Interesse e vantaggio dell'ente e discrezionalità del Pubblico ministero

Ferdinando Brizzi
17 Marzo 2020

Interesse e vantaggio dell'ente ex art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001, quali risultanti dall'elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di reati colposi, possono assurgere “al rango” di reimpiego di proventi illeciti ex art. 24 d.lgs. 159/2011?
Introduzione

Interesse e vantaggio dell'ente ex art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001, quali risultanti dall'elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di reati colposi, possono assurgere “al rango” di reimpiego di proventi illeciti ex art. 24 d.lgs. 159/2011?La domanda potrebbe suonare come una sterile riflessione volta a ribadire ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali o altrettanto “solide” posizioni dottrinali. Tuttavia lo sforzo che questo contributo si propone è volto ad “andare oltre”, presentando un approfondimento sulla natura, discrezionale (o meno), dell'azione discendente dalla responsabilità amministrativa dell'ente. La proposta esegetica è indirizzata a comparare quest'ultima con l'azione di prevenzione, che può essere definita “analoga”: invero, ciò che le accomuna è la mancanza di riconoscimento costituzionale. Punto di partenza è dunque l'analisi dei concetti di “interesse” e “vantaggio”, di matrice “pretoria”, ed il loro raffronto con i presupposti della cd. pericolosità generica in ambito di prevenzione. Ne può, in teoria, discendere l'ennesima duplicazione di procedimenti, e “responsabilità”, che affondano su presupposti pressoché identici. Ma proprio quella natura discrezionale delle due azioni, come ormai espressamente “rivendicata”, dai titolari del loro promovimento, i Pubblici ministeri, ne può far discendere conseguenze fin qui impensabili, almeno per quanto concerne i reati colposi, per la maggiore facilità di accertamento in sede di prevenzione rispetto all'azione ex d.lgs. n. 231 del 2001.

Interesse e vantaggio nel “sistema 231”

Secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale,il sistema normativo introdotto dal d.lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un "tertium genus" di responsabilità, ritenuto compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza.

Tale sistema prende le mosse dalla previsione dell'art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001 che rimanda alle nozioni di “interesse” e vantaggio” per l'ente: in tal senso, imprescindibile punto di partenza per la loro individuazione è la nota pronunzia a Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261114-01 e 261115-01, secondo cui «In tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del d.lgs. 231 del 2001 all'"interesse o al vantaggio", sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile "ex ante", cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile "ex post", sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito» e «In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001 all'"interesse o al vantaggio", devono essere riferiti alla condotta e non all'evento».

"Interesse" e "vantaggio", dunque, non costituiscono un'endiadi: sono concetti giuridicamente diversi e si può ipotizzare un “interesse” prefigurato come discendente da un indebito arricchimento e magari non realizzato e, invece, un “vantaggioobiettivamente conseguito tramite la commissione di un reato: «astrattamente [...] il reato può essere commesso nell'interesse dell'ente, senza procurargli in concreto alcun vantaggio. Con l'ulteriore precisazione che il concetto di "interesse" attiene ad una valutazione ex ante rispetto alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di "vantaggio" implica l'effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato, e, dunque, si basa su una valutazione ex post».

I termini "interesse" e "vantaggio" possono essere, allora, alternativi: ciò emerge dall'uso della congiunzione "o" da parte del legislatore nella formulazione della norma in questione e, da un punto di vista sistematico, dalla norma di cui all'art. 12, che, al comma 1 lett. a), prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l'autore ha commesso il reato nell'“interesse” proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato “vantaggio” o ne ha ricavato un “vantaggio” minimo, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell'“interesse” dell'ente, ma non procurargli in concreto alcun “vantaggio” (Cass. pen., Sez. IV, 48779/2019).

Nei reati colposi d'evento, il finalismo della condotta prevista dall'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 è stato ritenuto compatibile con la non volontarietà dell'evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest'ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all'“interesse” dell'ente o sia stata finalizzata all'ottenimento di un “vantaggio” per l'ente medesimo.

Sulla scia della richiamata pronunzia del massimo Consesso, si è ulteriormente puntualizzato da parte delle Sezioni semplici che «[...] il requisito dell' "interesse" dell'ente ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un'utilità alla persona giuridica; ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa: pur non volendo (quale opzione dolosa) il verificarsi dell'infortunio in danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre, invece, il requisito del "vantaggio" per l'ente quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, anche in questo caso, ovviamente, non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionali e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto» (così, efficacemente, Cass. pen., Sez. IV, n. 31210 del 19/05/2016, Merlino ed altro, non mass, cit., Sub n. 10.1. del "considerato in diritto").

Ancora: «In tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, da riferire entrambi alla condotta del soggetto agente e non all'evento, ricorrono, rispettivamente, il primo, quando l'autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l'ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, e, il secondo, qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso» e «In tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione riferiti all' interesse e al vantaggio sono giuridicamente distinti giacché, mentre il primo è criterio soggettivo, da valutare "ex ante", e consistente nella proiezione finalistica volta a far conseguire all'ente un profitto indipendentemente dall'effettiva realizzazione dello stesso, il secondo è criterio oggettivo, accettabile "ex post" e consistente nel concreto vantaggio derivato all'ente dal reato» (Cass. pen., Sez. IV, n. 38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda s.c.a., Rv. 274320-01 e Rv. 274320-02).

Con specifico riferimento ai reati colposi d'evento, si è ritenuto da parte della S.C. che «il finalismo della condotta prevista dall'art. 5 d. lgvo n. 231/2001 è compatibile con la non volontarietà dell'evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest'ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all'interesse dell'ente o sia stata finalizzata all'ottenimento di un vantaggio per l'ente medesimo. Ricorre il requisito dell'interesse quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa; pur non volendo il verificarsi dell'infortunio a danno de/lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre il requisito del vantaggio quando la persona fisica, agendo per conto dell'ente, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza de/lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; il criterio del vantaggio, così inteso, appare indubbiamente quello più idoneo a fungere da collegamento tra l'ente e l'illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi. Occorre, perciò, accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l'infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio» (così Cass. pen., Sez. IV, n. 16713 del 13/09/2017, dep. 2018, Sossio ed altri, non mass., in motivazione, sub n. 5 del "considerato in diritto").

I giudici di legittimità muovono dalla considerazione secondo cui una lettura delle norme imperniata sull'incompatibilità logica tra necessaria sussistenza dei requisiti dell'“interesse” o del “vantaggio”, da una parte, e natura colposa del reato-presupposto, dall'altro, si risolverebbe in una interpretatio abrogans delle norme che hanno introdotto, nel catalogo dei reati-presupposto, illeciti che, come quello in oggetto, appaiono contraddistinti dalla natura di reati colposi di mera condotta; da tale ultima circostanza apparirebbe evidente come il legislatore abbia inteso configurare anche i reati colposi quali titoli di addebito della conseguente responsabilità amministrativa, a ciò, dunque, conseguendo l'obbligo, per l'interprete, di adattare agli stessi i criteri di imputazione dell'interesse e del vantaggio di cui all'art. 5 cit. (Cass. pen., Sez. III, n. 3157//2019).

In altri termini, dunque, secondo la Corte di cassazione, sarebbe proprio la necessaria presa d'atto della sussistenza, tra i reati-presupposto, di fattispecie colpose, ad impedire che una problematica adattabilità alle stesse del concetto di commissione nell'“interesse” e a “vantaggio” dell'ente possa giungere ad escludere ciò che il legislatore ha invece inteso introdurre, ovvero appunto una responsabilità amministrativa della persona giuridica discendente dalla commissione di reati anche solo colposi.

Tale impostazione rispecchia il consolidato orientamento giurisprudenziale affermatosi a partire da Cass. pen., Sezioni Unite, sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261112-261115: una volta escluso che la nuova estensiva disciplina, positivizzata dapprima nell'art. 25-septies e, successivamente, nell'art. 25-undecies del d.lgs. n. 231 del 2001, possa essere ritenuta inapplicabile posto che, così ragionando, si perverrebbe alla «radicale caducazione di un'innovazione normativa di grande rilievo», ha precisato che «il problema prospettato deve essere [...] risolto nella sede propria, che è quella interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l'interpretazione letterale della norma, accredita senza difficoltà l'unica alternativa, possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d'evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all'esito antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell'interesse dell'ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. (...) L'adeguamento riguarda solo l'oggetto della valutazione che coglie non più l'evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell'ordinamento penale. Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente».

Ed anche successivamente si è ribadito, con riferimento ai reati colposi in materia di sicurezza sul lavoro, che i concetti di “interesse” e “vantaggio” vanno riferiti alla condotta e non all'esito antigiuridico: indubbiamente, non rispondono all'interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l'ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l'infortunio sul lavoro. In tal senso si veda Cass. pen., Sez. IV, n. 24697 del 20/04/2016, Mazzotti e altro, Rv. 268066, che passando a calare nel concreto i richiamati principi, ha ritenuto che «in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dal reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, sussiste l'interesse dell'ente nel caso in cui l'omessa predisposizione dei sistemi di sicurezza determini un risparmio di spesa, mentre si configura il requisito del vantaggio qualora la mancata osservanza della normativa cautelare consenta un aumento della produttività». In altra sentenza si è specificato che «In tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il "risparmio" in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell'ente in un caso in cui, sebbene i lavoratori fossero stati correttamente formati e i presidi collettivi ed individuali fossero presenti e conformi alla normativa di riferimento, le lavorazioni in concreto si svolgevano senza prevedere l'applicazione ed il controllo dell'utilizzo degli strumenti in dotazione, al fine di ottenere una riduzione dei tempi di lavoro(Cass. pen., Sez. IV, n. 16598 del 24/01/2019, Tecchio, Rv. 275570-01).

Fonti di risparmio di spesa che possono costituire il presupposto per l'applicazione dell'art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2001, per esemplificare ulteriormente, sono anche il risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e di informazione del personale (come ritenuto da Cass. pen., Sez. IV, n. 18073 del 19/02/2015, Bartoloni ed altri, non mass., in motivazione, sub punto n. 8 del "considerato in diritto", ovvero la velocizzazione degli interventi di manutenzione ed il risparmio sul materiale di scarto, come ritenuto da Cass., Sez. 4, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni ed altri, non mass., nella parte motiva, sub n. 9.2. del " considerato in diritto". Da ultimo, Cass. pen., Sez. IV, n. 43656/2019).

Con riferimento specifico ai reati in materia di sicurezza sul lavoro, la nozione di interesse/vantaggio è stata declinata, nella prospettiva patrimoniale dell'ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all'aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale, precisandosi che nei reati colposi l'interesse/vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l'ente dovrebbe sostenere per l'adozione delle misure precauzionali ovvero nell'agevolazione, sub specie, dell'aumento di produttività che ne può derivare sempre per l'ente dallo sveltimento dell'attività lavorativa "favorita" dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe "rallentato" quantomeno nei tempi (Cass. pen., Sez. V, n. 31003 del 23/06/2015, Cioffi e Italnastri S.p.a, non mass ).

Tali principi sono stati trasposti anche ai reati ambientali di natura colposa, introdotti, per il tramite dell'art. 25-undecies cit., nell'elenco dei reati presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente e, specificamente, al reato già previsto dall'art. 137 del d.lgs. n. 152 del 2006 e, oggi, dall'art. 452-quaterdecies c.p.

Anche con riguardo ad esso, infatti, a maggior ragione trattandosi di reato di mera condotta, l'interesse e il vantaggio vanno individuati sia nel risparmio economico per l'ente determinato dalla mancata adozione di impianti o dispositivi idonei a prevenire il superamento dei limiti tabellari, sia nell'eliminazione di tempi morti cui la predisposizione e manutenzione di detti impianti avrebbe dovuto dare luogo, con economizzazione complessiva dell'attività produttiva. A tal riguardo è stato ribadito che il "risparmio" in favore dell'impresa, nel quale si concretizzano i criteri di imputazione oggettiva rappresentati dall'interesse e dal vantaggio, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione (Cass. pen., Sez. IV, n. 16598 del 24/01/2019, Tecchio, Rv. 275570).

La “pericolosità generica” dell'imprenditore in tema di reati colposi

Questa, volutamente, ripetitiva enunciazione di principi giurisprudenziali vuole dimostrare come sia stato proprio l'ambito della responsabilità penale colposa, in particolare per violazione delle norme antinfortunistiche ed ambientali, ad avere sollecitato l'azione volta ad accertate la responsabilità amministrativa dell'ente.

Ed in questa sede si è dovuto assistere all'anomala metamorfosi di condotte marcatamente volontarie quali risparmio di spesa per l'ente, sistematica violazione delle norme antinfortunistiche, massimizzazione della produzione, mancata osservanza della normativa cautelare per conseguirne un aumento della produttività, riduzione dei tempi di lavorazione, in condotte colpose. È inevitabile che il richiamato collegamento tra ente e illecito commesso dai suoi organi apicali ovvero dai dipendenti sottoposti alla direzione o vigilanza dei primi ne evochi l'intenzionalità.

Se la precedente è una questione apparentemente solo formale, sostanziali si palesano, invece, le conseguenze che ne possono derivare: laddove nel procedimento per l'accertamento della responsabilità amministrativa dell'ente collegata a reati colposi questa venga ritenuta, anche solo in primo grado, secondo i parametri sopra esposti, tale valutazione si dimostra suscettibile di ulteriori ricadute anche in altri ambiti.

Il pensiero corre alle misure di prevenzione, con riferimento, in particolare, alla c.d. pericolosità generica.

L'art. 1 lettera b) del d.lgs.159/2011, riguarda infatti, l'applicabilità delle misure di prevenzione personali nei confronti di coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose.

Posto che, come sopra ricordato, il vantaggio per l'ente discendente dalla commissione del fatto sussiste qualora l'autore del reato abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, anche indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso, ne discende che risparmio di spesa e massimizzazione della produzione necessariamente vadano a beneficiare il soggetto esponenziale, il datore di lavoro: in questo caso, nei suoi confronti, potrebbe così formularsi il giudizio di pericolosità generica quale risultante da Corte cost., sentenza 24/2019.

In quell'occasione il giudice delle leggi ha ritenuto che la locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche categorie di reato.

Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono suscettibili di trovare concretizzazione in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale deve dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di:

a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto,

b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui,

c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l'unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.

Tale interpretazione della fattispecie, per i giudici costituzionali, permette di ritenere soddisfatta l'esigenza, sulla quale ha da ultimo insistito la Corte europea, di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura (Sentenza Edu, Grande Camera, del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, ma sulla quale aveva già richiamato l'attenzione la sentenza n. 177 del 1980 della stessa Corte costituzionale).

Così risulterebbe oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell'art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell'art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” – oltre che in quali “modi” – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.

Concludono pertanto i giudici costituzionali, «ai fini dell'applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà naturalmente aggiungersi la valutazione dell'effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell'art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011».

Ma tali considerazioni si arricchiscono di contenuti patrimoniali: «quanto, invece, alle misure patrimoniali del sequestro e della confisca, i requisiti poc'anzi enucleati dovranno essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l'illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare. Dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, la necessità della correlazione temporale in parola «discende dall'apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Cass. pen., Sez. Unite, 26 giugno 2014, n. 4880), l'ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s'intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare.

Se si pensa alle specifiche “categorie” di delitto individuate dal giudice delle leggi, e queste vengano poste in comparazione con i presupposti legittimanti la responsabilità giuridica dell'ente, non può escludersi che il riconoscimento, anche solo in primo grado, della responsabilità dell'ente possa poi essere trasposta in sede di prevenzione per giungere ad applicazioni della normativa antimafia fin qui ritenute impensabili.

Alla nota autonomia dell'azione di prevenzione rispetto a quella penale si verrebbe a sommare quella dell'azione ex d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Basti solo pensare che, in tema di responsabilità da reato degli enti, l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall'art. 8, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale (Cfr. Cass. pen., Sez. IV, n. 38363 del 09/08/2018 Rv. 274320 – 03).

Ed ancora, in tema di responsabilità amministrativa degli enti per l'illecito di cui all'art. 24 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non sussiste violazione del principio del "ne bis in idem" nel caso in cui l'ente venga condannato, in sede penale, alle relative sanzioni amministrative con contestuale confisca per equivalente dei suoi beni in misura pari al profitto conseguito e, in sede contabile, al risarcimento del danno erariale, in quanto tali provvedimenti, pur avendo carattere sanzionatorio, perseguono differenti finalità (Cass. pen., Sez. I, n. 39874/2018: in motivazione la Corte ha precisato che mentre la confisca viene imposta nell'interesse collettivo e con funzione socialpreventiva, la condanna al risarcimento del danno persegue l'effetto di reintegrare il patrimonio dell'ente pubblico, depauperato dalla condotta criminosa accertata in sede penale). Si tratta di principio ben noto nel “vicino” procedimento di prevenzione.

Da ciò discende che, laddove in sede di accertamento della responsabilità amministrativa dell'ente venisse ritenuto che questo abbia tratto un vantaggio discendente dalla sistematica violazione delle norme antinfortunistiche, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, l'organo dell'Accusa ben potrebbe ritenersi legittimato a promuovere l'azione di prevenzione, non solo personale, ma anche patrimoniale nei confronti del legale rappresentante dell'ente.

L'art. 1 lettera b) del d.lgs.159/2011, infatti, fa riferimento ai proventi di attività delittuose: non importa dunque se esse siano dolose o colpose, dovendosi escludere dal campo di applicazione della normativa di prevenzione le sole condotte contravvenzionali.

Ma deve aggiungersi che, ex art. 24 d.lgs. 159/2011, la confisca cd. antimafia può essere disposta non solo in caso di sproporzione, ma anche laddove si tratti di beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

In presenza di delitti, siano essi dolosi o colposi, commessi “abitualmente” (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, in grado di generare effettivamente profitti in capo a costui, laddove costituiscano, o abbiano costituito in una determinata epoca, l'unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito, pare doverosa la formulazione di un giudizio di “reimpiego”. Tanto più laddove, dalla sistematica violazione delle norme antinfortunistiche ne sia derivata un oggettivo vantaggio per l'ente, e dunque, per il soggetto esponenziale, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione.

Verrebbe da pensare a una sorta di “contrappasso”: l'imprenditore che abbia omesso di adottare le misure di prevenzione antinfortunistiche, poi, può essere sottoposto a misure di prevenzione, ma questa volta antimafia.

Riflessioni in tema di discrezionalità delle azioni diverse da quella penale

Una simile opzione interpretativa sia della normativa di prevenzione sia di quella della responsabilità amministrativa degli enti può essere ricondotta a quella che oggi viene efficacemente definita come “pan-penalizzazione”.

La riflessione allora deve necessariamente essere trasposta ai criteri che devono guidare l'esercizio di tali azioni.

Un contemporaneo “maestro del diritto” ha osservato che il principio costituzionale per cui “il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale” deve essere difeso con intelligenza. Va inteso realisticamente che il pubblico ministero non possa decidere di esercitare l'azione penale in modo arbitrario o influenzato da altri poteri: “L'azione penale è pubblica e il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere o ritardare l'esercizio per ragioni di convenienza”. Così recitava l'articolo 8 della relazione redatta da Piero Calamandrei per la II sottocommissione (sul potere giudiziario) della Commissione per la Costituzione. Una definizione molto meno rigida di quella che verrà consacrata nell'art. 112: “il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale”.

L'art. 112 esprime, innanzitutto, il dovere, gravante sul Pubblico Ministero, di non interpolare, nell'adempimento del suo ufficio, valutazioni di opportunità in ordine all'esercizio dell'azione penale. A fronte di una notizia di reato, ove sussistano gli elementi oggettivi e soggettivi che costituiscono la figura di reato e l'imputazione ad un soggetto come responsabile del fatto, il Pubblico Ministero è tenuto ad investire il giudice competente della domanda punitiva, senza potervi liberamente rinunciare, se non quando ritenga di non poter sostenere l'accusa in giudizio e se l'insostenibilità processuale della tesi accusatoria non dipenda da inerzie e inadempienze nello svolgimento delle indagini preliminari.

A questo iniziale dovere di esercitare l'azione penale in senso proprio, come attività processuale finalizzata ad investire un giudice di una domanda, in un sistema, come il nostro, che demanda al Pubblico Ministero anche la funzione di ricercare le notizie di reato – soluzione, peraltro, costituzionalmente non necessaria – si innesta, come ulteriore conseguenza, quella di attivarsi anche a tal fine, allorché si presenti una notizia di reato qualificata dalla presentazione di una denuncia o querela, ovvero, se diversamente appresa, quando non sia manifestamente infondata.

Secondo un orientamento ormai consolidato, il principio espresso nell'art. 112 Cost. assume un triplice significato: non solo di garantire l'indipendenza funzionale del Pubblico Ministero da ogni altro Potere, ed in particolare dall'Esecutivo; e di escludere che il Pubblico Ministero possa decidere discrezionalmente se investire il giudice della notizia di reato; ma, anche, di necessariamente prevedere strumenti di controllo affinché egli stesso non si sottragga all'obbligo impostogli.

In tale prospettiva, è rimessa, evidentemente, al legislatore ordinario, l'apprestamento di adeguati strumenti di controllo, interni agli uffici del Pubblico Ministero, attraverso il conferimento di poteri avocatori in favore del capo dell'ufficio ovvero del procuratore generale, ed esterni, con controlli giurisdizionali anche penetranti sulle decisioni delle procure e con il riconoscimento alla polizia giudiziaria di una competenza istituzionale nella ricerca delle notizie di reato e del potere di svolgere indagini parallele a quelle intraprese dalle procure.

La disposizione in commento vorrebbe, altresì, svolgere il ruolo di garanzia di legalità e di eguaglianza (Corte cost., 84/1979 e Corte cost., 88/1991), garantendo l'indiscriminata applicazione della legge penale nei confronti di tutti.

Ma, il carico di lavoro e le strutture insufficienti o, comunque, inadeguate impongono al Pubblico Ministero di selezionare, secondo criteri inevitabilmente personali e, dunque, arbitrari, le notitiae criminis da trattare e quelle da relegare nel limbo della prescrizione ovvero dell'archiviazione per pseudo-infondatezza della notizia di reato. Nel descritto stato di fatto, il controllo giurisdizionale sulle richieste di archiviazione si mostra efficace solo in relazione al caso limite della inerzia totale del Pubblico Ministero di fronte ad una notizia di reato qualificata e già di per sé sostenuta da elementi di fondatezza, mentre appare del tutto inefficace rispetto all'ipotesi di indagini inadeguate o fittizie.

Se ciò avviene nel “presidiato” ambito penalistico, a maggior ragione si verifica per queste nuove forme di responsabilità, quella di prevenzione e quella conseguente a responsabilità amministrativa degli enti, per le quali è assente ogni forma di riconoscimento costituzionale in termini di obbligatorietà o meno della relativa azione.

Il potere di autoarchiviazione del Pubblico Ministero in sede di prevenzione

Il pensiero espresso da Calamandrei, e ribadito dalla successiva dottrina costituzionalisitica, appare contrastante con la prassi invalsa presso le Procure dell'“autoarchiviazione” dei procedimenti di prevenzione: si può leggere in questi provvedimenti che, l'esame delle disposizioni vigenti consente di affermare che è attribuito allo stesso pubblico ministero il potere di archiviazione del procedimento qualora non vi siano elementi per avanzare al Tribunale la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale e/o patrimoniale (per tutti, cfr. Procura della Repubblica Lanciano, Decreto 15 maggio 2013, est. Menditto).

In tale prospettiva non sarebbe ipotizzabile l'obbligatorietà dell'azione di prevenzione, essendo il giudizio fondato sulla pericolosità della persona e non sulla commissione di un fatto reato. Ancora, la particolarità della materia della prevenzione mal si presterebbe a rigide applicazioni in presenza di fattispecie di pericolosità per loro natura non tipizzabili con precisione, diversamente dalla fattispecie di reato.

Tali affermazioni mal si conciliano con i principi enunciati dalla sentenza Edu, Grande Camera, del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, ma ancor più inquieta l'affermazione secondo cui non assume rilievo la mancanza di controlli per l'attività dell'organo proponente, potendo operare i sistemi di controllo interni delle singole Autorità. Nel silenzio del legislatore, non è dato comprendere quali siano i meccanismi di controllo interni alle “singole autorità”. Per essere credibile tale affermazione occorrerebbe che l'autoarchiviazione, quanto meno, venisse comunicata al Procuratore Generale: non si ha notizia di virtuose prassi in tal senso.

La verità è che questo “istituto” (sic) è sottratto a qualsiasi controllo.

E ciò significa il disconoscimento della più autorevole dottrina costituzionale sopra riportata, dove, con riferimento all'esercizio dell'azione penale, si dice che spetta al legislatore, e non certo all'organo dell'Accusa, l'apprestamento di adeguati strumenti di controllo, interni agli uffici del Pubblico Ministero, attraverso il conferimento di poteri avocatori in favore del capo dell'ufficio ovvero del procuratore generale, ed esterni, con controlli giurisdizionali anche penetranti sulle decisioni delle procure e con il riconoscimento alla polizia giudiziaria di una competenza istituzionale nella ricerca delle notizie di reato e del potere di svolgere indagini parallele a quelle intraprese dalle procure.

Non a caso la più attenta, e recente, dottrina ritiene che la proposta di una misura di prevenzione corrisponde all'esercizio dell'azione penale nel processo penale di cognizione e, come quella, è da ritenersi obbligatoria per garantire l'uguaglianza dei cittadini e l'indipendenza del pubblico ministero, mentre la sua discrezionalità urta con il principio dell'obbligatorietà dell'azione di prevenzione, imposto dall'art. 112 Cost.. Secondo tale apprezzabile linea interpretativa, pur non essendo previsto, si deve ritenere che il P.M., che al termine delle indagini reputi gli elementi acquisiti non idonei a sostenere la proposta in giudizio, debba richiedere al tribunale della prevenzione l'archiviazione della notitia periculi. In tale prospettiva, anche l'azione di prevenzione è ritenuta obbligatoria: quindi deve esservi un controllo giurisdizionale sul mancato esercizio di tale obbligo. In virtu del rinvio che l'art. 7, comma 9, c.l.a. opera alle disposizioni dell'art. 666 c.p.p., ‘‘in quanto compatibili'', il presidente del collegio, sentito il P.M. (ma dovrebbe essere sentito anche il difensore, giacche´ la mancanza di contraddittorio, dovuta all'omessa audizione del difensore, viola l'art. 24, comma 2, Cost.), può dichiarare, con decreto motivato, l'inammissibilità della richiesta quando la stessa appare manifestamente infondata “per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi”.

Il vaglio giurisdizionale, per altro, risulta tanto più indispensabile anche perché nella maggior parte dei casi “ribalta” le valutazioni compiute dagli Organi proponenti: a fronte di 80.367 beni sequestrati e confiscati, ben 55.552 sono i beni dissequestrati. Questo dato, ad avviso di chi scrive, testimonia il fallimento dell'azione di prevenzione, nonostante le ricorrenti “celebrazioni” che ne vengono fatte.

Uno stato di diritto non può tollerare un simile scostamento tra esercizio dell'azione ablativa e risultati effettivi, soprattutto laddove si pensi alle drammatiche conseguenze in termini di prosecuzione dell'attività d'impresa sottoposta a provvedimento ablativo.

La natura discrezionale dell'azione di responsabilità amministrativa degli enti

A conclusioni non dissimili si giunge quanto all'azione di responsabilità amministrativa degli enti, anch'essa ritenuta discrezionale.

Un'attenta ricerca, condotta su scala nazionale, ha confrontato il movimento dei procedimenti penali con autore noto rilevati presso gli uffici giudicanti e requirenti (Dato nazionale degli anni giudiziari 2014/2015, commentato nella nota di sintesi alla Relazione del Ministro della Giustizia sull'amministrazione della giustizia per l'anno 2016 compilata il 18 gennaio 2017 dal Gabinetto del Ministro per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2017), e i dati relativi a procedimenti iscritti e definiti nei tribunali italiani (Sezioni G.i.p./G.u.p. e dibattimento) negli anni 2014/2015 inerenti la responsabilità di enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato resi disponibili dalla Direzione Generale di Statistica e Analisi Organizzativa (DG-Stat) presso il Ministero della Giustizia.

Lo scenario emerso, pure con inevitabili approssimazioni, è il seguente: in fase di indagini e udienza preliminare, a fronte di 887.098 procedimenti iscritti e 889.610 procedimenti definiti a carico di autore noto si rilevano 900 procedimenti annotati e 713 procedimenti definiti nei confronti di persone giuridiche; in fase dibattimentale, a fronte di 369.068 procedimenti iscritti e 341.925 procedimenti definiti a carico di autore noto risultano 772 procedimenti annotati e 522 procedimenti definiti nei confronti di società.

A livello locale sono stati esaminati i Bilanci di responsabilità sociale dal 2011/2012 al 2016 pubblicati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano (Ufficio tra i più attivi nell'applicazione del d.lgs. 231/2001), con il seguente risultato.

Dopo l'entusiasmo iniziale (tra il 2002 ed il 2012 sono state iscritte a Milano, ai sensi del d.lgs. 231/2001, ben 404 società, in gran parte per procedimenti del I dipartimento (sia per reati presupposti derivanti dalle materie del dipartimento sia per la commissione di reati contro la P.A. individuati a seguito di indagini societarie, frodi fiscali o per riciclaggio). Si può ben dire che, considerato l'incomparabile numero di società iscritte, è' stata l'attività della Procura e del Tribunale a ad avviare e costruire in Italia l'applicazione della 231), si registra una contrazione nell'attuazione del d.lgs. 231/2001. Nel 2012/2013 «si conferma un trend, seppur leggermente discendente, di circa 20 iscrizioni di fascicoli l'anno per responsabilità delle imprese ex d.lgs. 231/2001. Il numero appare molto inferiore a quello dei cd reati ‘presupposti'». «Nei primi dieci mesi del 2014 si sono avute 31 iscrizioni di società rispetto alle 20 iscrizioni nello stesso periodo del 2013. Il numero è comunque molto inferiore a quello delle iscrizioni a mod. 21 (registro Noti) dei reati ‘presupposti'». Nel 2014/2015 «in tutta la Procura risultano [...] 33 nuove iscrizioni, mentre nel I° dipartimento sole 8 iscrizioni, a fronte di n. 78 procedimenti per reati presupposti della 231. È di tutta evidenza la gravità e la conseguente preoccupazione che deriva dall'aumento dello spread tra reati presupposti ed iscrizioni che in alcuni casi sfiora il 90%. Poiché la Procura di Milano è stata da sempre all'avanguardia nell'applicazione/implementazione della 231, questi dati indicano il concreto rischio di un declino dell'istituto che, invece, doveva rivoluzionare e contraddistinguere il rapporto tra giurisdizione ed economia.

Occorre interrogarsi su questo trend negativo dell'applicazione della responsabilità della persona giuridica dovuto a plurimi fattori quali la difficoltà nel suo accertamento, l'aumento dei soggetti processuali in procedimenti già di per sé complessi, l'aumento dei tempi processuali che genera nei procedimenti a rischio di prescrizione ed altro (nel 2015 sono state iscritte 38 persone giuridiche ai sensi del d.lgs. 231/2001. Nel 2016, risultano 46 iscrizioni di persone giuridiche (+ 17% rispetto al 2015). L'aumento deriva essenzialmente da una maggiore sensibilità nell'applicazione della legge sulla responsabilità degli enti. Permane peraltro ancora elevato lo spread tra i reati presupposti e le iscrizioni che si è attestato nel 2016 all'85%).

La causa del decremento è individuata dalla Procura della Repubblica di Milano stessa e così ripetutamente declinata: «Questa situazione deriva, in primo luogo, dalla scelta operata da molti PM di ritenere discrezionale l'iscrizione della persona giuridica»; «Questa situazione deriva, in primo luogo, dall'interpretazione, nel senso della discrezionalità dell'iscrizione della persona giuridica»; «La ragione di fondo è che l'iscrizione della persona giuridica è ritenuta ancora una valutazione discrezionale anche se, ad esempio nel caso di responsabilità degli apicali, dovrebbe essere effettuata di default».

In dottrina si è rilevato che esistono, dunque, evidenti profili di discrezionalità nel momento in cui si delinea l'alternativa tra azione e inazione, che oltretutto sono in qualche misura agevolati dal fatto che i provvedimenti di archiviazione non sono resi noti: non è dato, dunque, sapere in quanti casi l'inquirente abbia archiviato i procedimenti agli enti e sulla scorta di quali presupposti. Il momento in cui più marcati appaiono i profili di discrezionalità dell'agire del pubblico ministero è rappresentato dall'annotazione dell'illecito amministrativo: l'assenza di controlli su tale adempimento, che pure sarebbe un atto dovuto in base alla lettera dell'art. 55, lo rende di fatto non verificabile, complice anche la complessità degli elementi costitutivi dell'illecito amministrativo, portandolo a coprire valutazioni di opportunità, da parte del titolare dell'azione, sulla configurabilità stessa della responsabilità della persona giuridica per un fatto astrattamente perseguibile.

In conclusione

Appare di notevole interesse il rilievo sopra esposto: la difficoltà nell'accertamento dell'azione da responsabilità dell'ente costituisce, nei pubblici ministeri, un motivo per rafforzarne l'idea della discrezionalità, ovvero ciò proprio ciò che Calamandrei voleva scongiurare… senza poterne sospendere o ritardare l'esercizio per ragioni di convenienza... Quale maggiore “convenienza” può esservi rispetto a quella di non operare “data la complessità dell'accertamento”?

Ma ne discende un'ulteriore riflessione: i dati sopra esposti, pur testimoniando una debacle di entrambe le azioni ritenute discrezionali dai Pubblici Ministeri, quella per responsabilità amministrativa dell'ente e quella di prevenzione, tuttavia dimostrano come quest'ultima venga prediletta proprio per la maggiore facilità di esercizio.

Eppure molte sarebbero le ragioni a favore di un'opzione “responsabile” da parte del Pubblico ministero per il solo esercizio dell'azione per la responsabilità amministrativa dell'ente.

Il sistema di prevenzione nasce infatti ab origine come sistema marcatamente repressivo, “antimafia” viene appunto definito: solo quella che è stata intelligentemente definita quale “truffa delle etichette”, lo può attrarre in un non meglio definito “sistema di prevenzione” del tutto avulso da quello penale. Solo recentemente, nel 2017, tale sistema si è venuto affrancando, quanto meno in parte, da tale matrice, attraverso il rafforzamento dell'amministrazione giudiziaria e l'introduzione, rectius riformulazione, del controllo giudiziario. In tal modo il giudice della prevenzione non dispone più di un'unica alternativa, confisca o restituzione, ma può optare per vie che consentono all'ente di emendarsi dalle deviazioni criminali.

Viceversa, la responsabilità amministrativa dell'ente nasce come strumento volto a consentirne l'emenda: il collegamento dell'efficacia esimente o riparatoria a un assetto organizzativo adeguato ha segnato un vero e proprio passaggio culturale nell'operare delle imprese.

Il decreto 231/2001 ha anticipato e ispirato un approccio al governo dell'impresa basato sull'identificazione dei rischi, orientando la gestione aziendale verso scelte compatibili con i profili di rischio individuati.

Da ultimo, la stessa legge Anticorruzione (legge 9 gennaio 2019, n.3, pubblicata in G.U. 16 gennaio 2019, n. 13) recentemente approvata, la cd. spazzacorrotti, – pur avendo significativamente inasprito le sanzioni interdittive per i reati contro la pubblica amministrazione commessi nell'interesse o vantaggio dell'impresa – ha introdotto il beneficio della riduzione delle sanzioni interdittive (Per un termine compreso tra 3 mesi e 2 anni ) nel caso in cui l'ente: i) si sia adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite; ii) abbia eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Questa disposizione, seppur prevista esclusivamente in relazione ad alcuni specifici reati, valorizza per la prima volta all'interno del decreto 231 la buona condotta processuale, finalizzata a istaurare un rapporto di collaborazione con l'autorità inquirente per assicurare la ricostruzione veritiera e corretta dei fatti e l'individuazione dei responsabili, ferma restando la necessità di dar luogo altresì a una riorganizzazione dell'ente.

Eppure, proprio il tourbillon di norme “repressive” che hanno riguardato i reati contro la Pubblica Amministrazione hanno determinato un risultato paradossale: ora che le misure di prevenzione personali e patrimoniali risultano espressamente estese anche al delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e ai reati contro la pubblica amministrazione commessi in forma associativa (art. 1, comma 1, lett. d) legge 17 ottobre 2017, n. 161 che ha modificato l'art. 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), il pubblico ministero ha la possibilità, a fronte di un reato presupposto che rientri tra quelli per cui è ammessa la responsabilità delle persone giuridiche e tra le ipotesi per le quali possono essere adottate le misure di prevenzione, di ottenere che l'ente subisca comunque – di fatto – una sanzione, evitando di dover instaurare un processo penale ex d.lg. n. 231 del 2001. In tal modo, data la sovrapposizione tra le categorie di reato per le quali si possono disporre le misure di prevenzione e alcuni di quelli che costituiscono il presupposto per la responsabilità ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, vi è il rischio che la più rigorosa disciplina prevista per l'applicazione delle sanzioni amministrative alla persona giuridica possa essere elusa per tali fattispecie, percorrendo la più agevole via del procedimento di prevenzione, che consente di raggiungere con minore sforzo risultati in parte coincidenti: il risultato che ne discende viene definito “pericolosa fuga dall'applicazione del decreto n. 231”.

Se tale prassi dovesse affermarsi, per le sopra esposte ragioni, anche per i reati colposi, in particolare quelli legati alla violazione delle norme prevenzionistiche in tema di infortuni sul lavoro ed in materia ambientale, ciò potrebbe avere effetti nefasti per quanto concerne la prosecuzione dell'attività d'impresa: infatti le misure “alternative” ivi previste – amministrazione giudiziaria e controllo giudiziario – appaiono applicabili pressoché esclusivamente alle forme di pericolosità qualificata, mafiosa o associata contro la Pubblica amministrazione, con esclusione delle forme di pericolosità generica. Quindi l'unica via percorribile sarebbe quella del sequestro e della confisca.

Non pare un fuor di luogo rappresentare plasticamente la situazione sopra descritta ricorrendo al noto dipinto di Francisco Goya: il sonno della ragione genera mostri. Nel caso oggetto di questa trattazione il “sonno della ragione” è il silenzio del legislatore rispetto ai presupposti legittimanti l'esercizio delle due azioni, di prevenzione e di responsabilità dell'ente, il “mostro” è la discrezionalità, senza limiti, dei Pubblici ministeri.

Guida all'approfondimento

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Carlo Maria Pellicano, Ferdinando Brizzi, La preclusione processuale nel “sistema di prevenzione”, Il Penalista, Focus del 27 settembre 2018

Paolo Borgna, Esercizio obbligatorio dell'azione penale nell'era della “pan-penalizzazione, in www.questionegiustizia.it, 31 ottobre 2019

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Ferdinando Brizzi, La prosecuzione dell'attività nelle imprese sequestrate e confiscate, in Il Penalista, Focus del 17 luglio 2018.

Ferdinando Brizzi, Giancarlo Capecchi, Giuseppe Giura, Commento agli artt. 34 e 34-bis d.lgs. 159/2011, in Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di Donato Castronuovo, Giulio De Simone, Enrico Ginevra, Andra Lionzo, Daniele Negri, Gianluca Varraso

Vittore d'Acquarone, Riccardo Roscini-Vitali, Sistemi di diversione processuale e d.lgs. 231/2001: spunti comparativi, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti - 2/2018

Ferdinando Brizzi, La valutazione delle prove nel procedimento di prevenzione, in Il Penalista, Focus del 24 ottobre 2018

Ferdinando Brizzi, Quali rimedi contro il provvedimento che nega (o ammette) il controllo giudiziario, “su richiesta”?, in Il Penalista, Contrasti giurisprudenzialidel 26 novembre 2019.

Domenico Vispo, Il procedimento a carico degli enti: quali alternative alla punizione?, in La legislazione penale 25.11.2019

Gruppo di lavoro della Giunta Assonime coordinato da Pietro Guindani, 5/2019, Prevenzione e governo del rischio di reato: La disciplina 231/2001 e le politiche di contrasto dell'illegalità nell'attività d'impresa.

Rosa Anna Ruggiero, Le condotte di collaborazione previste nel d.lg. n. 231 del 2001, in Cassazione Penale, fasc.1, 2014.

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