Sequestro preventivo: la curatela fallimentare è legittimata a intervenire e impugnare il provvedimento
27 Settembre 2019
Abstract
La sentenza della Corte di Cassazione n. 38573/2019 fuga gli equivoci sulla legittimazione del curatore del fallimento a intervenire nel procedimento di prevenzione quale terzo e a impugnare in “via cautelare” il provvedimento di sequestro. Il caso si segnala all'attenzione degli studiosi e degli operatori di diritto per la rilevanza dei temi affrontati, la pertinenza delle soluzioni adottate e le interessanti interpretazioni del c.d. codice della crisi di impresa d.lgs. 14/2019, di prossima entrata in vigore (15 agosto 2020). La questione è risolta dalla sentenza in commento nel senso che il curatore del fallimento è certamente legittimato a impugnare il provvedimento di sequestro di prevenzione in quanto «organo che svolge una funzione pubblica nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, [e che è] incardinato nell'ufficio fallimentare a fianco del tribunale e del giudice delegato». Il caso
La Corte di Cassazione si è pronunciata, nella decisione qui in commento, in una vicenda relativa a un decreto di sequestro di prevenzione che ha attinto la quasi totalità del patrimonio di una società per azioni che, in precedenza, era stata dichiarata fallita. La curatela fallimentare aveva interposto atto di appello ex art. 27 d.lgs. n. 159/2011 (c.d. cod. antimafia) avverso il decreto di sequestro, ma in limine litis la Corte d'appello aveva rigettato il gravame sul rilievo che il curatore fallimentare non avesse la legittimazione a interloquire sul decreto di sequestro di prevenzione. Ciò la Corte territoriale aveva affermato:
La curatela ha interposto ricorso per cassazione avverso la predetta decisione, e ha dedotto:
La soluzione offerta dalla Cassazione
La Corte di Cassazione, nel risolvere la questione, ha preliminarmente escluso che la vicenda in esame, poiché afferente a una misura di prevenzione antimafia, possa essere regolata alla stregua degli insegnamenti di cui alle sezioni unite Uniland cit. (le quali, per inciso, avevano apertamente riconosciuto la specialità della disciplina del codice antimafia); ciò anche in considerazione del fatto che, nel caso in commento, la declaratoria di fallimento è stata pronunciata in epoca antecedente all'emissione del decreto di sequestro. Precisazione, questa, che pare assumere significato centrale nella logica motivazionale sottesa alla decisione: nell'ipotesi contraria, infatti, la soluzione avrebbe potuto essere diversa in forza della considerazione per la quale il curatore avrebbe già trovato nel patrimonio del fallito il vincolo giuridico; vincolo al quale non avrebbe, pertanto, potuto “ribellarsi” poiché, alla data del fallimento, i beni non erano più nella disponibilità del fallito. La Corte di Cassazione esclude, poi, che la tutela dei creditori possa essere assorbita dalle disposizioni di cui agli artt. 52 e ss. codice antimafia, in quanto destinate a regolare «le relazioni fra i beni attinenti ai diritti dei terzi e il provvedimento di prevenzione reale, anzitutto quando questo corrisponde alla confisca». Ciò nel senso che solo col provvedimento definitivo – recte non più soggetto ad impugnazione - di confisca si può assistere a quella sorta di “transumanza” della tutela dei diritti dalla procedura fallimentare verso quella di prevenzione (con la conseguente modificazione dell'ordine assiologico della priorità degli interessi giuridici tutelati). Ne segue che, prima di tale momento, i diritti dei creditori della massa restano regolati dalla disciplina concorsuale (e secondo la priorità ivi riconosciuta ai loro interessi), la quale permane in “vita” fino alla definitiva ablazione dei beni in favore dello Stato. La Suprema Corte di Cassazione se, da un lato, riconosce che la posizione del curatore «sfugge alla assimilazione, sulla scorta degli art. 27 e 10 d.lgs. n. 159/2011, con coloro che in tali norme sono indicati come gli “interessati”» afferma, dall'altro, che la ratio delle modifiche apportate al tessuto normativo degli artt. 27, 63 e 64 dal l. n. 161/2017 «ricollega con tutta evidenza la legittimazione dei curatori a interloquire in quanto terzi nella fase della prevenzione alla esigenza di delimitare e circoscrivere l'area dei beni colpita dal sequestro». L'incedere argomentativo fatto proprio dalla Corte di Cassazione passa per il riconoscimento in capo al curatore di un'autonoma funzione di cura dell'interesse pubblico sotteso alla procedura di fallimento, interesse che potrebbe essere sacrificato solo a fronte del provvedimento definitivo di confisca ed al quale non rimane estranea la stessa disciplina del codice antimafia. Sarebbero, allora, espressione della rilevanza di tale interesse sia l'espresso riconoscimento del potere d'impugnazione del decreto di sequestro di prevenzione sia l'espresso potere d'interlocuzione che il codice antimafia attribuisce al curatore con riferimento al potere di chiusura anticipata della procedura fallimentare allorché l'intero compendio della procedura sia attinto anche dal provvedimento di sequestro di prevenzione (artt. 63 e 64 cod. antimafia). In questa prospettiva, il potere d'interlocuzione del curatore è riconosciuto anche in funzione della sua decisione d'impugnare il provvedimento di sequestro e, pertanto, in vista della caducazione degli effetti provvisori del medesimo provvedimento di sequestro ed in funzione della tutela degli interessi pubblici sottesi alla dichiarazione di fallimento. Ne segue che le novità introdotte nel tessuto del codice antimafia dalla l. n. 161/2017 segnano l'emergere della rilevanza della particolare “relazione” giuridica che sussiste tra i beni appresi alla massa attiva fallimentare e il curatore, il quale, in questa prospettiva, benché non possa considerarsi “terzo” nell'accezione tradizionale in cui il termine è utilizzato dall'art. 23, comma 2, cod. antimafia, rimane comunque «un soggetto che al momento del fallimento diventa titolare di posizioni processuali proprie, poiché subentra in tutte le azioni attive e passive che si rinvengono nel patrimonio dell'impresa fallita». Per questa via, «proprio la combinazione fra la nuova disciplina degli art. 63 e 64 del d.lgs. n. 159/2011 e la novità costituita dall'autonoma appellabilità del sequestro finalizzato alla confisca di prevenzione, permette di distinguere la figura del curatore fallimentare nell'ambito del procedimento di prevenzione reale rispetto a quella che esso riveste in procedimenti similari, e di riconoscergli la legittimazione a impugnare la misura cautelare reale nell'ipotesi di fallimento in precedenza già dichiarato». Il precipitato dell'interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione è, all'evidenza, l'estensione del concetto di terzo ai fini della partecipazione al procedimento di prevenzione, ciò nel senso che debbono considerarsi terzi, oltre al proprietario, il comproprietario dei beni sequestrati, ovvero coloro che vantano diritti reali o personali di godimento o diritti di garanzia sui beni oggetto di sequestro, ma anche il curatore fallimentare. Ci si potrebbe, peraltro, chiedere se, più in generale, l'interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione abbia, di fatto, allargato il concetto di “terzi”, oltre che al curatore, a tutti coloro che si trovino immessi nella gestione dei detti beni in funzione della tutela di un interesse pubblico “rilevante”, quali, ad esempio il commissario liquidatore nelle liquidazioni coatte amministrative, ovvero l'amministratore straordinario nelle procedure di amministrazione delle grandi imprese in crisi. La questione giuridica sottesa alla decisione
Volendo estendere lo sguardo al di là della decisione qui in commento, va rilevato come il tema della legittimità del curatore a interloquire sul provvedimento di prevenzione che dispone una misura cautelare reale è risultato essere in giurisprudenza oggetto di contrastanti decisioni sia di merito sia di legittimità. La questione va, peraltro, affrontata – per come ha correttamente rilevato la sentenza in commento – tenendo conto della peculiarità del quadro normativo di cui al codice antimafia, il quale, facendo proprio un orientamento già in precedenza consolidatosi nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha riconosciuto prevalenti gli effetti del vincolo derivanti dal provvedimento di prevenzione rispetto a quelli derivanti dalla sentenza di fallimento. Sulla scorta di ciò, una parte della giurisprudenza ha ritenuto che il principio di prevalenza della misura di prevenzione sulla sentenza di fallimento si traduca anche nel difetto di legittimazione del curatore ad interloquire sul provvedimento cautelare; affermazione, questa, che è stata di solito corroborata dal richiamo a quell'insegnamento giurisprudenziale culminato nella decisione c.d. Uniland con la quale s'è detto che il curatore non possa essere considerato “terzo di buona fede”. Altra parte della giurisprudenza ha, tuttavia, riconosciuto al curatore il diritto a interloquire sul provvedimento di prevenzione antimafia; diritto che troverebbe il suo fondamento nell'attribuzione ex lege al curatore del potere di gestire in via esclusiva l'intero compendio fallimentare (Cass. pen., Sez. III,n. 45578/2018 e Cass. pen., Sez. I, n. 18955/2006). Quando, dunque, oggetto della misura sia un bene facente parte della massa attiva fallimentare, non può negarsi al curatore di intervenire nel procedimento di prevenzione. La sentenza qui in commento, per come sopra s'è visto, si inserisce in quest'ultimo orientamento, approfondendone, peraltro, gli aspetti e le motivazioni teoriche che stanno alla base della soluzione prescelta anche alla luce delle novità di cui alla legge n. 161/2017. Va, peraltro, rilevato come l'esame del tema della legittimazione del curatore ad interloquire sul provvedimento di prevenzione consenta di far emergere significativi punti di frizione tra la disciplina del codice antimafia e quella della legge fallimentare. Contrasti che non sembrano, peraltro, essere stati risolti per effetto del riconoscimento del diritto dei creditori concorsuali a insinuarsi nel procedimento di prevenzione. Se, infatti, il codice antimafia segna un sicuro passo in avanti nel riconoscimento dei diritti dei creditori del proposto (o dei terzi il cui patrimonio sia comunque interessato dalla procedura di prevenzione), esso implica, in ogni caso, un significativo sacrificio per i creditori concorsuali; sacrificio che si apprezza, non solo con riferimento ai tempi di soddisfazione, ma anche con riferimento al quantum ed ai maggiori oneri di allegazione e prova che implica l'ammissione al “concorso” delineato dagli articoli 52 e ss. codice antimafia (sulla questione, che rimane ancora aperta in ordine ai requisiti di data certa e buona fede del credito, si veda l'ordinanza n. 101 del 21 febbraio 2015 della Corte Costituzionale). Basti, in questa prospettiva, considerare che il codice antimafia – con una disposizione che suscita anche più di qualche dubbio – consente una certa “confusione” tra le masse patrimoniali attinte dalla misura di prevenzione, specie quando al proposto siano riferibili più società oggetto, a loro volta, sia di provvedimenti di prevenzione sia di dichiarazione di fallimento. In tali casi, è ben possibile che i creditori concorsuali di una società siano chiamati a sopportare il depauperamento del patrimonio che sarebbe loro astrattamente riservato per la soddisfazione del credito (art. 2740 c.c.) in ragione dei costi di amministrazione da sopportare per la conservazione del patrimonio di altra società pure, in tesi, attinta al provvedimento (cfr. art. 42, comma 1, cod. antimafia). In questa prospettiva è evidente che l'interesse pubblico sotteso alla tutela del credito che è assicurato dalla procedura concorsuale viene ridimensionato e sacrificato a quello – ritenuto dal legislatore sovraordinato – sotteso alla disciplina delle misure di prevenzione. Tale sacrificio è, tuttavia, “accettabile” nella misura in cui esso sia necessario ovvero, e detto altrimenti, se e fino a quando il provvedimento di prevenzione sia legittimamente emesso. Al contrario, l'illegittimità del provvedimento di prevenzione altro non costituisce se non la cifra dell'inesistenza dell'interesse pubblico sotteso alla misura di prevenzione, sicché richiamare il solo principio di prevalenza al fine di risolvere la questione equivale tautologicamente ad affermare che l'interesse pubblico sotteso ad una procedura (quella di fallimento) possa essere sacrificato ove non ne sussista un altro, pretesamene sovraordinato in funzione della natura della procedura (di prevenzione), che al primo debba essere preferito. Per non tacere che, in questa prospettiva e nel silenzio della legge, non è chiaro quali siano i criteri dell'apprezzamento di prevalenza di un interesse pubblico su un altro interesse pubblico. In tale contesto, allora, deve condividersi la soluzione interpretativa fornita dalla Corte di Cassazione, che ha fatto corretto bilanciamento dei diversi interessi in gioco. Non tutti i problemi che attengono ai rapporti tra il fallimento e le misure di prevenzione sono stati, peraltro, risolti. Resta da chiedersi se, nell'ipotesi in cui il fallimento sia successivo alla procedura di prevenzione possa ugualmente riconoscersi la legittimazione del curatore ad impugnare il decreto di sequestro. Come pure c'è da chiedersi quale sia la disciplina da applicare nell'ipotesi in cui il fallimento riguardi direttamente il proposto, e non una società che si affermi a lui riferibile. Al primo dei quesiti si è propensi a dare risposta affermativa: se infatti è vero che il curatore fallimentare trova, in tali casi, un preesistente vincolo giuridico sui beni del fallito, è altrettanto vero che l'interesse pubblico dei creditori concorsuali ad ottenere la revoca del sequestro è identico a quello che essi hanno quando il fallimento preceda il decreto di sequestro di prevenzione. Pare, allora, che la soluzione non vada risolta in termini di stretta priorità cronologica, ma considerando che il curatore rinviene pur sempre nel patrimonio del fallito il diritto (a contenuto processuale) d'impugnare il provvedimento e che tale diritto possa essere utilmente esercitato per far valere le ragioni della massa. Più complesso è il problema quando la persona del fallito e del proposto coincidono. Tuttavia, l'idea che il curatore fallimentare sia titolare di un'autonoma posizione processuale non esclude che possa ritenersi sussistente una concorrente legittimazione processuale ad interloquire sul provvedimento di sequestro in capo al proposto; legittimazione concorrente che, del resto, è espressamente riconosciuta dall'art. 43 l. fall. sia pure per i casi ivi espressamente considerati. Infine, la legittimazione del curatore è estesa anche all'impugnazione del decreto di confisca: ciò per la semplice ragione che essendo il curatore soggetto destinato ad essere chiamato a partecipare al procedimento, non gli si può negare il diritto di impugnare il provvedimento conclusivo del giudizio di prevenzione. In tutti i casi sinora considerati, ferma la legittimazione del curatore fallimentare, la questione troverà dunque soluzione nella verifica dell'interesse ad impugnare, secondo il prìncipio generale che assiste i mezzi di gravame (com'è noto, non è sufficiente la sola legittimazione ad impugnare, ma deve essere allegato anche un concreto interesse). Ad opinare diversamente, si incorrerebbe nell'errore di confondere l'interesse ad impugnare con la legittimazione ad impugnare. Ed è quel che è avvenuto nel caso affrontato dalla sentenza in esame con il richiamo non pertinente al prìncipio della prevalenza della prevenzione sul fallimento; principio che non è destinato a risolvere la legittimazione all'impugnazione, ma è soltanto destinato a disciplinare il concorso tra i vincoli delle due procedure che cadono sul medesimo bene. In conclusione
La sentenza qui commentata, nell'aprire la strada all'impugnazione del decreto di sequestro di prevenzione al curatore del fallimento precedentemente dichiarato, assicura un corretto bilanciamento tra i concorrenti interessi pubblici sottesi alle due procedure. Tale soluzione non si pone, peraltro, in contraddizione con l'affermato principio di prevalenza, sia perché la misura di prevenzione è destinata a prevalere sulla sentenza di fallimento solo quando sia legittimamente resa, sia perché il giudice chiamato a conoscere della legittimità del provvedimento resta pur sempre il giudice della misura di prevenzione, al quale non sarà fatta altra richiesta di verificare se sussistano, o meno, i presupposti previsti dalla legge per l'applicazione della provvedimento di vincolo. Molte delle questioni delle quali si è fin qui discusso saranno, peraltro, superate dai nuovi articoli 317 e 320 codice della crisi d'impresa (che si applicheranno alle procedure di liquidazione giudiziale aperte successivamente al 15 agosto 2020), i quali hanno espressamente attribuito al curatore fallimentare il potere d'impugnare il decreto di sequestro di prevenzione. Sulla questione, semmai, si segnala il punto di vista offerto dal procuratore generale nel caso in esame. Nella sua requisitoria, il P.G. ha osservato che «l'introduzione delle norme sopra [richiamate] risolve le contraddizioni di sistema effetto di una interpretazione ondivaga fornita dalla giurisprudenza che, a fronte del riconoscimento normativo, fondamentale nel sistema concorsuale, di una legittimazione propria del curatore […] gli negava, in ambito penale, la legittimazione con riferimento ad azioni, recuperatorie anch'esse, come quelle dirette al dissequestro, sino a negare, come nel caso di specie, azioni a tutela del patrimonio». Tale orientamento, culminato con la sentenza delle sezioni unite Uniland – ad avviso del P.G. e come ha riconosciuto la sentenza esaminata – «deve ritenersi superato, e ciò senz'altro dall'agosto 2020 in ragione del carattere estensivo della previsione normativa, da riferirsi dunque anche alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 231/2001 […]», con l'ulteriore conseguenza che, a prescindere dall'entrata in vigore del codice della crisi d'impresa, la lettura di tali norme agevola «la ricognizione e il coordinamento della normativa [ad oggi] vigente». |