Comportamento processuale delle partiFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 115
06 Aprile 2020
Inquadramento
Uno dei temi di maggiore spessore teorico e di più consistente impatto pratico nell'ambito della materia probatoria del processo civile, è quello relativo alla rilevanza del comportamento processuale delle parti nel procedimento di valutazione delle prove da parte del giudice. In sostanza: se la norma cardine relativa al sistema di valutazione delle prove, e cioè l'articolo 116 c.p.c., sancisce il principio del libero convincimento del Giudice (comma 1 prima parte: «il Giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento»), con il limite peraltro di non operatività di tale principio nel caso di presenza di prove legali (comma 1 seconda parte: «salvo che la legge disponga altrimenti»), e con la possibilità di trarre argomenti di prova da determinate situazioni (comma 2: «Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezione che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo»),occorre comprendere che rilievo ha il comportamento processuale delle parti con riferimento agli argomenti di prova, alle prove legali e più in generale al libero convincimento del giudice, anche con riguardo al rilevante profilo della non contestazione ex art. 115 c.p.c. Si procederà quindi ad una trattazione del tema da tutte queste diverse angolazioni. Comportamento processuale delle parti e argomenti di prova
La valutazione del comportamento processuale delle parti trova la sua area elettiva negli argomenti di prova, al punto che vi è quasi relazione biunivoca tra i due istituti del comportamento processuale delle parti e dell'argomento di prova, nel senso che dal comportamento processuale delle parti il giudice trae argomenti di prova ai fini della decisione. Di ciò si ha evidente traccia nel dato normativo. Infatti, di argomenti di prova il legislatore parla in chiave generale nell'art. 116, comma 2, c.p.c., chiarendo che essi possono essere tratti dalle risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c., dal rifiuto delle parti a consentire le ispezioni ordinate ex art. 118, comma 2, c.p.c., e comunque dal contegno processuale delle parti; e ne parla poi in chiave particolare in alcune norme processuali (cfr. artt. 185, 200, 232, 310 e 420 c.p.c.), che rimandano alla valutazione ex art. 116, comma 2, c.p.c., di determinate situazioni. Pertanto, la rilevanza del comportamento processuale ai fini dell'individuazione di argomenti di prova, si ha sia con riferimento a specifici comportamenti normativamente previsti (quali le risposte all'interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c., il rifiuto senza giustificato motivo ad acconsentire alle ispezioni ex art. 118, comma 2, c.p.c., l'ingiustificata mancata conoscenza dei fatti della causa da parte del procuratore al tentativo di conciliazione ex art. 185 c.p.c., le dichiarazioni rese dalle parti al CTU ex art. 200 c.p.c., la mancata ed ingiustificata risposta all'interpello ritualmente rivolto ex art. 232 c.p.c., le prove raccolte in un processo estinto ex art. 310, comma 3, c.p.c., l'ingiustificata mancata comparizione delle parti all'udienza ex art. 420 c.p.c. prevista nel rito del lavoro); sia con riferimento alla clausola generale del contegno delle parti genericamente considerato ex art. 116, comma 2, c.p.c. Una specifica menzione, in ragione dell'ampio raggio applicativo della richiesta di interpello, merita la tematica dell'argomento di prova che discende dall'applicazione dell'articolo 232 c.p.c. Sul punto, si osserva che se da un lato è insegnamento del tutto consolidato quello per cui la mancata ed ingiustificata risposta all'interrogatorio formale non comporta l'effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti, imponendogli però di valutare ogni altro elemento di prova (ex pluribus e tra le ultime, cfr. Cass. civ., sez. VI-II, 18 aprile 2018, n. 9436); dall'altro lato, la giurisprudenza stessa ha chiarito che la norma in questione è applicabile non solo al caso, espressamente indicato, di mancata comparizione o di rifiuto ingiustificato di rispondere, ma anche al caso di dichiarazioni che, per il loro tenore evasivo o non attendibile, risultino equiparabili alla mancata risposta (Cass. civ., sez. III, 31 marzo 2010, n. 7783).
In ogni caso, pur se è opinione diffusa quella per la quale gli argomenti di prova sarebbero collocati al gradino più basso di un'ipotetica scala dei valori probatori, in verità e così come pure chiarito dalla migliore Dottrina, a livello di struttura l'argomento di prova non è facilmente distinguibile dalle presunzioni. Consegue che, per la pacifica giurisprudenza, anche l'argomento di prova, così come accade per le presunzioni, può da solo essere sufficiente a fondare il convincimento del Giudice (in materia di prova presuntiva da sola idonea a fondare il convincimento del giudice, cfr. da ultimo Cass. civ.sez. III, 26 febbraio 2019, n. 5484; con specifico riferimento all'argomento di prova, cfr. Cass. civ., sez. Lav., 1 ottobre 2014, n. 20736 e Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2009, n. 20819). In particolare ed in coerenza con quanto sopra, il comportamento processuale della parte, nel cui ambito rientra il sistema difensivo adottato dal procuratore, può costituire, ai sensi dell'art. 116 c.p.c., non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite, ma anche unica e sufficiente fonte di prova idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito, che, con riguardo a tale valutazione, è censurabile nel giudizio di cassazione solo sotto il profilo della logicità della motivazione (così Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2013, n. 2071; Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2007, n. 14748; Cass. civ.,sez. III, 4 maggio 2005, n. 9279).
Comportamento processuale delle parti e prove legali
Il comportamento processuale delle parti, poi, in tutta evidenza può integrare la prova legale della confessione, la quale, ai sensi degli articoli 228-232 c.p.c., può essere spontanea se contenuta in qualsiasi atto processuale firmato personalmente, ovvero provocata mediante interrogatorio formale, cd. interpello. In particolare e con riferimento alla confessione spontanea, secondo il tradizionale insegnamento, alle ammissioni contenute negli scritti difensivi sottoscritti dal procuratore ad litem può essere attribuito valore confessorio riferibile alla parte, quando quegli scritti rechino anche la sottoscrizione della parte stessa, in calce o a margine dell'atto, dovendo presumersi che la parte abbia avuto la piena conoscenza di quelle ammissioni e ne abbia assunto anch'essa la titolarità; viceversa, le ammissioni contenute negli atti difensivi sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno il valore confessorio privilegiato della prova legale, ma costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili ed apprezzabili dal Giudice per la formazione del proprio convincimento (tra le tante, cfr. Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2014, n. 9864 e Cass. civ., sez. II, 8 maggio 2012, n. 7015). Più di recente, peraltro, la Suprema Corte, con pronunce non sempre tra loro omogenee, ha affrontato il tema della rilevanza ai fini confessori di un atto in cui la firma della parte è apposta in calce alla procura alle liti: in tal caso si è sostenuto sia che ciò esclude l'esistenza di una confessione, atteso che perché essa sia sussistente occorre che la sottoscrizione venga resa con modalità tali da rivelare inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli contenute nell'atto, mentre è inidonea a tale scopo la mera sottoscrizione della procura scritta a margine o in calce all'atto, pur se nella stessa pagina in cui è contenuta la dichiarazione ammissiva, costituendo la procura atto giuridicamente distinto (Cass. civ., sez. I, 1 dicembre 2016, n. 24539); sia che ciò esclude la confessione, potendo però tale dichiarazione ‘contra se' fornire elementi indiziari di giudizio quali argomenti di prova (Cass. civ., sez.III, 18 marzo 2014, n. 6192); sia che anche la sottoscrizione della mera procura alle liti apposta in margine ad una pagina dell'atto in cui compare in una dichiarazione, ha natura confessoria rispetto alla stessa (Cass. civ., sez. V, 30 novembre 2012, n. 21389).
Comportamento processuale delle parti e libero convincimento del giudice
Se la prova legale è quella che è stata sottoposta dal legislatore ad una aprioristica valutazione della sua efficacia, la prova libera è quella la cui efficacia non è cristallizzata o determinata a priori dall'ordinamento, ma è rimessa al prudente apprezzamento del Giudice, che la valuta sul piano concreto e particolare con il supporto della ragione e dell'esperienza: la regola è integrata dalla prova libera, che consente al Giudice una valutazione del materiale istruttorio secondo il suo prudente apprezzamento; mentre l'eccezione è integrata dalla prova legale, che confina il Giudice in un ambito di critica vincolata del materiale probatorio, essendo già stato operato a priori dal legislatore l'apprezzamento dell'efficacia probatoria del mezzo di prova. Quanto poi alla modalità di formazione del libero convincimento del Giudice, va affermato che, al di fuori della prova legale, secondo la pacifica giurisprudenza non esiste nel nostro ordinamento una gerarchia delle prove per la quale i risultati di alcune debbano prevalere nei confronti di altri dati probatori, essendo piuttosto vero che il Giudice è libero di scegliere gli elementi di prova dai quali trarre il proprio convincimento (ex pluribus, cfr. Cass. civ., sez. VI-III, 24 luglio 2017, n. 18259; Cass. civ., sez. III, 12 settembre 2011, n. 18644; Cass. civ., sez. Lav., 15 giugno 2010, n. 14348). Pertanto, anche il comportamento processuale delle parti, come detto, contribuisce alla formazione del libero convincimento del giudice. È ovviamente impossibile enucleare tutte le situazioni a tal fine rilevanti, posto che esse possono riguardare l'intero iter del processo, e la valutazione del comportamento processuale va effettuata quindi sin dal momento della ricostruzione delle conclusioni della parte (cfr. tra le tante, Cass. civ., Sez. Un., 24 gennaio 2018, n. 1785), fino alla liquidazione delle spese di lite (da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. III, 4 luglio 2019, n. 17902). Tra tutte le situazioni in cui rileva il comportamento processuale, merita un cenno, in ragione del suo interesse dogmatico e della sua concreta rilevanza pratica, quella riconnessa all'ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. È infatti noto che la disposizione in esame non disciplina le conseguenze per il caso in cui la parte destinataria dell'ordine non ottemperi senza giustificato motivo allo stesso. Ciò posto, per la consolidata giurisprudenza, l'ordine ex art. 210 c.p.c. non è eseguibile coattivamente, non rientrando tra i titoli esecutivi tassativamente elencati dall'art. 474 c.p.c. e non potendo quindi fondare un'azione coattiva ex artt. 605 ss. o 612 ss. c.p.c.; ma il rifiuto ingiustificato dell'esibizione può costituire un comportamento dal quale il giudice può desumere argomenti di prova (Cass. civ., sez. VI, 11 gennaio 2016, n. 225; Cass. civ., sez. I, 13 agosto 2004, n. 15768; Cass. civ., sez. III, 11 agosto 2004, n. 15544). In ogni caso, laddove venga formulata istanza di esibizione documentale ex art. 210 c.p.c., la parte nei cui confronti tale istanza è formulata è tenuta a conservare la documentazione oggetto di essa fino a che il giudice non abbia definitivamente provveduto sulla stessa. Consegue che dalla distruzione della documentazione avvenuta successivamente alla presentazione della relativa istanza e durante il tempo di attesa della decisione su di essa, il giudice può trarre argomenti di prova, in ragione della violazione del principio di lealtà e probità processuale ex art. 88 c.p.c. (Cass. civ., sez. Lav., 22 dicembre 2014 n. 27232). Diversamente da quanto talvolta si opina, il comportamento processuale è invece sostanzialmente irrilevante ai fini della (spesso irragionevolmente temuta) inversione dell'onere della prova. È infatti noto che il principio generale codificato dall'art. 2697 c.c., che deve guidare il giudice nella valutazione delle risultanze istruttorie e nella decisione, soffre di alcune eccezioni, normative o contrattuali: si parla infatti di inversione di onere della prova sia nelle ipotesi specificamente disciplinate dal legislatore, quali quelle di cui agli artt. 2047 ss. c.c.; sia nelle ipotesi pattiziamente concordate, con l'osservanza peraltro dei limiti di cui all'art. 2698 c.c., che esclude l'ammissibilità, sancendone la nullità, dei patti di inversione dell'onere della prova nel caso di diritti indisponibili e nel caso si renda ad una parte eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. Peraltro, deve essere sottolineato che l'unanime giurisprudenza ha chiarito che la pattizia inversione dell'onere della prova non scaturisce dal mero comportamento processuale della parte la quale offra spontaneamente di provare fatti che non ha l'onere di provare; ma richiede invece un'inequivocabile manifestazione volta ad assumere un onere probatorio a sé non spettante, rinunciando ai benefici ed ai vantaggi che derivano dal principio che regola la distribuzione dell'onere probatorio ed accettando di subire le conseguenze dell'eventuale fallimento della prova dedotta od offerta (fra le tante, Cass. civ., sez. VI-III, 10 agosto 2017, n. 19994; Cass. civ., sez. II, 23 giugno 2016, n. 13039; Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2016, n. 11790; Cass. civ., sez. II, 11 aprile 2013, n. 8901; Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2010, n. 14066).
Comportamento processuale delle parti e non contestazione: cenni
La materia del comportamento processuale delle parti si intreccia poi in profondità con il classico tema della non contestazione: se infatti non abbisogna di essere provato un fatto non contestato, e pertanto va rigettata in quanto irrilevante ai fini del decidere una prova dedotta sul punto, occorre comprendere quando il comportamento processuale rende un fatto non contestato. È noto che, secondo la tradizionale giurisprudenza formatasi prima della modifica dell'articolo 115 c.p.c. da parte della l. n. 69/2009, i fatti allegati potevano ritenersi non contestati solo in tre casi: allorquando l'altra parte li avesse esplicitamente ammessi, ovvero avesse impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento, ovvero si fosse limitata a contestare esplicitamente e specificamente alcune circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le altre. Pertanto, più che di fatti non contestati, si trattava di fatti ammessi esplicitamente od implicitamente. La modifica dell'articolo 115,comma 1,c.p.c., con la l. n. 69/2009, recependo ed ampliando approdi giurisprudenziali già anticipati da Cass. civ., Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761 e Cass. civ., Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353, ha fortemente ampliato l'area operativa dell'istituto, prevedendo che si ha non contestazione per tutti i fatti «non specificamente contestati dalla parte costituita». Nei limitati termini consentiti da questa trattazione, può dirsi che, sulla base del dato testuale della norma, il principio di non contestazione non opera nelle cause contumaciali (riferendosi alla ‘parte costituita'); non può essere aggirato da una contestazione generica, essendo invece necessaria una contestazione circostanziata che introduca elementi fattuali idonei a contrastare nel merito quanto asserito da controparte (riferendosi a fatti ‘non specificamente contestati'); riguarda non solo l'attore, ma anche il convenuto ed i terzi (riferendosi alla ‘parte': per un'applicazione concreta del principio, cfr. Cass. civ., sez. III, 3 maggio 2016, n. 8647); è esteso non solo ai fatti principali, ma anche ai fatti secondari (non essendovi nella norma traccia della distinzione: cfr. Cass. civ., Sez. Un., 29 maggio 2014, n. 12065). Ragionevolmente, sulla base di un'interpretazione sistematica il principio s'applica poi solo ai fatti od alle situazioni riferibili alla parte destinataria dell'allegazione in quanto riconnesse alla sua sfera di controllo e conoscenza, e non invece ai fatti non conosciuti da controparte; non si applica con riferimento ai comportamenti tenuti nella fase pregiudiziale; non s'applica infine ai contratti in cui è richiesta la prova scritta ad substantiam, mentre s'applica nel caso di prova scritta ad probationem, relativamente ai quali è infatti anche ammesso il giuramento decisorio ex art. 2739 c.c. Discusso è se la norma s'applica alle controversie in cui si tratta di diritti non disponibili: la tesi preferibile offre una risposta negativa, sul presupposto che, diversamente opinando, le parti si approprierebbero in maniera surrettizia del potere di disposizione della situazione sostanziale dedotta in giudizio. Problematico è anche il caso del rapporto tra processo litisconsortile, contumacia di uno dei convenuti e non contestazione riferibile ad altro convenuto: secondo l'opinione preferibile, la circostanza che uno solo dei litisconsorti non contesti il fatto, non può rendere pacifico quel fatto in presenza di un altro convenuto o di un convenuto contumace, poiché si frustrerebbero le loro ragioni ed il diritto di difesa che si esplica nella impossibilità di far conseguire dalla contumacia effetti pregiudizievoli; e deve quindi propendersi per il mero argomento di prova di un fatto liberamente apprezzato dal giudice. Ciò è tra l'altro coerente con quanto accade anche nel caso di confessione, ove, ai sensi dell'art. 2733, comma 3, c.c., la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice, in relazione a tutti i litisconsorti e non solo in relazione ai non confitenti; e questo in quanto i rapporti non possono essere regolati diversamente tra le parti del giudizio, essendo i fatti gli stessi. Questione molto rilevante è poi quella attinente al momento ultimo entro il quale verificare l'esistenza della non contestazione, e sul punto paiono ineccepibili le conclusioni cui è giunta la recentissima Cass. civ., sez. VI-II, 2 dicembre 2019, n. 31402, ritenendo la non contestazione irreversibile dopo lo spirare delle preclusioni assertive, e quindi dopo la memoria ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c. Infine e con riferimento al tema del valore probatorio della non contestazione, si ritiene che dalla stessa derivi non già una ficta confessio; ma una mera esenzione del fatto non contestato dalla verifica probatoria, tramite una relevatio ab onere probandi, fermo però restando che il Giudice non è costretto a ritenere vero tale fatto, se esso sia smentito da altre risultanze, non trattandosi di prova legale e dovendosi quindi sempre bilanciare le diverse risultanze probatorie in base al principio della libera valutazione e del libero convincimento (cfr. Cass. civ., sez., III, 16 marzo 2012, n. 4249 e Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2012, n. 3951).
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