Padre cattolico e madre testimone di Geova: chi decide l'educazione religiosa del figlio?
16 Ottobre 2019
Massima
In presenza di una situazione di conflitto fra i due genitori che intendano entrambi trasmettere la propria educazione religiosa e non siano in grado di rendere compatibile il diverso apporto educativo derivante dall'adesione a un diverso credo, la possibilità da parte del giudice di adottare provvedimenti contenitivi o restrittivi dei genitori è strettamente connessa e può dipendere esclusivamente dall'accertamento in concreto di conseguenze pregiudizievoli per il figlio, che ne compromettano la salute psico-fisica e lo sviluppo, e tale accertamento non può che basarsi sull'osservazione e sull'ascolto del minore, in quanto solo attraverso di esse tale accertamento può essere compiuto Il caso
Il Tribunale di Como ha pronunciato la separazione personale dei coniugi L.E. e M.V.; ha affidato il figlio minore G. congiuntamente ai due genitori, con le precisazioni circa la sua educazione religiosa; ha fissato la sua residenza presso la madre e disciplinato il diritto di visita del padre cui ha imposto un assegno mensile di 600 Euro, a titolo di contributo al mantenimento del figlio, oltre al 50% delle spese di istruzione, cura ed educazione; ha compensato interamente le spese processuali. Ha rilevato il Tribunale che il signor M.V. ha espresso decisamente il proprio dissenso a che il bambino (che è stato battezzato nella Chiesa Cattolica) riceva dalla madre l'istruzione religiosa propria della dottrina geovista e partecipi con lei alle relative cerimonie presso la Sala del Regno frequentata dalla signora L.E., preferendo che egli esperisca fino alla Cresima il percorso di educazione religiosa e introduzione ai sacramenti della Chiesa Cattolica, sì da poter conoscere i fondamenti di detta fede e poter effettuare, da adulto, una scelta consapevole. Ha ritenuto, quindi, il Tribunale che, stante il contrasto fra i genitori, spetta al giudicante la decisione ex art. 337-ter c.c. e ha, pertanto, affermato che, «pur astenendosi da ogni intento di discriminazione per ragioni religiose, deve ritenersi che la scelta paterna sia maggiormente rispondente all'interesse del piccolo, consentendogli più agevolmente la integrazione nel tessuto sociale e culturale del contesto di appartenenza, il quale, benchè notoriamente secolarizzato, resta pur sempre di matrice cattolica (basti pensare al patrimonio artistico italiano ispirato alla dimensione religiosa cattolica, alla aggregazione giovanile suscitata a livello parrocchiale con iniziative per bambini e adolescenti legate al catechismo, oratorio, grest, ecc.); pur con il dovuto rispetto per le credenze della L., non può sottacersi la natura settaria della comunità religiosa cui ella aderisce, chiusa in sè stessa e ostile al confronto con qualsivoglia altro interlocutore, essendo legata a una interpretazione formalistica e parziaria di taluni testi vetero-testamentari, che non ha ispirato (almeno in Italia) alcun prodotto letterario o artistico avente dignità culturale. Ovviamente il padre, coerentemente con la sua dichiarata intenzione anche con sacrificio personale dovrà accompagnare il bambino nel percorso di educazione religiosa da lui prescelto, favorendone l'inserimento nella comunità parrocchiale di appartenenza e la frequenza alla pratica religiosa via via richiestagli anche in giornate e orari diversi dal protocollo di visita, se necessario; mentre correlativamente la madre dovrà responsabilmente astenersi, onde non destabilizzare il bambino, dall'impartirgli ulteriori insegnamenti della dottrina geovista e dal condurlo alle relative cerimonie». Ha proposto appello la sig.ra L.E., censurando unicamente le prescrizioni in ordine all'educazione religiosa del figlio, di cui ha chiesto la sospensione e la revoca. Ha affermato l'appellante che l'ordine impartitole contrasta con i principi della Costituzione italiana e con quello della laicità dello Stato e, in mancanza di individuazione dell'effettivo, concreto e grave pregiudizio che dall'insegnamento della dottrina da lei professata deriverebbe al minore, anche con le norme del diritto comunitario e internazionale. Secondo l'appellante la sentenza è del tutto carente con riguardo alla motivazione del provvedimento inibitorio, non individuando alcun pregiudizio che il minore subirebbe per effetto degli insegnamenti religiosi materni; essa, inoltre, si pone in contrasto con il principio di bi-genitorialità e con il diritto della madre di trasmettere i propri valori così da consentire al figlio, una volta raggiunta la necessaria maturità, di effettuare una scelta consapevole in merito al credo religioso. Infine, la sentenza è nulla in quanto affetta dal vizio di ultrapetizione, perchè basata sulla necessità di dirimere un conflitto fra i genitori, in realtà insussistente. Il sig. M.V. si è costituito contestando la fondatezza dell'appello e ne ha chiesto il rigetto. Ha rilevato che il conflitto era insorto dopo la cessazione della convivenza fra i genitori e, in seguito alla adesione della L. alla confessione dei testimoni di Geova. M.G. aveva ricevuto esclusivamente una educazione religiosa cattolica ed era stato di comune accordo battezzato secondo il rito cattolico. Ha giustificato la propria opposizione alla trasmissione degli insegnamenti della dottrina geovista e alla frequentazione delle cerimonie religiose presso la Sala del Tempio, ribadendo il proprio convincimento in ordine all'inopportunità di esporre il bambino a insegnamenti contrastanti e confusivi. La Corte di appello di Milano ha respinto l'impugnazione della sig.ra L. e ha compensato interamente le spese processuali anche per il giudizio di appello. La Corte di appello ha escluso la dedotta nullità per vizio di ultrapetizione essendo emerso chiaramente un conflitto genitoriale nel corso del giudizio. Ha ritenuto accertato che G. sia stato battezzato secondo il rito cattolico e che la scelta comune dei genitori, sino all'adesione, successiva alla fine della convivenza, della L. alla dottrina geovista, sia stata quella di inserire il figlio nella comunità della Chiesa Cattolica. Ha ritenuto la Corte territoriale che sia rispondente all'interesse del minore mantenere tale iniziale libera e comune scelta dei genitori consentendo a G. di completare la formazione religiosa cattolica sino al sacramento della Cresima (e cioè sino ai 12-13 anni), senza ricevere altri insegnamenti contrastanti con quelli della religione cattolica e senza frequentare contemporaneamente le adunanze della Sala del Regno. Ricorre per cassazione L.E.. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione del preminente interesse del minore ad una relazione significativa con entrambi i genitori e a ricevere la loro eredità culturale e religiosa, in assenza di danni per il minore e dei presupposti legali per proibire alla mamma di G. di coinvolgerlo nelle sue attività religiose di Testimone di Geova. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della libertà religiosa, del principio di non discriminazione e di laicità; violazione degli artt. 3, 7, 8, 9, 10, 19 e 101 Cost., degli artt. 8, 9, 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Con il terzo motivo di ricorso si deduce l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e cioè che la sig.ra L. è sempre stata Cristiana Testimone di Geova sin da prima il matrimonio e ha trasmesso i suoi valori religiosi al figlio sin dalla nascita. Con requisitoria scritta, il Pubblico Ministero ha chiesto l'accoglimento per quanto di ragione del ricorso. La questione
La questione che la Suprema Corte si trova a dover risolvere attiene al contrasto tra i genitori sull'educazione religiosa del figlio minore, che è stato battezzato secondo il rito cattolico e che, nonostante l'opposizione paterna, è stato introdotto dalla madre agli insegnamenti della dottrina geovista.
Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte, ritenendo la requisitoria del Procuratore Generale pienamente condivisibile, ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. civ., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12594; Cass. civ., sez. I, 12 giugno 2012, n. 9546; Cass. civ., sez.I, 4 novembre 2013, n. 24683) secondo cui, in tema di affidamento dei figli, il criterio fondamentale di giudizio, in caso di conflitto genitoriale, è quello del superiore interesse del minore, stante il suo diritto preminente ad una crescita sana ed equilibrata, sicchè il perseguimento di tale obiettivo può comportare anche l'adozione di provvedimenti, relativi all'educazione religiosa, contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà dei genitori, ove la loro esplicazione determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per il figlio, compromettendone la salute psico-fisica o lo sviluppo. Tuttavia, la possibilità di adottare simili provvedimenti restrittivi, in presenza di una situazione di conflitto fra i due genitori che intendano entrambi trasmettere la propria educazione religiosa e non siano in grado di rendere compatibile il diverso apporto educativo derivante dall'adesione a un diverso credo religioso, non può essere disposta dal giudice sulla base di una astratta valutazione delle religioni cui aderiscono i genitori e che esprima un giudizio di valore precluso all'autorità giudiziaria dal rilievo costituzionale e convenzionale europeo del principio di libertà religiosa. Nè tale possibilità può basarsi sulla considerazione della adesione successiva di uno dei due genitori a una religione diversa rispetto a quella che precedentemente era seguita e praticata da entrambi e che, originariamente, è stata trasmessa al figlio o ai figli come religione comune della famiglia perchè tale criterio astratto lederebbe il mantenimento di un rapporto equilibrato e paritario con entrambi i genitori rimanendo insensibile alle scelte di vita in divenire dei genitori. Ne deriva che la possibilità da parte del giudice di adottare provvedimenti contenitivi o restrittivi dei diritti individuali di libertà dei genitori in tema di libertà religiosa e di esercizio del ruolo educativo è strettamente connessa e può dipendere esclusivamente dall'accertamento in concreto di conseguenze pregiudizievoli per il figlio che ne compromettano la salute psico-fisica e lo sviluppo e tale accertamento non può che basarsi sull'osservazione e sull'ascolto del minore in quanto solo attraverso di esse tale accertamento può essere compiuto.
Osservazioni
La sentenza in commento si inserisce in un solco giurisprudenziale già tracciato, in passato, dalla Corte di Cassazione. La peculiarità della pronuncia in questione va rinvenuta nel fatto che i giudici della Suprema corte hanno comunque modo di affermare, ancora una volta, il generale principio per cui l'interesse del minore, valutato in concreto, è il criterio cui il giudice deve attendersi nella soluzione della controversia. L'orientamento giurisprudenziale non è certo nuovo; il Tribunale di Agrigento (Trib. Agrigento,, sent. 24 maggio 2017) aveva già sostenuto che, in caso di contrasto tra genitori appartenenti a diverse confessioni religiose, il giudice può disporre che, fino almeno all'età scolare, i genitori medesimi si astengano da specifici input religiosi; in termini, anche un precedente della stessa Cassazione (Cass., sez. I, sent. 4 novembre 2013, n. 24683), con la quale i giudici avevano ritenuto non censurabile in cassazione il provvedimento che aveva vietato a uno dei due genitori di condurre i figli minori alle riunioni della confessione religiosa a cui aveva aderito dopo la separazione, specificando che tale divieto non è in contrasto con il diritto del genitore di professare la propria fede religiosa (ex art. 19 Cost.), se e in quanto adottato a tutela di minori i quali, cresciuti in un contesto religioso differente, vengano giudicati incapaci, in ragione dell'età, di praticare una scelta confessionale veramente autonoma e, conseguentemente, di elaborare con la necessaria maturità uno stravolgimento di credo religioso. A medesime conclusioni, seppur con pronunce di segno opposto, erano già giunti anche il Tribunale di Foggia (Trib. Foggia, sez. I, sent. 14 gennaio 2014), per cui non si può impedire a un coniuge di portare il figlio nella Sala del regno dei Testimoni di Geova, se tale partecipazione non ha ripercussioni negative sul percorso di crescita del minore e la stessa Cassazione (Cass., sez. VI, sent. 19 luglio 2016, n. 14728). Sicuramente, la religione rientra nell'ambito dell'educazione, per cui le controversie sull'educazione religiosa del figlio sono in astratto riconducibili all'art. 337 ter c.c. Invece, la frequentazione di scuole religiosamente orientate o di corsi di formazione religiosa (come il corso di catechismo) non si traduce nella scelta di un credo, ma può essere a ciò propedeutica e viene, pertanto, qualificata come decisione di maggiore interesse, che i genitori devono condividere e la cui assunzione unilaterale, da parte di uno dei due, ha condotto all'irrogazione della sanzione dell'ammonimento in un caso esaminato dalla Corte d'appello di Milano, mentre è stata confermata dal Tribunale di Varese e dalla Corte d'appello di Catania (nella prima fattispecie, la mamma aveva fatto frequentare al figlio di 8 anni un corso di catechesi, di preparazione al battesimo, nonostante la convinta laicità del papà; nella seconda, la mamma aveva iscritto il figlio ad una scuola elementare cattolica, nonostante l'adesione del papà alla fede mussulmana). In definitiva, sembrano emergere due orientamenti opposti: quello di Milano, che attribuisce prevalenza, nel dissidio tra i genitori, ad un'educazione neutra e non condizionante, e quello di Varese e Catania, che valorizza, invece, l'arricchimento culturale insito nell'insegnamento religioso, anche se non condiviso da entrambi i genitori. Di recente, il Tribunale di Roma, con decreto del 19 febbraio 2016, ha confermato che la frequentazione del catechismo da parte della minore costituisce«una scelta di maggiore rilevanza per la quale è necessario il consenso di entrambi i genitori, e che dunque deve ritenersi violativa del principio della bigenitorialità la scelta unilaterale attuata dal padre di iscrivere la minore al catechismo». Esattamente come la Corte d'appello di Milano, non ha, però, fatto discendere dalla violazione della bigenitorialità l'automatico divieto per la minore di frequentare il corso di catechesi, dovendo l'autorità giudiziaria valutare nel merito l'opzione maggiormente conforme al suo interesse. Nel caso di specie, la scelta del padre è stata confermata – senza adozione di alcuna sanzione, in quanto bilanciata da altre decisioni di maggiore importanza adottate unilateralmente dalla madre – tenendo conto del desiderio della minore, fondato sull'esigenza di condividere le esperienze dei propri coetanei, del pregresso accordo dei genitori, dimostrato dall'avvenuto battesimo, dall'opposizione non sufficientemente giustificata dell'altro genitore, fondata sul proprio agnosticismo e sull'opportunità di preferire un corso di catechesi vicino all'abitazione piuttosto che alla scuola. La soluzione adottata dalla Suprema Corte è condivisa dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che già nella sentenza Hoffman c. Austria del 23 giugno 1993, n. 12875/1987 ha stabilito il principio secondo il quale la libertà di educare i figli nella propria fede religiosa rientra tra le libertà e i diritti garantiti dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e che pertanto nell'affidamento dei figli ogni discriminazione tra coniugi in ragione della loro differente appartenenza religiosa debba considerarsi illegittima. Nel caso Hoffman la Corte Suprema austriaca aveva affidato i figli a uno dei genitori esclusivamente sulla base del fatto che l'altra apparteneva alla Congregazione dei Testimoni di Geova. La Corte di Strasburgo osserva che la decisione era stata presa nonostante la mamma si fosse impegnata a far trascorrere ai figli le festività cristiane con il padre, a non opporsi a una trasfusione di sangue nel caso se ne fosse verificata la necessità e si fosse in generale dimostrata una madre attenta e capace di crescere i figli. La Corte Suprema austriaca non aveva tenuto conto di questi aspetti e aveva basato la sua decisione, quella appunto di preferire il padre alla madre nell'affidamento dei figli, considerando astrattamente la possibilità che l'adesione alla religione dei Testimoni di Geova potesse essere dannosa per loro in futuro. Anche lo stress psicologico causato loro dall'essere trasferiti dalla custodia materna a quella paterna viene giudicato accettabile alla luce del loro superiore interesse. La Corte Europea non può non rilevare che nel caso Hoffman si è verificata una discriminazione su base religiosa, poiché mancava nella motivazione del giudice nazionale una "giustificazione oggettiva e ragionevole" della decisione presa, che non era neppure giustificata da un "legittimo scopo"; conclude la Corte che "una differenza basata essenzialmente sulla sola diversità religiosa non è accettabile" (n. 36 della motivazione). Simile alla sentenza Hoffman è la sentenza Palau-Martinez c. Francia, del 16 dicembre 2003, n. 64927/01. In questo caso, una corte d'Appello francese aveva assegnato la custodia di due bambini al padre poiché il loro affidamento alla madre, testimone di Geova, era stato giudicato contrario al loro interesse. Ancora una volta, la Corte di Strasburgo osserva che la decisione dei giudici nazionali si basa su un'idea astratta della religione di appartenenza della donna, senza elementi concreti a dimostrazione che tale appartenenza sia causa di una ridotta capacità genitoriale. Non era stata fatta alcuna indagine da parte dei servizi sociali, come normalmente invece accade quando si tratta di decidere in ordine all'affidamento di minori, indagine che avrebbe consentito di valutare oggettivamente l'impatto della pratica religiosa della mamma sulla vita e sull'educazione dei figli. Anche in questo caso la Corte Europea riconosce che la decisione di affidare i bambini al padre, basata essenzialmente sul motivo della fede religiosa abbracciata dalla madre, costituisce una discriminazione, poiché manca una causa oggettiva e ragionevole e uno scopo legittimo. Più recente è la sentenza Vojnity v. Hungary, 12 febbraio 2013, n. 29617/2007. Ancora una volta la Corte è stata chiamata a valutare il caso di un padre, aderente a una religione denominata "Congregazione della fede", al quale un tribunale ungherese aveva negato il diritto di visita dei figli. Tale decisione si era basata su un fatto ritenuto decisivo, ovvero l'appartenenza del genitore a una religione alla quale viene attribuita una visione del mondo irrazionale che avrebbe reso l'uomo "incapace di allevare i suoi figli", soprattutto perché egli aveva manifestato l'intenzione di educarli nella sua stessa fede religiosa, nonostante una perizia psichiatrica sul genitore, ordinata dalla Corte distrettuale della città di Szeged, avesse certificato che gli incontri dell'uomo con i bambini non erano dannosi per questi ultimi (n. 31). Anche in questo caso la Corte di Strasburgo ritiene che vi sia stata una violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea, poiché la decisione di impedire al padre di incontrare i propri figli non è ragionevole, né proporzionata all'interesse da proteggere, cioè alla protezione del supremo interesse dei minori; di conseguenza, conclude la Corte, "il ricorrente ha subito una discriminazione basata sulle sue convinzioni religiose nell'esercizio del suo diritto al rispetto della vita familiare" (n. 43). Nel commentare brevemente questa sentenza, F. Tulkens, già vice-presidente della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, osserva che storicamente la differenza religiosa ha costituito motivo di discriminazione e persecuzione, e che perciò è necessario che sia prestata molta attenzione alle differenze su base religiosa. Le tre decisioni esaminate mostrano una convergenza tra la giurisprudenza della Cassazione e i principi affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo: in materia di affidamento dei figli, l'appartenenza religiosa del genitore può avere rilevanza solo se essa influisce negativamente sulla crescita fisica e psicologica dei bambini; in questi casi, tra la tutela della libertà religiosa dell'adulto e il supremo interesse del minore, deve essere sempre quest'ultimo a prevalere.
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