Maltrattamenti contro familiari e conviventi. Quali tutele se la convivenza viene meno?
27 Aprile 2020
Abstract
Con la legge 1° ottobre 2012 n. 172 il legislatore, facendo tesoro della elaborazione della giurisprudenza di legittimità, ha modificato la rubrica dell'art. 572 c.p. da "maltrattamenti in famiglia" in “maltrattamenti contro familiari e conviventi", estendendo l'ambito applicativo della fattispecie incriminatrice anche al soggetto “comunque convivente”. In tal senso, cogliendo le nuove forme di manifestazione della “affectio familiaris”, ha individuato nella situazione di fatto della “convivenza” il fenomeno che usualmente rivela il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone, tipica della “unione familiare”. Al fine di apprestare una più adeguata tutela alle persone che, oltre ad essere legate da vincoli di parentela, risultino uniti da una comunione di intenti e da un patto di solidarietà, l'elaborazione giurisprudenziale ha affermato il rilievo assorbente che assume, ai fini della sussistenza del delitto di cui all'art. 572 c.p., il criterio della attualità e riconoscibilità dei vincoli di solidarietà propri della “affectio familiaris”, al di là del dato fattuale del perdurare della situazione di convivenza. L'analisi dei più recenti orientamenti giurisprudenziali sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi nei casi di cessazione del rapporto di coniugio, di interruzione della convivenza o dei rapporti di stabile frequentazione, mostra una unitaria linea interpretativa, che esalta il criterio della perduranza del vincolo di affettività, mantenimento ed assistenza, nell'ambito della “unione familiare”, che deve qualificare il rapporto tra autore e vittima, escludendo che la situazione di fatto della convivenza possa costituire presupposto necessario del reato. La tutela del legame familiare e la cessazione della convivenza
L'art. 572 c.p., come riformulato dalla legge dell'1° ottobre 2012 n. 172, nella rubrica (“maltrattamenti contro familiari e conviventi") e nel testo, individua, in via estensiva, il soggetto passivo del reato non solo in "una persona della famiglia" - concetto tradizionalmente circoscritto ai coniugi, consanguinei, affini, adottati e adottanti - ma anche nella persona “comunque convivente”, così integrando l'area di rilevanza penale delle condotte vessatorie che si manifestano nell'ambito di relazioni affettive e di mutua solidarietà. La convivenza, infatti, secondo l'id quod plerumque accidit, rivela l'esistenza del rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone, che formano una unione familiare e condividono, al di là del vincolo di sangue o del rapporto di coniugio, la volontà di reciproca solidarietà e sostegno. L'estensione normativa ha di fatto recepito gli approdi giurisprudenziali più avanzati che hanno equiparato la tutela penale del coniuge a quella del soggetto convivente more uxorio. Sul punto, giova evidenziare che già Cass. pen., Sez. VI, 10 ottobre 2001, n. 36576 affermava che «costituisce ormai jus receptum che sono da considerare membri della famiglia - ex art. 572 c.p. - e, perciò, potenziali soggetti attivi di tale reato, anche i componenti della famiglia di fatto, fondata cioè sulla volontà comune di vivere insieme, di avere figli, di avere beni comuni: di dar vita, cioè, ad un nucleo stabile e duraturo» (in senso conforme, circa la configurabilità del reato di maltrattamenti, anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, Cass. pen., Sez. VI, 29/01/2008, n. 20647; Sez. III, 8/11/2005, n. 44262; Sez. VI, 24/01/2007, n. 21329; Sez. III, 08/11/2005, n. 44262). La situazione di convivenza - e in particolare quella more uxorio - come condivisione di un progetto relazionale fondato sulla mutua affettività, esprime la tensione verso una sostanziale equiparazione, sul piano sociale, con il vincolo di coniugio, sia nei rapporti interni tra i medesimi conviventi, sia all'esterno, nei confronti delle istituzioni pubbliche, la collettività ed i terzi in generale. Si tratta, in altri termini, di un impegno, pur diverso dalla istituzione del matrimonio, che assume rilevanza sociale – e, dunque, dignità di tutela – e riconoscimento all'interno della collettività. Proprio la fattispecie di cui all'art. 572 c.p., anche prima della novella del 2012, si è rivelata la cartina di tornasole per una interpretazione “adeguatrice” alle nuove forme di affettività familiare, spostandosi progressivamente l'individuazione dell'oggetto giuridico protetto dalla norma incriminatrice dal rapporto fra «coniugi», ad una più ampia relazione di «familiarità» e solidarietà interpersonale, fino a ricomprendervi la «famiglia di fatto», ossia quelle relazioni di coabitazione o convivenza che non discendano dal matrimonio o da altra ragione di parentela naturale o civile. Giova evidenziare che la giurisprudenza della Corte EDU ha da tempo accolto una nozione sostanziale, onnicomprensiva di "famiglia", senz'altro ricomprendente anche i rapporti di fatto, privi di formalizzazione legale, ai quali si ritiene che l'art. 8 della Convenzione EDU ("ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza") assicuri incondizionata tutela (cfr. Cass. pen.,Sez. II, n. 34147 del 30/04/2015). Il principio è espresso dalla Corte EDU con la sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, per la quale l'art. 8 «presuppone l'esistenza di una famiglia, e tutela sia la famiglia naturale che la famiglia legittima», poiché la nozione di famiglia accolta dalla citata disposizione «non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza»; nonché dalla sentenza 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro Svizzera, per la quale «La nozione di famiglia accolta dall'art. 8 CEDU non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza. La durata della convivenza e l'eventuale nascita di figli sono elementi ulteriormente valutabili» (cfr., in proposito, Cass. pen.,Sez. II, 08/03/2019 n. 10222). La condotta di violenza o di vessazione che rileva ai sensi dell'art. 572 c.p. si manifesta, infatti, nella mortificazione della dignità individuale del soggetto che abbia liberamente scelto di intraprendere una vita in comune, caratterizzata da affetti e condizionamenti psicologici parificabili a quelli del matrimonio, che prescinde dalla formalità del vincolo interpersonale. La rilevanza dell'affectio familiaris, che fa leva sulla qualità e intensità dei rapporti tra componenti di un medesimo nucleo, ha portato il legislatore a ricomprendere fra i soggetti passivi della fattispecie in questione anche i conviventi more uxorio, accanto ai prossimi congiunti, recependo l'approdo giurisprudenziale già elaborato dalla Suprema Corte. La "ratio" incriminatrice del reato di maltrattamenti in famiglia ha, dunque, come fondamento la famiglia, intesa come unione familiare – secondo una accezione sostanziale - quale comunione di intenti e condivisione di un vincolo di solidarietà, caratterizzati un intenso rapporto di reciproca assistenza economica, morale ed affettiva. Ne deriva che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 572 c.p., costituisce condizione imprescindibile la sussistenza di un vincolo affettivo e produttivo di doveri di solidarietà e di assistenza, come tale “familiare”, tra agente e vittima. Solo in siffatto contesto relazionale la reiterazione di condotte violente o, più in generale, di vessazioni, tanto fisiche che morali, assume una gravità maggiore per l'offesa che si arreca all'aspettativa di reciproco sostegno, economico morale ed affettivo, che ciascun membro della unione familiare ripone sugli altri componenti del medesimo nucleo affettivo. Tuttavia, se la tutela penale ex art. 572 c.p. trova giustificazione su uno stato di convivenza fondato sulla affectio familiaris, la sua cessazione può non assumere rilievo perché non comporta necessariamente il venir meno degli obblighi di mutua assistenza e solidarietà verso il soggetto non più convivente. Si pensi, nei casi di cessazione della convivenza nell'ambito di unione fondata sul matrimonio, agli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza morale e materiale verso il coniuge ed i figli, oppure al persistere della “affectio” nei rapporti verso gli ascendenti, come tra fratelli e sorelle, anche dopo la cessazione della stabile convivenza con la famiglia di origine. Il filo rosso che ricollega i più recenti arresti giurisprudenziali, in tema di maltrattamenti in famiglia è l'individuazione della unione familiare - intesa non come vincolo di sangue, ma come vincolo affettivo, coacervo di obblighi di sostegno morale ed economico - quale elemento costitutivo del reato, che può sussistere anche nel caso di assenza o cessazione della convivenza. La mancanza di una attuale situazione di convivenza tra autore e vittima nel delitto di cui all'art. 572 c.p. non assume decisiva rilevanza nel caso di condotte di maltrattamenti che siano perpetrate in una situazione di condivisa genitorialità. Tale assunto si coglie da una lettura diacronica delle più recenti pronunce della Corte di cassazione, ove si esprime il principio generale secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia è comunque configurabile anche in danno del soggetto (“familiare” in senso lato) non convivente o non più convivente, quando permangano tra l'agente e la vittima vincoli giuridici o di fatto che nascono dal rapporto di coniugio o di filiazione. Il margine di incidenza che la cessazione del rapporto di convivenza assume ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 572 c.p. muta in ragione di tali vincoli.
Le condotte vessatorie nei confronti del coniuge separato. Il caso più ricorrente nella casistica giurisprudenziale è quello dei maltrattamenti perpetrati in danno del coniuge separato. La separazione personale tra coniugi implica ordinariamente la cessazione del rapporto di convivenza e di comunione morale e spirituale. Nondimeno, la separazione ex se non è idonea ad escludere il reato di maltrattamenti, potendo persistere in capo ai coniugi obblighi solidaristici, sia pur limitati. In proposito, Cass. Pen., Sez. II, 22/09/2016, n. 39331 afferma che la cessazione della convivenza non rappresenta un presupposto del reato di cui all'art. 572 c.p. Come tale, la separazione legale non esclude la configurabilità del reato quando le condotte vessatorie incidano sui vincoli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione, che permangono integri anche dopo la interruzione della vita comune. In particolare, l'esercizio congiunto della potestà genitoriale giustifica la persistenza di obblighi di reciproco rispetto tra i coniugi, anche dopo la cessazione della relazione di convivenza, In tal senso, si richiama l'arresto di Cass. Pen., Sez. VI, 23/01/2018, n. 3087, che, in un caso di separazione di fatto tra coniugi con prole, ha precisato che le condotte vessatorie poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, nel periodo successivo alla interruzione del rapporto, integrano il delitto di maltrattamenti per la persistenza del vincolo familiare o affettivo o, quantomeno, la sua attualità temporale. Tale vincolo, nel caso concreto, è stato desunto, oltre che dal fatto che il divorzio non era ancora intervenuto, soprattutto dall'intensa relazione tra i coniugi in ragione degli obblighi derivanti dall'esercizio della potestà genitoriale. Di contro, tali circostanze non consentono di configurare gli estremi del reato di atti persecutori. Si evidenzia che l'elemento di discrimen tra il più grave delitto di maltrattamenti ed il reato di atti persecutori, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà di cui all'art. 612-bis, comma 1, c.p., è proprio la persistenza di vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione anche dopo la fine della convivenza di cui agli artt. 29 e 30 Cost.; 143 e ss. e 315 e ss. c.c. (in senso conforme, Cass. pen., Sez. VI, 10/10/2019 n. 41733, con riferimento a maltrattamenti commessi in danno della madre del proprio figlio minore con problemi di salute). In quanto fattispecie destinata ad operare quando non vengano in considerazione condotte maturate in ambito “familiare”, il reato previsto dall'art. 612-bisc.p. sarà concretamente configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di definitiva cessazione della relazione di fatto.
Maltrattamenti dopo la cessazione della convivenza more uxorio. La giurisprudenza della Suprema Corte ha da tempo riconosciuto, al di là del vincolo di matrimonio, la sussistenza del reato di maltrattamenti in relazione ai rapporti di convivenza more uxorio, venendo in rilievo qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. In tali casi, tuttavia, il delitto di maltrattamenti è stato individuato in relazione a situazioni di cessata convivenza, in quanto succedute ad un periodo di precedente condivisione di intenti, e non di assenza di convivenza. In particolare, si è ritenuto che pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l'agente, purché questi conservi con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione (Cass. pen. Sez. VI, 28/09/2017, n. 52723; Sez. VI, 20/04/2017, n. 25498, in ipotesi conservazione di una relazione stabile con l'ex convivente per i doveri di collaborazione nei confronti della prole, derivanti dalla costituzione di una “famiglia di fatto”; in senso conforme, Sez. VI, 08/07/2014, n. 33882, in un caso di condotte vessatorie nei confronti della convivente susseguitesi per alcuni anni, prima e dopo la fine della relazione, nel corso della quale era nato un figlio). Si è affermato, inoltre, che la sufficienza, ai fini della configurabilità della condotta tipica, del presupposto della esistenza di uno stabile elemento relazionale di affidamento e di reciproca solidarietà tra agente e vittima, di contenuto volontaristico e proiettivo nei confronti del nucleo familiare, comporta che non assume in alcun modo rilievo la durata del periodo di convivenza pregresso, quanto piuttosto la precedente qualità (o intensità) del rapporto intercorso tra le parti, che agiscono secondo una prospettiva di condivisa stabilità del vincolo (Cass. pen., Sez. III, 28/10/2019 n. 43701). Nella specie, Cass. pen.,Sez. VI, 06/11/2019, n. 5457 ha ritenuto configurabile il delitto di maltrattamenti anche in presenza di un rapporto familiare di mero fatto protrattosi per soli due mesi, quando la relazione sentimentale sia stata istituita in una prospettiva di stabilità che implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza, assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. L'ampiezza della accezione del legame familiare, come unione di persone tra le quali siano instaurate intime relazioni e consuetudini di vita, consente di ravvisare il delitto di cui all'art. 572 c.p. anche nel caso di una mera relazione sentimentale, che abbia comportato un'assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Cass. pen., Sez. V, 17/03/2010, n. 24688, con riferimento alla abituale frequentazione tra i soggetti, durata oltre due anni, e caratterizzata dal frequente pernottare presso la casa della compagna e dei familiari, espressione di un “rapporto non meramente occasionale, ma abituale tra i due, tale, quindi, da far sorgere rapporti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale”). Nello stesso senso, Cass. pen., Sez. VI, 27/05/2013, n. 22915 ha ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 572 c.p. nel caso di relazione sentimentale protrattasi per alcuni anni, sebbene in modo non continuativo, con allontanamenti alterni dei due conviventi dalla casa familiare, dalla quale sono nati tre figli. Tali circostanze qualificano il rapporto di mero fatto come “unione familiare”, pur in assenza di una stabile convivenza, per il comune progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza. Ed analogamente, Cass. pen.,Sez. VI, 31/05/2013, n. 23830, richiamando il presupposto essenziale della sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale, o di fatto, nell'ipotesi di un rapporto di convivenza o di stabili relazioni affettive, ha puntualizzato che, in caso di risoluzione del rapporto “familiare” e di affidamento a terzi dei due figli minori, deve essere accertato il permanere di siffatto legame di solidarietà, tale che la vittima e l'autore delle aggressioni condividessero una situazione riconducibile ad una dimensione affettiva stabile e condivisa, propria di un affidamento reciproco tutelabile. In entrambi i casi, secondo la Corte, la relazione sentimentale tra i soggetti assume rilevanza in quanto parificabile, nella dimensione fenomenica, ad un rapporto di convivenza, peraltro caratterizzata dalla nascita di prole, della cui cura e vigilanza i genitori devono farsi carico, ingenerando quella condizione di affidamento presupposto del reato in esame. Il medesimo principio è stato espresso, più di recente, da Cass. pen., Sez. VI, 02/03/2020, n. 8375, con riferimento al caso di ripetuti e abituali atti di violenza, ingiuria, minaccia, vessazione posti in essere dall'agente nei confronti della sua convivente e della madre di questa, nell'ambito di rapporto caratterizzato da "andamento sinusoidale e rapsodico", nel corso del quale, la coppia aveva avuto un secondo figlio dopo l'interruzione della convivenza. La S.C. ha affermato che, seppure la cessazione della convivenza segna l'estinzione della relazione di fatto, dal momento che in tale ipotesi è proprio la coabitazione ad esprimere il rapporto di solidarietà che lega le persone, la presenza di un figlio comporta la permanenza di un complesso di obblighi verso lo stesso, per il cui adempimento la coppia, prima convivente, è chiamata a rapportarsi e segna altresì la persistenza dei doveri di collaborazione e rispetto reciproco, ciò che esprime l'interesse leso dalla norma incriminatrice. Dalle sentenze richiamate emerge che, in presenza di situazioni di convivenza di fatto o di stabili relazioni affettive, la cessazione della convivenza o anche della relazione segna ordinariamente l'estinzione del legame solidaristico proprio del consorzio familiare. Nondimeno, la cessazione della convivenza non esclude per ciò stesso la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della ex coppia quando il rapporto personale sia stato il risultato di un progetto di vita condiviso da cui è derivato il rapporto di filiazione. Gli obblighi ne confronti dei figli, che assumono centralità nel rapporto tra ex conviventi, sono, del resto, destinati a protrarsi anche dopo la cessazione della convivenza o l'interruzione del legame sentimentale, quali doveri di collaborazione reciproca e rispetto, in una accezione di famiglia estesa a forme di aggregazione alternative al matrimonio, ma di pari dignità e tutela. Più di recente, Cass. pen., Sez. II, 08/03/2019 n. 10222 ha affermato, in via generale, nel caso di "convivenza more uxorio", in assenza di obblighi derivanti dal rapporto di filiazione, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata. La Corte ha osservato, in particolare, che la manifestata incoerenza od instabilità del rapporto di convivenza, per essere questo caratterizzato da soprusi, litigi ed infedeltà nella coppia, non può costituire argomento per escludere la sua assimilazione al rapporto di famiglia. In tal senso, nel caso concreto, ha ritenuto corretta la riqualificazione del reato contestato di cui all'art. 612-bis c.p. in quella di maltrattamenti, con riferimento a condotte di violenza fisica e morale perpetrate in danno di persona convivente), dovendo essere parificata la cessazione della convivenza more uxorio alla sentenza di divorzio quanto agli effetti). Infine, Cass. pen.,Sez. VI, 11/09/2019, n. 37628 ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l'aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione. Nel caso di specie, la condotta di maltrattamenti si era sostanziata nelle continue aggressioni e violenze, produttive di lesioni personali, perpetrate dal padre nei confronti della madre del figlio comune, nel corso dell'esercizio del diritto di visita del minore. Pur in assenza di una pur minima condizione di convivenza tra l'agente e la vittima, che dopo la nascita del figlio conducevano vite autonome, la Corte ha osservato che la necessaria condivisione tra i genitori non più conviventi dell'adempimento degli obblighi verso la prole (obbligo di mantenimento, di educazione, di istruzione e in generale di assistenza morale e materiale), implica la continuità dei contatti tra loro ed è idonea a determinare l'ambito nel quale condotte lesive della dignità personale sono suscettibili di integrare il reato di maltrattamenti. L'individuazione del presupposto della sussistenza di un vincolo di solidarietà atto a generare un rapporto dotato di una certa stabilità con doveri di reciproca assistenza, connesso a una relazione discendente dal rapporto di filiazione, secondo la citata Cass. pen. n. 37628 del 2019, induce a ritenere che, l'assenza di una - anche solo iniziale - materiale convivenza, non escluda che la situazione di condivisa genitorialità derivante dalla filiazione possa produrre le condizioni per la configurabilità dell'art. 572 c.p. Ciò quando la filiazione non sia l'esito di occasionali rapporti sessuali ma – anche nella sola fase iniziale del rapporto - si sia instaurata una significativa relazione affettiva, tale da ingenerare l'aspettativa di un vincolo di solidarietà personale autonoma rispetto ai vincoli giuridici derivanti dalla filiazione. L'indagine del giudice deve, dunque, essere orientata all'accertamento della esistenza di una relazione affettiva pregressa, tale da ingenerare l'aspettativa reciproca di uno stabile vincolo di solidarietà personale).
I maltrattamenti verso i familiari non conviventi
Violenze nei confronti del figlio naturale non riconosciuto. Pacifica deve ritenersi la configurabilità del delitto di cui all'art. 572 c.p. quando le condotte vessatorie siano dirette verso i familiari, nei confronti dei quali siano individuabili specifici solidaristici derivanti dal pregresso rapporto di convivenza o stabile frequentazione. Nella specie, il recente arresto di Cass. pen., Sez. III, 28/10/2019 n. 43701, con riferimento ad un caso di maltrattamenti commessi dal padre nei confronti della figlia naturale in epoca successiva alla interruzione del rapporto di convivenza con questa, ha ritenuto configurabile il delitto di cui all'art. 572 c.p. I vincoli di solidarietà che derivano dalla precedente qualità del rapporto intercorso tra le parti hanno rilievo giuridico anche dopo la cessazione della convivenza, specie quando le condotte di maltrattamenti siano già iniziate nel periodo antecedente. La Corte ha ritenuto irrilevante, ai fini della sussistenza dei presupposti oggettivi del reato, l'assenza di un qualsivoglia rapporto di parentela giuridicamente rilevante tra l'agente e la vittima, atteso che il padre non aveva mai provveduto a riconoscere la figlia naturale né questa aveva mai avviato nei suoi confronti il procedimento per il riconoscimento giudiziale. Ha evidenziato, di contro, che ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 572 c.p. è sufficiente che tra l'agente e la vittima si sia instaurata un rapporto di continuità affettiva, al di là del formale legame parentale. In tal senso, il richiamo operato dalla norma incriminatrice alla “famiglia” è riferibile ad un consorzio di persone che condividono una relazione stretta e consuetudini di vita, tale da ingenerare quel richiamato rapporto di stabile affidamento e solidarietà reciproca tra i componenti. Nel caso concreto, la relazione intersoggettiva in essere tra padre e figlia si era caratterizzata quale rapporto di comunità familiare, peraltro instauratosi dopo un lunghissimo lasso temporale di sostanziale disinteresse, a seguito di un periodo – “non di costante continuità, ma di indubbia sistematicità” – di convivenza presso l'abitazione dell'uomo durato circa due anni. Tali condizioni, al di là del formale riconoscimento della genitorialità, sono state ritenute idonee a far sorgere la richiamata aspettativa di adempimento ai doveri di assistenza materiale e morale e di solidarietà affettiva verso la figlia. Né, si osserva, le condizioni patologiche di labilità del rapporto di convivenza tra padre e figlia consentono di escludere che sia venuto in essere un legame di carattere familiare, nel quale sono state perpetrate le condotte di violenza, perché tale assunto logico confonde l'aspetto sostanziale ed oggettivo di un rapporto di convivenza con quello delle patologie che si possono inserire in esso, tale da portare al risultato paradossale di escludere la configurabilità del reato di maltrattamenti proprio nel caso di un rapporto di convivenza alterato da violenze e tradimenti (cfr., sul punto, Cass. pen. Sez. VI, 03/12/2019 n. 49120, con riferimento a condotte di violenza, pur se intervallate nel tempo ed infruttuosamente contrastate dalla vittima, che abbiano finito per concretare una stabile alterazione delle relazioni familiari con una sostanziale compromissione della dignità morale e fisica della persona offesa). Del resto, non rileva che tale situazione sia idonea a far sorgere delle obbligazioni civili, trattandosi comunque di fattore giuridicamente rilevante che può giustificare comunque effetti giuridico, quale la “soluti retentio” nell'adempimento di una obbligazione naturale.
Maltrattamenti nei confronti di consanguinei. Nel caso di maltrattamenti nell'ambito dei rapporti tra genitori e figli e tra fratelli e sorelle, al pari delle ipotesi di convivenza coniugale o di fatto, la cessazione della convivenza con i suddetti familiari non fa venir meno “ex se”il presupposto della affectio familiaris Con una recentissima pronuncia la Suprema Corte ha affrontato il tema della configurabilità del delitto di maltrattamenti nell'ambito dei rapporti tra consanguinei (nella specie, ascendenti o fratelli e sorelle) non conviventi (Cass. pen. Sez. VI, 28/02/2020, n. 8145). Nel caso di specie, la condotta di maltrattamenti si era sostanziata in plurimi episodi di aggressione nei confronti della madre e delle sorelle, che occupavano appartamenti siti nel medesimo stabile ove abitava l'agente. La Corte di merito aveva ritenuto configurabile il delitto di cui all'art. 572 c.p., quantunque l'imputato da tempo non facesse più parte del nucleo familiare di origine, proprio per la circostanza che questi, dopo la separazione dalla moglie, era ritornato a vivere nello stesso stabile occupato dai familiari, sia pure dislocati in separati e distinti appartamenti. La Suprema Corte, nell'annullare senza rinvio l'impugnata sentenza, ha evidenziato la decisiva rilevanza, non scrutinata dal giudice di merito, della interruzione da lungo tempo dei rapporti tra l'imputato ed i propri familiari e, soprattutto, della assenza in concreto di obblighi di reciproca assistenza economica, per la autonomia ed indipendenza economica dei familiari. La qualificazione soggettiva delle vittime, secondo l'interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimità, deve essere intesa alla luce della "ratio" incriminatrice del reato di maltrattamenti in famiglia, che ha come sua finalità quella di apprestare una maggiore tutela alle persone che oltre ad essere legate da vincoli di parentela siano anche uniti, per l'intensità di rapporti di reciproca assistenza non solo economica ma anche morale ed affettiva, da una comunione di intenti e da un patto di solidarietà che costituisce il fondamento della nozione di famiglia. La reiterazione di condotte violente, o più in generale di vessazioni, tanto fisiche che morali, assume una gravità maggiore solo nel contesto dell'unione familiare, per il “vulnus” all'aspettativa di reciproco aiuto, economico ed affettivo, che ciascun familiare ripone sugli altri componenti del medesimo nucleo familiare. Il presupposto dell'affectio familiaris non si identifica, dunque, con il vincolo di sangue, ma richiede come suo elemento essenziale la volontà comune di conservare un rapporto basato sulla solidarietà ed il sostegno reciproco. In assenza di obblighi giuridici di mantenimento economico verso i familiari, la condivisione della cessazione definitiva di ogni rapporto di reciproca assistenza morale ed affettiva tra i consanguinei fa venir meno l'elemento costitutivo del reato di maltrattamenti. Di qui la ritenuta insufficienza, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p., della frequentazione abituale e quotidiana dell'agente con la madre e le sorelle dimoranti nello stesso stabile, dovuta unicamente alla condivisione di parti comuni dell'edificio, in presenza di una ormai definitiva disgregazione dell'originario nucleo familiare e del notevole lasso temporale intercorso dalla interruzione dei rapporti tra l'imputato e la famiglia di origine. In conclusione
Il consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, in coerenza con l'evoluzione del costume sociale, in tema di maltrattamenti in famiglia, ha accolto una nozione dilatata di «famiglia», quale consorzio di persone avvinte da vincoli di parentela naturale e civile, ma anche un'unione di persone fra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, sono sorti legami di reciproca assistenza e protezione, fino ad ipotizzare l'applicabilità dell'art. 572 c.p. anche nei casi di stabile relazione sessuale non accompagnata da convivenza. La "ratio" incriminatrice del reato di maltrattamenti in famiglia, che ha come sua finalità la tutela di una unione familiare, presuppone, dunque, che un nucleo familiare si sia effettivamente costituito, nella pluralità di forme suindicate, e si sia instaurato tra i suoi membri una stabile comunità d'intenti e di aspettative, un serio vincolo affettivo. Ed anche dopo la cessazione dello stato di convivenza si coglie l'esigenza di assicurare la tutela dei rapporti familiari, delle aspettative di reciproco aiuto, economico morale ed affettivo, che ciascun familiare ripone sugli altri componenti del medesimo nucleo familiare. È approdo condiviso che l'impegno solidaristico verso i familiari non si dissolve, infatti, con la cessazione della convivenza, persistendo obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza morale e materiale verso il coniuge o il convivente e verso i figli nati dall'unione affettiva, oppure verso gli ascendenti, fratelli e sorelle. Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 572 c.p., dunque, occorre accertare se l'unione affettiva, anche dopo la cessazione della convivenza – che fenomenicamente rivela l'esistenza di un consorzio familiare – sia produttiva di obblighi di solidarietà, di mutua assistenza e protezione tra i “familiari”, ovvero se la fine della convivenza sottenda una definitiva decisione – necessariamente condivisa da tutti i membri del nucleo familiare disciolto - di interrompere ogni rapporto di reciproco sostegno. M. A. Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, in Dir. fam. 1999, 1462 ss.
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Cass. pen., Sez. VI, 08/07/2014, n. 33882
Cass. pen., Sez. V, 17/03/2010, n. 24688 |