Il caso fortuito: un mistero causale che non ricorre mai

Gianluca Bergamaschi
18 Febbraio 2020

La questione affrontata verte, non tanto sul fatto se il fortuito escluda il nesso eziologico o l'elemento psicologico del reato, ma se un evento imprevisto, in quanto imprevedibile e/o inevitabile, possa costituire caso fortuito anche quando il soggetto abbia tenuto una...
Inquadramento

La questione affrontata verte, non tanto sul fatto se il fortuito escluda il nesso eziologico o l'elemento psicologico del reato, ma se un evento imprevisto, in quanto imprevedibile e/o inevitabile, possa costituire caso fortuito anche quando il soggetto abbia tenuto una condotta colposa in generale ma non circa il fatto costituente il fortuito cogeneratore dell'evento finale e, dunque, non possa essergli rimproverato che l'evento fortuito concausale fosse, di per sé stesso, prevedibile e/o evitabile da parte sua.

Il panorama giurisprudenziale

La giurisprudenza, storicamente, si è divisa fra una tesi, risultata minoritaria, che ritiene il caso fortuito come capace di escludere il nesso eziologico tra la condotta e l'evento finale, ed un'altra, maggioritaria che, invece, ritiene che il fortuito debba essere tale da escludere qualunque legame psicologico tra l'agente e le conseguenze della sua condotta, ossia l'elemento psicologico.

Alla prima concezione, detta anche “oggettiva”, sono riconducibili, ad esempio, Cass. pen., Sez. IV, n. 1966/1966, che scrive: «Il caso fortuito si identifica in una accidentalità che, aggiungendosi alla condotta umana, cagiona in modo prevalente un evento che non sarebbe mai derivato dalla condotta»; Cass. pen., Sez. IV, 6 dicembre 1977, che afferma: «Deve ravvisarsi il caso fortuito quando la causa dell'evento sia identificabile in un elemento impreveduto ed imprevedibile che, non potendo essere ricollegato all'attività psichica dell'agente, spezza il nesso causale fra l'azione posta in essere dallo stesso agente e l'evento che si è verificato»; a tali concetti si ricollega, più di recente, anche Cass. pen., Sez. III, n. 1814/1997, la quale precisa pure che: «L'accadimento fortuito per produrre il suo effetto di escludere la punibilità dell'agente deve risultare totalmente svincolato sia dalla condotta dello stesso sia dalla di lui colpa; pertanto se l'accadimento, pur se eccezionale, ben poteva in concreto essere previsto ed evitato, non è possibile parlare di caso fortuito in senso tecnico».

La seconda impostazione, detta “soggettiva”, annovera una quantità decisamente maggiore di arresti e può, sicuramente, considerarsi, all'oggi, nettamente prevalente.

La stessa, tuttavia, venne sostenuta fin da tempi remoti, si veda, ad esempio, Cass. pen., Sez. V, 31 marzo 1978, in cui su legge: «Ai sensi dell'art. 45 c.p. si ha caso fortuito quando sussiste il nesso di causalità materiale fra la condotta e l'evento, ma fa difetto la colpa, in quanto l'agente non ha voluto l'evento, nè lo ha causato per negligenza o imprudenza.»; Cass. pen., Sez. V, 23 marzo 1979, affermante che: «L'evento dannoso verificatosi in conseguenza di un fatto estraneo all'imputato non può essere ascritto al fortuito quando l'agente si sia posto in condizione di illegittimità tenendo una condotta non conforme ai principi di comune prudenza»; Cass. pen., Sez. V, 6 novembre 1979, la quale ribadisce che: «Il caso fortuito opera al di là della colpa nel campo dell'imprevisto e dell'imprevedibile, varcando i limiti della prudenza e della attenzione umana e così escludendo l'elemento soggettivo del reato, per non essere l'evento in alcun modo riconducibile all'attività psichica del soggetto. Se, però, la condotta dell'agente è imprudente o negligente, ovvero contraria a norme giuridiche, l'evento, anche se non previsto e non prevedibile, non può essere ascritto al caso fortuito, essendo pur sempre ricollegabile ad un comportamento colposo».

La bontà della teoria soggettiva venne, poi, sancita da un importante obiter dictum della Cass. pen., Sez. Unite, n. 12093/1980 (Felloni), la quale – pur occupandosi principalmente della qualificazione giuridica del “malore”, escludendo che fosse riconducibile al caso fortuito – fece un'interessante digressione sulla natura giuridica del fortuito.

Si legge, infatti, nella sentenza: «Il caso fortuito è un mistero causale; … La rilevanza giuridica del fortuito è inesorabilmente legata ad un'azione umana … come è rivelato dalla stessa formulazione dell'art. 45 che, adoperando l'espressione “commettere”, suppone la presenza di un comportamento umano, attivo o negativo. Dall'incrocio di questo con l'avvenimento causale deriva la produzione dell'evento, nel senso che questo, secondo il principio di equivalenza delle cause, è eziologicamente riconducibile alla condotta dell'uomo, il quale tuttavia non ne risponde per l'intervento del fattore causale imprevedibile. Dunque il caso fortuito presuppone l'integrità del rapporto di causalità materiale tra la condotta e l'evento, collocandosi come una causa (soggettiva) di esclusione della punibilità.»; di conseguenza: «… la disposizione dell'art. 45 c.p. non si identifica con quella dell'art. 42 c.p. e neppure è una sua specificazione: l'art. 45 descrive una fattispecie in cui l'uomo, pur essendosi verificato un fatto a lui riferibile, materialmente e psicologicamente, non ne risponde per l'intervento del fattore causale imprevedibile»; la Corte, poi, respinge la teoria oggettiva anche: «… perché la tesi che esclude il rapporto di causalità fisica è costretta a riconoscere, nelle sue estreme deduzioni, carattere pleonastico all'art. 45, che sarebbe un duplicato dell'art. 41 cpv. c.p.; il che sarebbe inammissibile, per la presunzione di coordinata razionalità che deve assistere la redazione di un testo normativo improntato a sistematicità.».

Quasi la totalità della giurisprudenza successiva si colloca sulla sponda soggettivistica, spesso, esasperandola, nel senso di ritenere che il caso fortuito debba essere escluso, non solo quando l'agente versi in colpa rispetto ad esso, in relazione alla sua ricorrenza, prevedibilità ed evitabilità (ad esempio Cass. pen., Sez. IV, 4 febbraio 1981, in cui si legge che: «Elemento caratterizzante il caso fortuito è la imponderabilità dell'evento verificatosi nel senso che un elemento causale, imprevisto ed imprevedibile, si inserisce d'improvviso nel comportamento dell'agente, si da rendere inevitabile il prodotto di una data condotta. Pertanto, deve escludersi la sussistenza dell'esimente in parola non solo quando un tale fattore causale possa essere previsto dall'agente, ma anche quando della sua imminenza sia colpevole l'agente stesso.»; in questo senso anche: Cass. pen., Sez.IV, 44548/2009; Cass. pen., Sez.IV, n. 10823/2010; Cass. pen., Sez.IV, n. 6982/2013; Cass. pen., Sez.IV, n. 36883/2015; Cass. pen., Sez.IV, n. 29922/2019), ma anche laddove l'agente versi, comunque, in una condotta, in sé e per sé, già colposa (ad esempio Cass. pen., Sez. V, 1° aprile 1982, ove si scrive che: «Il caso fortuito presuppone un fattore causale dell'evento che esula completamente dalla condotta "in faciendo" o in "omittendo" dell'agente e tale da escludere l'elemento soggettivo del reato. Ne deriva che se la condotta dell'agente è imprudente o negligente ovvero contraria a norme giuridiche, l'evento anche se non previsto e non prevedibile, non può essere ascritto al caso fortuito, essendo pur sempre ricollegabile ad un comportamento colposo.»; a questa stregua anche: Cass. pen., Sez. IV, 20 febbraio 1990; Cass. pen., Sez. IV, n. 7825/1990; Cass. pen., Sez. II, n. 144/2003; Cass. pen., Sez.IV, n. 19373/2007; Cass. pen., Sez. IV, n. 1500/2014; Cass. pen., Sez.IV, n. 11825/2015).

L'indirizzo soggettivo, dunque, sembra biforcarsi, anche se non è possibile tracciare una linea netta, giacché le relative argomentazioni s'intersecano spesso per adattarsi alle situazioni concrete, in cui il fortuito, in molti casi, sarebbe, concretamente e comunque, da escludersi o perché l'evento invocato come tale, era, in sé e per sé, prevedibile ed evitabile con la necessaria diligenza applicata direttamente allo stesso, al di là del fatto nel suo complesso (Cass. pen., Sez.IV, n. 10823/10), di talché il rimprovero di colpa è direttamente ricollegabile alla mancata previsione del fatto ed ai mancati rimedi contro di esso (Cass. pen., Sez.IV, n. 1500/14) ovvero perché manca un qualsiasi, anche minimo, ancoraggio probatorio del fatto costituente il fortuito, la cui allegazione, quindi, è meramente ipotetica ed astratta (Cass. pen., Sez.IV, n. 6982/13) o, infine, perché gli effetti del caso fortuito, in sé imprevedibile, sarebbero stati governabili dall'agente con l'ordinaria prudenza applicata direttamente al fatto stesso costituente il fortuito, cosicché esso, pur essendo imprevedibile, non risulta inevitabile, ossia era concretamente disinnescabile nelle sue peggiori conseguenze ( Cass. pen., Sez.IV, n. 11825/15).

Ad ogni buon conto, per meglio intendersi, risulta emblematica del primo indirizzo la Cass. pen., Sez.IV, n. 44548/09, in cui è dato leggere: «Dunque, l'accadimento fortuito, per produrre il suo effetto di escludere la punibilità dell'agente - sul comportamento del quale viene ad incidere - deve risultare totalmente svincolato sia dalla condotta del soggetto agente, sia dalla sua colpa. Ne consegue che in tutti i casi in cui l'agente abbia dato materialmente causa al fenomeno - solo, dunque, - apparentemente fortuito - ovvero nei casi in cui, comunque, è possibile rinvenire un qualche legame di tipo psicologico tra il fortuito e il soggetto agente, (nel senso che l'accadimento, pure eccezionale, poteva in concreto essere previsto ed evitato se l'agente non fosse stato imprudentemente negligente o imperito) non è possibile parlare propriamente di fortuito in senso giuridico (Cass. pen., Sez. IV, 9 dicembre 1988, Savelli, RV 180850).».; mentre del secondo la Cass. pen., Sez. IV, n. 1500/2014, che afferma: «Come è stato precisato in altra occasione, il caso fortuito si verifica quando sussiste il nesso di causalità materiale tra la condotta e l'evento, ma fa difetto la colpa, in quanto l'agente non ha causato l'evento per sua negligenza o imprudenza; questo, quindi, non è, in alcun modo, riconducibile all'attività psichica del soggetto. Ne consegue che, qualora una pur minima colpa possa essere attribuita all'agente, in relazione all'evento dannoso realizzatosi, automaticamente viene meno l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 45 c.p. (Cass. pen., Sez. IV, n. 19373/2007, Mollicone e altro, Rv. 236613)».

Considerazioni critiche

La problematica emergente dalla giurisprudenza e che comporta la pratica impossibilità di veder riconosciuta la ricorrenza del caso fortuito, riguarda non tanto l'impostazione soggettiva che potremmo definire “intrinseca” – ossia quella in cui gli elementi casuali e psicologici vengono valutati strettamente ed esclusivamente in relazione al fatto costituente il fortuito –, quanto quella che si può indicare come “estrinseca”, giacché mischia, confonde e concilia tali elementi con i loro omologhi costituenti il fatto principale, al netto di quello costituente il fortuito; vale a dire, ad esempio, quelli che determinano l'evento “incidente”, rispetto a quelli che determinano l'evento “lesioni” o “morte”, quali conseguenze finali del primo.

Entrambe le impostazioni mostrano di fare aggio sull'insegnamento della Cassazione a SS.UU. del 1980, vista supra, ma quella “estrinseca”, appare, invece, porsi chiaramente in contrasto con essa, giacché in nessuna parte di detta sentenza si accenna al fatto che il caso fortuito sarebbe sempre inoperante laddove l'agente versi, comunque, in una condotta, in sé e per sé, già colposa.

Del resto questo non sorprende, perché, seguendo il ragionamento con cui le SS.UU. esclusero la teoria “oggettiva” del caso fortuito, l'affermazione di cui sopra rende, almeno nei reati colposi, altrettanto pleonastico l'art. 45 c.p. – che, dunque, sarebbe sistematicamente irrazionale –, in quanto risulterebbe un duplicato dell'art. 42, comma 2, c.p., giacché, se non vi fosse colpa alcuna nella condotta dell'agente, il fatto non costituirebbe reato già solo per effetto di detta seconda norma; anzi ciò sarebbe ancor più vero per la teoria “soggettiva” che per quella “oggettiva”, giacché l'art. 41, comma 2, c.p., riguarda solo le cause sopravvenute da sole sufficienti a provocare l'evento, cosicché, l'art. 45 potrebbe valere ad escludere il nesso eziologico e la punibilità per le cause preesistenti, simultanee o sopravvenute non autosufficienti, laddove l'evento imprevisto ed imprevedibile e/o inevitabile apporti un contributo causale o concausale giudicabile come determinante o condeterminante e non imputabile al soggetto agente, perché da lui comprensibilmente ignorato o per lui, comunque, inevitabile, in quanto tale.

Di contro, le SS.UU. dell'80, pur sposando la teoria “soggettiva”, sembrano escludere decisamente l'idea che il caso fortuito sia incompatibile con una condotta di per sé stessa già colposa, allorquando scrivono di un fatto “materialmente e psicologicamente” comunque riferibile al soggetto agente, il quale non ne risponde proprio “per l'intervento del fattore causale imprevedibile”; adombrando così, pur senza dirlo esplicitamente, l'idea di una funzione dell'art. 45 c.p., correttiva ed edulcorativa del rigore (vagamente ispirato alla logica dell'occhio per occhio) degli articoli precedenti, specie l'art. 41 c.p., frutto della temperie politica e culturale propria degli anni genetici del codice penale.

In conclusione

Quest'ultima considerazione appare decisiva, giacché è proprio l'incomprensione della funzione sistemica e sistematica dell'art. 45 c.p., a generare gli eccessi rigoristici della teoria soggettiva e, complessivamente, la sostanziale disapplicazione pratica del caso fortuito nel nostro diritto vivente.

Invero, come detto, l'art. 45 c.p. appare concepito dal legislatore del '30 (preso tra la pregressa cultura liberale degli autori e le esigenze “securitarie” della contingenza politica) come una specie di “valvola di sicurezza” idonea a disinnescare le più estremistiche conseguenze degli articoli precedenti, potenzialmente capaci, specie l'art. 41 c.p., di generare quasi una specie di anomala responsabilità di posizione del soggetto agente, soprattutto nei reati colposi.

L'ineffabile indifferenza normativa circa le concause preesistenti o coeve e successive non autosufficienti, infatti, può trovare un argine nel fatto che, se una di esse sia costituita da un evento imprevedibile ed inevitabile con la diligenza, concretamente e ragionevolmente, esigibile dall'autore dell'azione principale, costui non venga penalizzato proprio perché l'evento finale, a cui anche lui ha concorso con una condotta in generale colposa, è, in realtà, più frutto o altrettanto frutto dell'evento rispetto al quale non ha né responsabilità né colpa.

Ne consegue che, tutto sommato, non è importante stabilire se il fortuito escluda il nesso eziologico o l'elemento psicologico, perché, in senso assoluto, non esclude né l'uno né l'altro, ma esclude che entrambi bastino per sanzionare il soggetto agente; occorre, invece, accertare se l'evento, che potrebbe rientrare nella definizione dell'art. 45 c.p., corrisponda effettivamente ad un caso fortuito, che, da dizionario, è un “evento indipendente dalla volontà e imprevedibile” o ancora una “causa estranea alla mente umana, cui si attribuisce il verificarsi di qualcosa, indipendentemente dalla volontà”, ossia, in altre parole, verificare, concretamente, che il fatto costituente il fortuito abbia, da un lato, concausato l'evento (senza attribuire alcuna importanza a che tale concausa sia preesistente, coeva o successiva alla condotta dell'agente) e, dall'altro, che la condotta e la coscienza dell'agente siano esenti da responsabilità eziologica e colpa, ma solo in stretta ed esclusiva relazione al fatto costituente il fortuito, nel senso di non averlo volontariamente causato, e che poco o nulla gli si possa rimproverare per non averlo previsto e/o evitato.

Come sempre, qualche esempio – partendo dal più lineare – potrà chiarire meglio il tutto: ove Tizio, con una condotta di guida imprudente, investa la vettura di Caio, il quale, cardiopatico grave, muore d'infarto per effetto dello spavento riportato (immediatamente o successivamente, non importa), essendo tale condizione di salute non provocata da Tizio, nonché imprevista ed imprevedibile e, in sé e per sé, inevitabile con qualsivoglia diligenza, costui dovrebbe essere considerato non punibile ricorrendo un caso fortuito, ossia la cardiopatia di Caio, benché abbia dato causa all'evento incidente con una condotta colposa, in quanto essa non investe direttamente il fatto costituente il fortuito, che rappresenta una concausa determinante che s'inserisce e condetermina l'evento morte, ma di cui nessun rimprovero penale può essere mosso a Tizio, solo per aver provocato l'evento prodromico, ossia l'incidente.

Allo stesso modo: ove Tizio, percorrendo una strada ad andatura superiore al limite consentito, perda il controllo della sua vettura a causa di una pietra che gli sfondi il parabrezza – in quanto, improvvisamente ed accidentalmente, scagliata da un macchinario che sta falciando l'erba nel prato adiacente alla strada –, e, così facendo, investa l'auto di Caio, uccidendolo o ferendolo gravemente, il primo, pur versando in colpa specifica, dovrebbe essere, per le stesse considerazioni di cui sopra, mandato assolto, a meno che non emerga chiaramente che le operazioni di sfalcio fossero state preventivamente ed adeguatamente segnalate agli automobilisti o che, in difetto del superamento del limite di velocità, l'auto sarebbe stata controllabile, anche dopo l'urto con il sasso.

Di contro, seguendo la teoria soggettiva “estrinseca”, versando comunque Tizio in colpa nella causazione dell'incidente, il fortuito deve essere considerato, in ogni caso, non operante ed egli dovrà essere punito.

Non è chi non veda, però, come ciò costituisca una interpretatio abrogans dell'art. 45 c.p., in quanto lo rende del tutto superfluo nell'ordinamento, giacché se a Tizio non fosse rimproverabile nemmeno una condotta colposa in relazione alla causazione dell'incidente, il fatto non costituirebbe reato già in forza dell'art. 42, comma 2, c.p., che vieta la punizione in assenza assoluta di dolo, preterintenzione o colpa.

Resta da dire, infine, che sorprende ed inquieta la miope interpretazione e l'inesistente utilizzo che la giurisdizione fa dell'art. 45 c.p., norma, verosimilmente, concepita dal medesimo legislatore del “ventennio” per temperare il suo stesso rigorismo e che la giurisdizione successiva ha finito, di fatto, per annullare, contribuendo così ad estremizzare la peggior impronta punitiva del codice penale frutto del passato regime ed ancora operante nel nostro ordinamento.

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