Niente processo per le società fallite quando la procedura concorsuale è conclusa

Ciro Santoriello
29 Novembre 2019

La giurisprudenza ha già affrontato in altre occasioni il tema inerente all'individuazione delle conseguenze che derivano dal fallimento della società nei cui confronti si sta procedendo penalmente ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. In proposito, la Cassazione, dopo alcune oscillazioni della giurisprudenza di merito...
Massima

Nel caso in cui si verifichi l'estinzione fisiologica e non fraudolenta dell'ente, correlata alla chiusura della procedura fallimentare, si verte in un caso assimilabile a quello della morte dell'imputato, dato che si è verificato un evento che inibisce la progressione del processo ad iniziativa pubblica previsto per l'accertamento della responsabilità da reato di un ente ormai estinto, ovvero di una persona giuridica non più esistente.

Il caso

In sede di merito era stata riconosciuta la responsabilità di una pluralità di società per i reati di cui agli artt. 640-bis e 416 c.p. commessi dagli organi apicali delle stesse.

Le società ricorrevano in cassazione lamentando l'esistenza di un vizio processuale oltreché la indeterminatezza dei capi di imputazione, nei quali sarebbe mancata l'indicazione del reato presupposto, essenziale per la integrazione della responsabilità amministrativa da reato. Le contestazioni infatti si limitavano invece a contestare la mancata predisposizione o attuazione di modelli di gestione idonei a prevenire la consumazione di reati richiamando il dettato normativo in materia di prova liberatoria; tale struttura dei capi di imputazione si sarebbe risolta nella elevazione a elemento costitutivo del reato della mancanza del progetto organizzativo finalizzato alla prevenzione degli illeciti, ovvero di un fatto che integra l'oggetto della prova liberatoria prevista dall'art. 6 del d.lgs 231 del 2001, ma è estraneo alla fattispecie.

Su nessuno di questi temi, pur di interesse, in particolare quello relativo alla corretta modalità di contestazione di un illecito societario, è stato affrontato dalla Cassazione, la quale ha annullato senza rinvio la condanna, sostenendo che il processo in esame non poteva essere proseguito una volta che le società accusate erano state dichiarate fallite ed i relativi fallimenti erano stato chiusi.

La questione

La giurisprudenza ha già affrontato in altre occasioni il tema inerente all'individuazione delle conseguenze che derivano dal fallimento della società nei cui confronti si sta procedendo penalmente ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001.

In proposito, la Cassazione, dopo alcune oscillazioni della giurisprudenza di merito, ha affermato che è escluso che il fallimento della società determini l'estinzione dell'illecito previsto dal d. lgs. n. 231 del 2001 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento (Cass. pen., Sez. V, 15 novembre 2012, n. 44824, secondo cui l'instaurazione della procedura concorsuale non integra una situazione assimilabile a quella della morte dell'autore del reato, come invece sostenuto dal giudice del merito. Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. V, 16 novembre 2012, n. 4335; Cass. pen., Sez. un., 25 settembre 2014, n. 11170. In dottrina, ZANALDA, Fallimento della società ed estinzione delle sanzioni amministrative, in Giur. It., 2013, 1650; GUERINI, Il fallimento delle società non determina l'estinzione della sanzione a carico dell'ente, in Dir. Pen. Proc., 2013, 940; PAOLONI, Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal d.lg. n. 231 del 2001, in Cass. Pen., 2013, 2781; ROSSI, Fallimento, “morte” della società ed estinzione della responsabilità da reato, in Giur. Comm., 2014, 236; DI GERONIMO, Rapporti fra fallimento della società ed accertamento degli illeciti amministrativi dalla medesima commessi: profili problematici in tema di misure cautelari, trasmissibilità delle sanzioni e legittimazione processuale del curatore nel procedimento a carico delle società, in Riv. Trim. Res. Enti,1/2011; CHIAMETTI, Sanzioni 231 anche per le società fallite, ivi, 1/2013; SALVATORE, Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo da reato, ivi, 2/2013; BERSANI, Responsabilità della persona giuridica e sopravvivenza delle sanzioni alla dichiarazione di fallimento, ivi,3/2013).

Prima dell'intervento della Cassazione diverse decisioni di merito avevano affermato che il fallimento della società sarebbe stato in qualche modo assimilabile alla morte del reo e dunque avrebbe comportato l'estinzione del reato; ciò sulla considerazione che la dichiarazione di fallimento priva il soggetto fallito di ogni potere in relazione al suo patrimonio e che dunque la società entra in una fase di pressoché definitiva inattività, equiparabile, quanto agli effetti, alla morte della persona fisica. Inoltre, in alcune decisioni si sosteneva che la curatela fallimentare è un soggetto terzo rispetto alla società per cui sarebbe irragionevole comminare a quest'ultima, in quanto soggetto estraneo all'illecito dell'impresa, una sanzione con funzione retributiva e special-preventiva, venendo la condanna penale a rivolgersi contro un soggetto diverso rispetto a quello nel cui interesse o vantaggio è stato commesso il reato presupposto della responsabilità amministrativa.

Come detto, la Cassazione ha rigettato tale impostazione sostenendo che l'avvenuto fallimento della società non può configurare una ipotesi di estinzione dell'illecito contestato, non essendo una simile causa di estinzione prevista dalla d.lgs. n. 231 del 2001, la quale, invece, indica espressamente come causa di estinzione della responsabilità dell'ente la prescrizione per decorso del termine di legge e prevede altresì la improcedibilità nei confronti dell'ente quando sia intervenuta amnistia in relazione al reato presupposto. Secondo i giudici di legittimità, solo quando la cessazione della attività commerciale sia formalizzata con la cancellazione dal registro delle imprese possono ritenersi cessati gli obblighi di legge a carico dell'ente, mentre la sentenza che dichiara il fallimento priva semplicemente la società fallita dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori, ma tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare. In sostanza, il fallimento non produce l'estinzione della società, la quale non consegue automaticamente nemmeno alla chiusura della procedura, essendo necessario un atto formale di cancellazione della società da parte del curatore; fino a quel momento la società rimane in vita, mantenendo funzioni limitate ed ausiliarie e potendo comunque ritornare in bonis, con conseguente riespansione dei poteri gestionali ed amministrativi degli organi sociali.

Le riflessioni della Cassazione, peraltro, non si sono limitate a tali considerazioni, avendo la Suprema Corte anche escluso che il fallimento – che, come detto, non produce l'estinzione della società – determini una sorta di stato di quiescenza dell'ente, assimilabile alla morte della persona fisica, il che, come è ovvio, legittimerebbe l'applicazione analogica dell'art. 150 c.p. Secondo la Cassazione, infatti, caratteristica della morte fisiologica di un soggetto fisico è la cessazione definitiva ed irreversibile di tutte le funzioni vitali ad esso connesse e ciò rende comprensibile perché in tali circostanze sia prevista l'estinzione del reato posto che la pena non sarebbe eseguibile e non avrebbe comunque alcun senso sanzionare un soggetto che non esiste più; di contro, tali conseguenze non seguono alla dichiarazione di fallimento, tanto che in alcune decisioni il fallimento dell'impresa collettiva viene “assimilato alla situazione di un malato; una società fortemente indebitata ed in stato di pesante dissesto … può paragonarsi ad un malato grave, la cui morte è altamente probabile, ma non certa nel se e nel quando. E fino al momento della morte effettiva del soggetto non è possibile dichiarare l'estinzione del reato solo perché il decesso è, in un futuro non lontano, altamente probabile. Solo la morte effettiva della persona fisica comporta l'estinzione del reato e dunque solo l'estinzione definitiva dell'ente può eventualmente determinare gli stessi effetti sulla sanzione per cui è giudizio” (Cass. pen., Sez. V, 15 novembre 2012, n. 44824).

A tali riflessioni si ricollega poi la ulteriore affermazione che compare in diverse decisione del giudice di legittimità secondo il quale non può sostenersi che l'applicazione della sanzione al fallimento non colpirebbe il soggetto autore dell'illecito, ma un soggetto terzo incolpevole e ciò in quanto il fallimento non è soggetto terzo, ma una semplice procedura di gestione della crisi, che non determina alcun mutamento soggettivo dell'ente, il quale continua ad essere soggetto passivo della sanzione. In particolare, il fallimento non determina alcuna successione, ne' a titolo universale, ne' a titolo particolare, dell'ente collettivo, non è cioè un soggetto che succede all'impresa societaria, ma è solo una procedura che assume la gestione liquidatoria dell'ente per il tempo strettamente necessario alla soddisfazione concorsuale dei creditori (il che, perciò, esclude la possibile applicazione dell'art. 7 lg. N. 689 del 1981 in tema non trasmissibilità agli eredi dell'obbligo di pagamento della sanzione amministrativa).

Le soluzioni giuridiche

Come accennato, la Cassazione ha annullato senza rinvio la decisione di condanna pronunciata nei confronti delle società fallite e ciò sulla scorta della circostanza – accertata dalla stessa Corte di legittimità – che gli enti imputati erano stati cancellate dal registro delle imprese nel corso del processo e ciò secondo i giudici impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Secondo la Cassazione, infatti, posto che l'art. 35 del d.lgs n. 231 del 2001 estende all'ente le disposizioni relative all'imputato, nel caso in cui si verifichi l'estinzione fisiologica e non fraudolenta dell'ente, correlata alla chiusura della procedura fallimentare, si verte in un caso assimilabile a quello della morte dell'imputato, dato che si è verificato un evento che inibisce la progressione del processo ad iniziativa pubblica previsto per l'accertamento della responsabilità da reato di un ente ormai estinto, ovvero di una persona giuridica non più esistente.

A dire della Cassazione tale scelta interpretativa risulta confermata dal fatto che il testo legislativo regolamenta sole le vicende inerenti la trasformazione dell'ente, ovvero la fusione o la scissione (art. 70 d.lgs n. 231 del 2001), ma non la sua estinzione, che dunque non può che essere trattata applicando le regole del processo penale (art. 35 d.lgs n. 231 del 2001). Si ritiene dunque non importabile nel processo a carico dell'ente per l'accertamento della responsabilità da reato il principio espresso dalla giurisprudenza civile secondo cui la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese determina un fenomeno successorio in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all'ente non si estinguono ma si trasferiscono ai soci che, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui sono soggetti pendente societate, ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione ovvero illimitatamente. Il trasferimento dei rapporti obbligatori in capo ai soci riconosciuto dalla giurisprudenza civile è infatti correlato alla necessità di tutelare l'interesse dei soggetti privati che vantano ancora pretese nei confronti dell'Ente; la natura pubblica del processo a carico della società previsto dal d.lgs n. 231 del 2001 è invece incompatibile con l'estinzione non fraudolenta dell'ente, ovvero con la cancellazione dal registro dalle imprese che consegue fisiologicamente alla chiusura della procedura fallimentare: tale evento produce infatti l'estinzione della persona giuridica "accusata" e, dunque, impedisce la prosecuzione del processo, salvo che tale cancellazione piuttosto che fisiologica sia invece fraudolenta, caso che imporrà la valutazione della eventuale responsabilità degli autori della cancellazione "patologica.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione in commento, nonostante possa sembrare altrimenti a un prima lettura, non contraddice l'orientamento consolidato sopra menzionato posto che nel caso deciso dalla Cassazione non si era semplicemente in presenza di una società fallita ma di una procedura concorsuale ormai chiusa.

Tale ipotesi differisce in maniera considerevole rispetto a quanto si verifica nel caso in cui il procedimento abbia a svolgersi (non solo nei confronti di una società fallita, ma anche) mentre la procedura concorsuale è ancora aperta: in tale ultima circostanza, infatti, vi è ancora un soggetto giuridico cui “riferire” le conseguenze del giudizio penale – basti pensare a come il curatore, in caso di condanna dell'ente ed applicazione delle sanzioni pecuniarie, debba considerare il costo delle stesse e tenerne conto nella redazione dello stato passivo definitivo, nonché ripartire l'eventuale attivo considerando anche le pretese della giustizia; di contro, quando la procedura di fallimento è conclusa, l'ente viene meno e scompare dall'universo giuridico sicché pare davvero senza senso continuare nello svolgimento del giudizio fino a pronunciare una sentenza che sarà inevitabilmente inutiliter data.

Ciò posto, ci pare che la decisione in commento lasci comunque irrisolti due problemi.

In primo luogo, la Cassazione differenzia più volte fra l'ipotesi, che la stessa Corte definisce come fisiologica, della chiusura del fallimento con cancellazione della società su istanza del curatore secondo quanto previsto dai nn. 3 e 4 del comma primo dell'art. 118 dai casi in cui tale cancellazione sia l'esito di non meglio precisate condotte truffaldine e menzognere. Tale distinzione, per l'appunto, lascia però in ombra quali siano tali comportamenti truffaldini e come gli stessi vadano accertati – ad esempio, possono essere accertati nello stesso procedimento nei confronti della società o devono essere provati in altra sede; devono essere oggetto di un accertamento giudiziale pieno o possono essere ritenuti incidentalmente dal giudice che procede nei confronti dell'ente collettivo?.

In secondo luogo, la decisione pare non considerare come la stessa chiusura della procedura fallimentare sia tutt'altro che definitiva, quand'anche alla stessa segua la cancellazione dell'impresa dal relativo registro. Secondo il primo comma dell'art. 121 l. Fall., infatti, “nei casi preveduti dai numeri 3 e 4 dell'articolo 118, [ovvero proprio nelle ipotesi in cui alla chiusura del fallimento segue la cancellazione della società su richiesta del curatore]il tribunale, entro cinque anni dal decreto di chiusura, su istanza del debitore o di qualunque creditore, può ordinare che il fallimento già chiuso sia riaperto, quando risulta che nel patrimonio del fallito esistano attività in misura tale da rendere utile il provvedimento o quando il fallito offre garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e nuovi”. Ecco quindi che risulta sconfessata l'apodittica affermazione del giudice di legittimità secondo cui la cancellazione dal registro delle imprese della società in conseguenza della chiusura della procedura fallimentare che la riguarda determina senz'altro l'estinzione dell'ente collettivo e quindi l'inutilità del processo ex d.lg. N. 231 del 2001 nei suoi confronti: quanto meno nei cinque anni successivi alla chiusura del fallimento è possibile un “ritorno in vita” dell'impresa collettiva.

Forse piuttosto che distinguere fra una pluralità di ipotesi – società fallita, società fallita con procedura chiusa e con cancellazione dal registro delle imprese, società cancellata dal registro ma in conseguenza di indeterminati comportamenti fraudolenti – sarebbe più semplice sostenere che, in assenza di una indicazione normativa sul punto, l'apertura di una procedura concorsuale nei confronti dell'ente non ha alcuna rilevanza con riferimento allo svolgimento del processo nei suoi confronti.

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