 169; contra Bianca, 1994, 401, secondo cui essa può essere fatta per tutto il corso del giudizio di merito, nonché Terranova, 186, che ammette l'offerta stragiudiziale sul presupposto che l'offerta medesima è atto di natura sostanziale). L'offerta è revocabile fino al momento in cui viene emanata la sentenza (Boselli, 337).

Qualora la parte che ha chiesto la risoluzione del contratto accetti la riduzione ad equità proposta dalla controparte, la pronuncia del giudice prenderà atto dell'accordo raggiunto tra le parti in sede giudiziale e avrà natura meramente dichiarativa (Tartaglia, 169); nel caso di rifiuto di tale proposta, il giudice, previa incidentale valutazione dell'eccessiva onerosità sopravvenuta, dovrà accertare se la stessa sia o meno adeguata a ricondurre il contratto ad equità e, ove la verifica abbia esito positivo, disporrà la rettifica del contenuto negoziale con sentenza di natura costitutiva (Boselli, 336). Al giudice non può essere attribuito il potere di determinare l'ammontare dell'offerta, sicché la sua formulazione dovrà essere alquanto dettagliata affinché possa essere presa in considerazione (Boselli, 337). In senso contrario, altra opinione ritiene che al giudice possa essere rimessa la determinazione per relationem di qualche elemento dell'offerta, non essendo escluso un intervento integrativo dell'autorità giudiziaria, sollecitato dallo stesso offerente, sulla base degli elementi acquisiti al processo (Tartaglia, 169).

Sussiste contrasto sulla misura dell'offerta idonea a ricondurre il contratto ad equità. In ragione di una prima soluzione, l'offerta è sufficiente quando le condizioni proposte determinano un'attenuazione dell'onerosità sopravvenuta, tale da eliminare il connotato dell'eccessività, riportando il negozio entro i confini dell'alea normale, senza che sia necessario eliminare completamente la sproporzione tra le prestazioni (Sacco, cit., 1003; Boselli, 337). In senso contrario altra opinione, aderendo all'orientamento che si è consolidato in tema di modificazione equitativa nella rescissione ex art. 1450 c.c., sostiene che la rettifica offerta deve ricostituire l'equilibrio iniziale delle posizioni, cosicché le prestazioni siano ricondotte ad una piena equivalenza obiettiva (Di Majo, Eccessiva onerosità sopravvenuta e reductio ad aequitatem, in Corr. giur., 1992, 665).

La giurisprudenza afferma che, nei contratti a prestazioni corrispettive, l'equa rettifica delle condizioni del negozio può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l'azione di risoluzione del negozio medesimo per eccessiva onerosità sopravvenuta, essendo da escludere che una richiesta di reductio ad aequitatem possa essere contrapposta ad una domanda di adempimento (Cass. I, n. 2047/2018; Cass. II, n. 46/2000; Cass. III, n. 3492/1978; Cass. I, n. 4198/1977). Inoltre, l'offerta deve riportare il contratto ad un giusto rapporto di scambio, ossia deve essere tale da uniformare il corrispettivo ancora dovuto ai valori di mercato del bene da trasferire, ovvero della parte del bene per il quale il corrispettivo non è stato versato. L'indagine del giudice, per verificare l'idoneità dell'offerta a eliminare lo squilibrio economico delle prestazioni, deve essere condotta attenendosi a criteri estimativi oggettivi di carattere tecnico e non a meri criteri equitativi (Cass. II, n. 8857/1998; Cass. II, n. 4023/1989). In ogni caso, la modificazione offerta deve tenere conto della svalutazione monetaria intervenuta tra la conclusione del contratto e la pronuncia definitiva (Cass. II, n. 247/1992; Cass. II, n. 275/1984), poiché il supplemento di prezzo offerto a tale titolo costituisce un debito di valore (Cass. II, n. 369/1995). Non può produrre a priori lo scopo di riconduzione ad equità un'offerta generica (Cass. n. 224/1959). In senso contrario, altra pronuncia afferma che l'offerta generica è ammessa nel caso in cui la parte proponga una domanda subordinata di determinazione giudiziale dell'equo prezzo (Cass. II, n. 3347/1989). Pertanto, non occorre che, per evitare la richiesta risoluzione, l'offerta indichi esattamente le clausole da modificare e i limiti entro cui debbano essere modificate, potendo anche rimettersi al giudice per l'esatta individuazione delle modificazioni stesse, anche a mezzo delle opportune indagini istruttorie (Cass. II, n. 10976/2014), non avendo natura di atto prenegoziale diretto a provocare con l'accettazione della controparte la stipula di un nuovo accordo modificativo del precedente (Cass. II, n. 5922/1991; contra Cass. III, n. 2748/1972). Nel caso di offerta avanzata dal convenuto, non accettata dalla controparte, il giudice può soltanto pronunciarsi sulla sua efficacia al fine di impedire l'accoglimento dell'azione di risoluzione, mentre non può ridurre la somma offerta dal convenuto ritenendola eccessiva (Cass. II, n. 247/1992)

La revisione del prezzo

Il diritto alla revisione del prezzo è configurato eccezionalmente, in relazione alla prospettiva di salvaguardare la funzione economica del contratto, anche quando si verifichi un'eccessiva onerosità sopravvenuta per circostanze imprevedibili. Anche tale possibilità è diretta a tutelare l'interesse della parte al mantenimento in vita del contratto (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 886). In particolare, tale facoltà spetta all'appaltatore e al committente se l'aumento o la diminuzione nel costo dei materiali e della mano d'opera sia superiore al decimo del prezzo complessivo convenuto, ai sensi dell'art. 1664, comma 1 c.c.

Per converso, qualora la prestazione diventi notevolmente più onerosa per cause geologiche, idriche e simili, l'appaltatore ha diritto a un equo compenso, ai sensi dell'art. 1664, comma 2 c.c. In tale ultima ipotesi, il committente può esercitare la facoltà di recesso, ai sensi dell'art. 1671 c.c., ove il contratto sia divenuto eccessivamente oneroso, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno.

Secondo la giurisprudenza, la norma di cui all'art. 1664 c.c., per le fattispecie da essa contemplate, presenta carattere speciale rispetto alla disposizione di cui all'art. 1467 c.c., della quale impedisce l'applicabilità, in quanto non prevede la risoluzione del contratto, ma solo la revisione dei prezzi o, nel caso di cui al comma 2, il diritto dell'appaltatore ad un equo compenso (Cass. I, n. 28812/2013; Cass. I, n. 9060/1994; Cass. I, n. 1364/1979). L'appaltatore non può, però, far valere, come oneri sopravvenuti imprevisti, le cosiddette “tangenti» pagate ad organizzazioni mafiose per poter eseguire i lavori, non sussistendo nesso di causalità con l'appalto, atteso che le dette perdite non possono essere considerate come «costi» necessari alla realizzazione delle opere, ma sono ricollegabili a fatti delittuosi estranei (Cass. I, n. 4563/1992).

Per converso, il principio secondo cui la normativa sull'eccessiva onerosità sopravvenuta non è invocabile per quei negozi che, per effetto di apposite clausole, contengano in sé i rimedi atti ad ovviare agli squilibri tra le due prestazioni intervenuti dopo la stipulazione e nel corso dell'esecuzione (artt. 1565, 1664 c.c., clausole di revisione prezzi, clausola oro, ecc.), non può operare, alla stregua di un criterio di ragionevolezza, quando insorgano eventi talmente eccezionali, nella loro natura o nella loro entità, da vanificare in concreto il rimedio pattizio, nel qual caso deve applicarsi necessariamente la normativa suindicata, ove sia da escludere che le parti abbiano voluto concludere un contratto totalmente o parzialmente aleatorio (Cass. II, n. 4249/1981; Cass. n. 2247/1954)

La presupposizione

Quando le parti pongano a fondamento del negozio giuridico una situazione che costituisce per entrambi la ragione giustificativa della stessa decisione di addivenire alla stipulazione del contratto, sebbene non facciano ad essa riferimento esplicito nel testo contrattuale, si ritiene che la mancata realizzazione di quella situazione possa venire in considerazione sul piano giuridico sotto il profilo dello squilibrio sopravvenuto tra le prestazioni che all'esito si determina nell'assetto di interessi regolamentato dalle parti. Si pensi, prendendo le mosse dal classico esempio manualistico, all'ipotesi di avvenuta locazione di un balcone per assistere ad uno spettacolo che successivamente non viene tenuto, oppure al caso della vendita di un suolo sull'assunto, non esplicitato nella pattuizione contrattuale, della sua edificabilità, ove nelle more dell'esecuzione tale edificabilità venga invece meno per effetto di una variante al piano regolatore generale o di un vincolo di inedificabilità. La teoria della presupposizione (istituto richiamato anche da Corte costituzionale n. 142/1991, sul problema delle tecniche di controllo dell'attuazione degli scopi che legittimano l'anticipazione del T.F.R. ex art. 2120, comma 8 c.c.), in questi casi, mira a fronteggiare fattispecie in cui il regolamento di interessi predisposto dalle parti venga alterato, sotto il profilo funzionale, da vicende che, pur consentendo in astratto la realizzazione della funzione economico-sociale del negozio, non rendono più conforme tale regolamento alle finalità concretamente perseguite dalle parti.

In queste ipotesi, al sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni potrebbe porsi rimedio avvalendosi dell'azione di risoluzione per eccessiva onerosità. Infatti, devono ritenersi ormai superate le ricostruzioni alternative che riconducevano l'istituto della presupposizione alla causa, ai motivi, all'oggetto o alla condizione del contratto. Sul piano della rilevanza giuridica, si tende, da parte di altri autori, a negare che la risoluzione per eccessiva onerosità si identifichi con la presupposizione. Infatti, la ratio del rimedio risolutorio è il mantenimento del vincolo contrattuale a condizione che persistano i presupposti oggettivi generali (condizioni di mercato), laddove la presupposizione subordina l'efficacia del contratto alla persistenza di presupposti soggettivi specifici (Bianca, 1994, 390). In senso contrario, altro autore sostiene che la presupposizione, quale condizione non esplicitata, non può avere alcuna rilevanza giuridica (Tartaglia, 158). Si è anche sostenuto (Bessone-D'angelo, voce Presupposizione, in Enc. dir., 1986, 341 ss.) che, poiché l'art. 1467 c.c. dà rilevanza alle sole circostanze sopravvenute che siano imprevedibili, il problema della ripartizione tra le parti dei rischi contrattuali va risolto diversamente, integrando il regolamento contrattuale alla luce del principio di buona fede(artt. 1374 e 1375 c.c.), con l'effetto di legittimare lo scioglimento del contratto ogni volta che il suo mantenimento sia contrario a tale principio.

La giurisprudenza assume che la cosiddetta «presupposizione» deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di «condizione», da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa “causa» del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato (Cass. III, n. 6631/2006). La tesi che negli ultimi anni si è andata consolidando, nella giurisprudenza di legittimità, è quella che riconduce l'istituto della presupposizione nell'alveo dell'art. 1467 c.c. relativo alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, che postula l'implicita soggezione di ogni contratto sinallagmatico ad una clausola legale rebus sic stantibus, in base alla quale l'efficacia del contratto dipende dal fatto che le posizioni negoziali di partenza non vengano alterate dal sopraggiungere di nuove circostanze, anche non necessariamente coincidenti con fattori straordinari o imprevedibili (Cass. I, n. 5112/2018; Cass. III, n. 20620/2016; Cass. II, n. 20245/2009; Cass. III, n. 6631/2006; Cass. II, n. 19144/2004; Cass. I, n. 14629/2001; Cass. II, n. 1040/1995; contra Cass. III, n. 12235/2007  e Cass. III, n. 27122/2021, secondo cui la presupposizione rappresenta un presupposto di efficacia del negozio, la cui mancanza legittima l'esercizio del recesso). In particolare, la presupposizione ricorre quando una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, come presupposto condizionante il negozio (c.d. condizione non sviluppata o inespressa). A tal fine, pertanto, si richiede: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l'evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (ed in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti (per tale requisito, cfr. Cass. II, n. 31629/2018 e Cass. II, n. 17698/2007) e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica loro obbligazione (Cass. S.U., n. 9909/2018; Cass. III, n. 3074/1981). Tale situazione deve essere stata considerata certa dalle parti, intendendosi fare riferimento ad un concetto di certezza soggettiva e non oggettiva (Cass. II, n. 15025/2013).

L'applicazione della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta è temperata dal fatto che, richiamandosi al principio di ragionevolezza, la Suprema Corte attribuisce tutela al contraente solo quando la sopravvenienza si è verificata in un arco di tempo breve, se comparata alla natura del contratto (Cass. I, n. 6933/1983), ed inoltre richiede che alla base della presupposizione ci sia una circostanza futura, posto che, in caso di presupposizione relativa ad una circostanza presente o passata, il rimedio sarà quello della nullità ab origine del contratto (Cass. III, n. 8689/1995). Esemplificando, nel caso di vendita di un suolo sul presupposto, rivelatosi poi infondato, che lo stesso sia edificabile, deve presumersi che le parti non avrebbero stipulato il contratto se avessero saputo dell'inedificabilità del terreno, avendo subordinato la realizzazione del loro intento negoziale (che risulta, in un certo senso, ulteriore rispetto alla semplice funzione causale di scambio, che ugualmente trova attuazione) alla sussistenza di un requisito endogeno al contratto, consistente nell'esercizio dello ius aedificandi, inteso come estrinsecazione del più ampio diritto di proprietà sul suolo. Pertanto, qualora la situazione presupposta venga meno successivamente al valido sorgere del vincolo negoziale, ad es. per una modifica in sede di P.R.G., si verifica una risolvibilità del contratto per fatto non imputabile alle parti, sotto il profilo dell'impossibilità sopravvenuta o dell'eccessiva onerosità, con la conseguente esigenza di dover ripristinare la posizione economica iniziale delle parti. Qualora, invece, l'evento presupposto già difetti al momento della conclusione del negozio, si verifica un'ipotesi di mancata attuazione del sinallagma genetico, con conseguente nullità del contratto ex art. 1418, comma 2 c.c. per mancanza di causa, cioè per l'impossibilità di realizzare l'intento pratico perseguito dalle parti.

In effetti, una parte della giurisprudenza diversifica i rimedi esperibili, in primo luogo, a seconda che sussista un collegamento tra presupposizione ed oggetto o causa del contratto, ed, in secondo luogo, a seconda che la situazione presupposta, passata o presente, non sia mai venuta ad esistenza o comunque non esista nel momento in cui il contratto viene concluso, oppure che la situazione contemplata come futura non si realizzi. Ed invero, nel caso in cui il giudice verifichi l'esistenza di un collegamento tra presupposizione ed oggetto del contratto, si ritiene che l'accertamento di un errore sul presupposto, certo, comune ed obiettivo dell'esistenza di determinate qualità del bene o della prestazione, determini la nullità del negozio per impossibilità originaria dell'oggetto ex artt. 1418 e 1346 c.c., non potendosi realizzare il programma negoziale delineato dalle parti; se, invece, la circostanza presupposta dalle parti, presente al momento della stipulazione, venga successivamente meno o quella futura non si verifichi, il rimedio è quello della risoluzione per impossibilità sopravvenutaexart. 1463 c.c., come nel caso della locazione di un immobile da adibire a supermercato seguita dal venir meno della licenza di commercio del conduttore (Cass. II, n. 9125/1993; Cass. III, n. 5168/1981). Qualora, invece, possa prospettarsi un collegamento tra presupposizione e ragione pratica dell'affare, se la circostanza presente presupposta dalle parti è in realtà inesistente, si prospetta una nullità del contratto per difetto di causa ex artt. 1418 e 1325, n. 2 c.c.; se la circostanza futura presupposta non si verifica o, dopo la conclusione del contratto, la circostanza presente viene meno, è invocabile l'art. 1467 c.c., ossia la risoluzione del contratto se, avendo riguardo all'intero assetto di interessi programmato (causa in concreto), possa ravvisarsi una eccessiva onerosità sopravvenuta. Peraltro, i due rimedi risolutori exartt. 1463 e 1467 c.c. si presentano fondamentalmente omogenei, perché in entrambi i casi la risoluzione opera retroattivamente tra le parti e, pertanto, queste ultime, salvo che nei contratti di durata, sono obbligate a restituire le prestazioni già eseguite e sono esonerate dall'effettuare le prestazioni ancora dovute.

La presupposizione richiede, comunque, una specifica allegazione (Cass. I, n. 22580/2014) e, costituendo un'eccezione in senso proprio, non può essere rilevata d'ufficio (Cass. II, n. 2108/2000; Cass. III, n. 4449/1996; Cass. III, n. 2621/1987). Tale istituto, oltre che nei contratti, è stato ritenuto configurabile anche nei negozi unilaterali recettizi (Cass. n. 2632/1961; contra, con riguardo all'atto di dimissioni, Cass. sez. lav., n. 728/1992). Si può avere presupposizione anche nei contratti conclusi con la P.A. (Cass. I, n. 1738/1976)..

Eccessiva onerosità e Covid-19

Con l'inizio della pandemia da Covid-19, si è posta la questione di stabilire se la situazione di emergenza che ha colpito persone, beni e rapporti configuri, per i contratti in corso, una onerosità della prestazione tale da consentire l'accoglimento della domanda di risoluzione del contratto proposta dalla parte onerata ex art. 1467 c.c. e l'offerta di riduzione ad equità avanzata (eventualmente) dalla controparte. Non può dubitarsi che la crisi pandemica, in sé considerata, costituisca un evento straordinario e imprevedibile, che, nella sua portata planetaria, non ha precedenti nella moderna era tecnologica, avendo interessato i più disparati settori - che vanno dall'energia alla sanità, dai trasporti al turismo, dagli alimentari al terziario – e prodotto, con l'emergenza sanitaria, economica e sociale che ne è derivata, conseguenze negative che vanno oltre l'ordinaria congiuntura finanziaria sfavorevole. Ciò, peraltro, con ripercussioni non limitate al solo periodo emergenziale, ma estese anche al medio periodo successivo, posto che le conseguenze economiche negative possono produrre strascichi non indifferenti sull'equilibrio sinallagmatico dei contratti. E' ben possibile, quindi, che, nel contesto concreto di un rapporto contrattuale in corso, la crisi pandemica possa generare uno squilibrio sopravvenuto tra i valori che le parti originariamente avevano dato alle prestazioni e legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto squilibrato, tanto in ragione dell'inusuale aumento di una o più voci di costo della prestazione da eseguire (c.d. “eccessiva onerosità diretta”), quanto a causa della speciale diminuzione di valore reale della prestazione da ricevere (c.d. “eccessiva onerosità indiretta”). Tale scenario di squilibrio potrebbe interessare soprattutto i contratti “a lungo termine” aventi ad oggetto materie prime e/o prodotti finiti, i cui prezzi hanno subito, in parallelo alla diffusione della pandemia, eccezionali rialzi o ribassi, come registrato anche dalle prime rilevazioni statistiche ufficiali (in particolare nella filiera produttiva dei settori dell'energia, degli alimentari, della sanità, del turismo, dei trasporti e dei mezzi di trasporto).

Una conferma normativa di tale conclusione è data da quelle disposizioni emergenziali in cui è stata espressamente richiamata, in ambito contrattuale, la disciplina di cui agli artt. 1467 e 1468 c.c., come nel caso dell'art. 216, co. 3, d.l. n. 34/2020 (cd. Decreto Rilancio), conv., con modif., in l. n. 77/2020, ai sensi del quale la sospensione delle attività sportive, disposta dalla normativa emergenziale (D.P.C.M. attuativi del d.l. n. 6/2020 e del d.l. n. 19/2020), è sempre valutata, ai sensi degli artt. 1256,1464,1467 e 1468 c.c., e a decorrere dall'entrata in vigore degli stessi decreti attuativi, quale fattore di sopravvenuto squilibrio dell'assetto di interessipattuito con il contratto di locazione di palestre, piscine e impianti sportivi di proprietà di soggetti privati.

Al di fuori delle espresse previsioni normative, ai fini dell'applicazione delle disposizioni in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, si deve accertare, in primo luogo, se il contratto concluso dalle parti sia ad esecuzione continuata o periodica, e quindi se si tratti di un contratto di durata; in secondo luogo, va appurato se l'evento pandemico abbia cagionato non tanto un aumento o una diminuzione notevoli del valore di ciascuna prestazione in sé considerata, rispetto a quello iniziale, quanto piuttosto uno squilibrio nel rapporto tra le prestazioni, cioè una variazione del valore apprezzata con riferimento al rapporto sinallagmatico. In relazione, ad es., all'attivitàalberghiera, che è stata oggetto di misure di contenimento preclusive nel periodo da marzo a maggio 2020, in ragione anche delle restrizioni imposte agli spostamenti sul territorio nazionale, si è però ritenuto che la natura temporanea di tali misure fosse incompatibile con il definitivo scioglimento del vincolo contrattuale locatizio ex art. 1467 c.c., anche perché l'allentamento delle misure restrittive avrebbe comunque consentito la ripresa in modo proficuo della predetta attività. Più in generale, se si tratta di un contratto di locazione ad uso diverso avente durata pluriennale, potrebbe risultare difficile giustificare un'eccessiva onerosità basandosi su un blocco delle attività di qualche mese. Diversa, invece, potrebbe essere la situazione di una locazione abitativa a studente fuori sede, costretto a restare lontano dall'immobile anche alla luce dell'intrapresa didattica a distanza. Una parte della dottrina ha, però, ritenuto che non si possa invocare la disciplina dell'eccessiva onerosità nelle fattispecie connesse alla pandemia, in quanto non si verte in un'ipotesi in cui il corrispettivo si è svalutato o rivalutato, essendo rimasto invece inalterato, bensì di mutamento del valore della controprestazione per il debitore, la cui capacità di organizzare il pagamento o di provvedere al pagamento non si può far gravare sul creditore (GENTILI, Una proposta sui contratti d'impresa al tempo del coronavirus, in giustiziacivile.com).

 ln giurisprudenza si è sottolineato che la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità non possiede un ambito di operatività di diritto, dovendo piuttosto essere oggetto di pronuncia giudiziale, la quale possiede natura costitutiva. Pertanto, la volontà espressa da una delle parti del rapporto contrattuale di ricorrere a siffatto rimedio non possiede carattere tale da giustificare, nelle more, la sospensione della prestazione, atteso che manca l'estinzione dell'obbligazione (che si verifica, invece, nel caso di impossibilità sopravvenuta), non ricorrendo una ipotesi come quelle regolate dagli artt. 1460 e 1461 c.c. (Trib. Rimini 28 giugno 2020, in www.quotidianogiuridico.it). Ciò significa, tornando all'esempio della locazione, che il conduttore non potrà, quale forma di autotutela, ridursi unilateralmente il canone per la durata della pandemia, invocando l'eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. In ogni caso, si è rilevato, sempre in tema di contratti di locazione, che chi lamenta un'eccessiva onerosità sopravvenuta durante l'esecuzione di un contratto a causa dell'emergenza Covid-19 ha l'onere di provarlo: se, pertanto, il conduttore non offre alcun dato obiettivo da cui desumere un peggioramento della propria condizione patrimoniale tale da precludergli – in quanto eccessivamente oneroso - il pagamento del canone concordato, discorrendo sempre e solo in termini astratti dell'aggravamento della propria situazione patrimoniale causato dall'emergenza sanitaria, il suo ricorso per la sospensione di pagamento dei canoni non può essere accolto (Trib. Pisa 30 giugno 2020, in De Jure). 

  Deve, altresì, considerarsi che l'astratta utilizzabilità del rimedio risolutorio in esame ne rivela anche la sua inadeguatezza a fronteggiare la crisi dei rapporti negoziali e commerciali, atteso che si tratta pur sempre di uno strumento volto a caducare il vincolo contrattuale, non a riequilibrare il sinallagma, non prevedendo l'art. 1467 c.c. la possibilità di una transitoria riduzione del corrispettivo. Nei contratti commerciali “a lungo termine”, infatti, l'esigenza primaria è costituita, di regola, dalla stabilità e conservazione del rapporto, alla luce sia del grado d'intensità della relazione commerciale tra le parti, sia della complessità tecnica e impegnatività economica dell'esecuzione delle prestazioni a carico delle parti stesse. E ciò anche nella prospettiva della stessa parte pregiudicata dall'eccessiva onerosità sopravvenuta, la quale, pur subendo l'aggravamento della propria posizione contrattuale, potrebbe avere interesse, non tanto a chiedere la risoluzione del contratto “squilibrato”, quanto, piuttosto, a conservarlo, sia pure con le prestazioni contrattuali “riequilibrate” (TARASCHI, Responsabilità contrattuale e Covid-19, 2022, 21). Tuttavia, come già rilevato, l'alternativa alla risoluzione contrattuale è l'offerta di modifica equitativa delle condizioni contrattuali, che però spetta alla sola parte favorita dall'intervenuto squilibrio sinallagmatico, ai sensi dell'art. 1467, comma 3, c.c.

Bibliografia

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