Violazione dell'art. 6 Cedu e ricorso straordinario per errore materiale o di fatto
23 Giugno 2020
Premessa
Con la pronuncia n. 13526, del 22 gennaio 2020, la Corte di Cassazione torna sul tema dei limiti di esperibilità del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto; la quarta sezione, in particolare, si concentra sulla deducibilità di un vizio procedurale implicante la violazione dell'art. 6 CEDU. La penale responsabilità del ricorrente, in dettaglio, era stata affermata – in primo grado – utilizzando le dichiarazioni rese dalla persona offesa dinanzi al tribunale in composizione collegiale prima che ne mutasse uno dei componenti; le persone fisiche giudicanti chiamate ad assumere la decisione erano, quindi, parzialmente diverse rispetto al giudice che aveva presidiato l'assunzione della prova dichiarativa, che era stata dichiarata utilizzabile in forza di consenso prestato da uno solo dei difensori, costituitosi anche in sostituzione del collega. La piena utilizzabilità della dichiarazione è stata, poi, confermata all'esito dei giudizi di secondo e terzo grado, sicché il condannato ha adito nuovamente la Corte, in qualità di giudice straordinario, deducendo che il consenso sarebbe stato viziato, in quanto – a suo dire – prestato in modo non conforme ai dettami della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dolendosi, in particolare, della mancata rilevazione, d'ufficio, della questione da parte del giudice di ultima istanza.
La tutela convenzionale al contraddittorio nel processo penale
È ben noto che l'art. 6 CEDU garantisce il giusto processo nella sua più ampia portata e che, al secondo e terzo comma, riservati al processo penale, prevede, nella delicata materia dei crimini, un compendio di diritti più esteso di quello (di cui al primo comma) valevole per tutti i processi. La lettera d) del comma 3, poi, si occupa precipuamente dell'esame dei testimoni, stabilendo che “ogni accusato ha diritto di (…) esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è intervenuta a più riprese sul tema, dotando la norma di un significato stabile e collaudato. Con specifico riguardo ai testimoni dell'accusa, secondo la giurisprudenza in parola, se è pacifico che la Convenzione ha sancito il diritto dell'imputato al loro esame in contraddittorio, cionondimeno, la regola è suscettibile di essere derogata ogniqualvolta ricorra un motivo serio che giustifichi l'assenza del dichiarante. Se, però, il giudizio si conclude con una pronuncia di condanna, onde valutare la legittimità convenzionale dell'utilizzo di prove non assunte in contraddittorio, occorre, preliminarmente, indagarne la rilevanza ai fini della affermazione di responsabilità; orbene, il rischio di un contrasto con i princìpi del giusto processo ricorre in quanto la testimonianza sia “sola o determinante”, cioè quando la condanna dipenda esclusivamente o prevalentemente da essa. Questo primo tassello legittima un'immediata valutazione della sentenza in commento, nella parte in cui rileva che, nella impugnata pronuncia, la Corte di Cassazione, valutando la completezza del quadro probatorio, lo aveva definito “granitico”, in quanto supportato da elementi ulteriori e secondi rispetto alla censurata deposizione della persona offesa: la circostanza abilita già, essa sola, ad escludere la ricorrenza del requisito della esclusività, che la Corte Europea afferma essere la base per vagliare il rispetto dell'art. 6, comma 3, lett. d). I Giudici di Strasburgo chiariscono, poi, che, quandanche sia riscontrata la rilevanza della prova, occorre fornire all'imputato garanzie ulteriori, tali da controbilanciare la deminutio che ha dovuto subire. In quest'ottica, la Corte Europea valuta l'equità del processo nel suo insieme, tenendo conto altresì delle esigenze pubbliche di giustizia, nonché di quelle delle vittime. La prova dichiarativa assunta dinanzi a collegio in diversa composizione
La doglianza del ricorrente, a ben vedere, atteneva specificamente alla mancata rinnovazione dell'escussione della persona offesa: come cennato, l'utilizzabilità del suo ascolto dinanzi a collegio poi mutato era stata dichiarata nel giudizio di primo grado in forza del consenso prestato da uno dei difensori dell'allora imputato, costituitosi anche in sostituzione del collega codifensore e poi confermata espressamente in sede di appello; alla luce di ciò, il condannato deduceva la mancata rilevazione d'ufficio della questione da parte della Suprema Corte. L'interpretazione dell'art. 525, comma 2 c.p.p., da cui, come noto, deriva l'obbligo di rinnovare l'istruttoria in caso di mutamento del giudicante, ha subìto una recente sterzata con la sentenza delle Sezioni Unite n. 41736 del 2019, la quale ha chiarito la irrilevanza del consenso eventualmente prestato dall'imputato, inidoneo a sanare la nullità comminata dalla norma, vista la sua natura dichiaratamente assoluta. È, al contrario, onere delle parti formulare le richieste di rinnovazione, richieste che, però, vengono rimesse al sindacato del giudice circa la loro ammissibilità; la rinnovazione del dibattimento fin dalla sua apertura reimmette il giudicante, infatti, nel pieno dei suoi poteri di quella fase, con la conseguenza che vi rientra la possibilità di non ammettere le prove richieste (anche) in quanto superflue. È doveroso trattare, poi, la (altrettanto recente) pronuncia della Corte Costituzionale in argomento, la quale ha dato atto della prassi che vede irrimediabilmente frustrata la volontà di concentrazione del legislatore del 1988, che si era spinto ad anelare la conclusione del processo penale, di regola, in un'unica udienza (art. 477 c.p.p.). Dalla provata irrealizzabilità di tale ambizione consegue la necessità, anche per il giudice che ha ascoltato i testimoni di avvalersi più dei verbali di udienza trascritti che della sua memoria; ne emerge la notevole riduzione della portata dell'art. 525, comma 2 c.p.p., in concreto inidoneo ad assicurare maggiori garanzie per l'imputato. Il Giudice delle Leggi, dunque, nel dichiarare inammissibile la questione sottoposta al suo scrutinio, ha rivolto un monito al legislatore affinché intervenga a rendere più razionale la materia. Anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha iscritto tra i tasselli del giusto processo la coincidenza tra il giudicante “della prova” e quello “della sentenza”; cionondimeno, anche in questo caso, i giudici di Strasburgo ammettono delle eccezioni, la cui legittimità è, però, condizionata acché il nuovo giudice sia messo nelle condizioni di conoscere compiutamente la piattaforma probatoria. Come si vede, dunque, la doglianza del ricorrente, incentrata sulla viziata manifestazione del consenso, oltre ad essere irrilevante alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza domestica, non si pone, in quanto tale, in contrasto con i diritti garantiti dall'art. 6 CEDU. Il (brevemente riassunto) merito della questione non viene esplorato dalla pronuncia in commento, la quale si limita a motivare circa l'assorbente inammissibilità del ricorso. Il rimedio straordinario di cui all'art. 625-bis c.p.p., che mira alla “correzione dell'errore materiale o di fatto”, è stato introdotto su impulso della Corte Costituzionale e, fin dal suo ingresso nell'ordinamento, è stato oggetto di plurimi dibattiti giurisprudenziali e dottrinari, la maggior parte dei quali è stato risolto estendendone i confini. Nella ponderosa ricerca di un equilibrio tra stabilità del giudicato e giustizia sostanziale, le Sezioni Unite sono intervenute più volte sull'argomento, chiarendo che, sebbene non sia in discussione la natura eccezionale della norma (di cui infra), cionondimeno, i lemmi che la compongono possono essere letti più o meno estensivamente Tale tendenza si è registrata con riguardo alla possibilità di ricorrere in via straordinaria avverso le pronunce di condanna al solo risarcimento del danno, di annullamento parziale con rinvio alla Corte d'Appello ai soli fini della quantificazione della pena e dei provvedimenti con cui la Corte di Cassazione rigetta o dichiara inammissibile il ricorso proposto contro la sentenza o l'ordinanza di rigetto o inammissibilità dell'istanza di revisione. Per vero, accanto ai molteplici dubbi ermeneutici annidantisi nell'art. 625-bis c.p.p., siedono le nozioni pacifiche di errore materiale e di fatto, definite, ad appena un anno dall'entrata in vigore della norma, rispettivamente, il “frutto di una svista, di un “lapsus” espressivo, da cui derivano il divario tra volontà del giudice e materiale rappresentazione grafica della stessa e la difformità tra il pensiero del decidente e l'estrinsecazione formale dello stesso” e “un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall'influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall'inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso”. Tali definizioni, poi, sono state conservate e condivise dalla giurisprudenza successiva, che non ha mancato di ribadire la estraneità di ogni valutazione giuridica; il diritto, suscettibile di essere devoluto attraverso i rimedi ordinari, incontra, dunque, il limite del giudicato e costituisce il confine mai varcato dell'ambito di applicabilità del ricorso straordinario. In forza di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, afferma l'inammissibilità del ricorso basato su una ipotizzata violazione della CEDU, vizio che, per sua natura, abbisogna di un ragionamento giuridico apprezzabile in termini di opinabilità, che contrasta con la descritta essenza del rimedio. L'ipotizzata violazione delle regole convenzionali nel processo a quo è estranea dall'ambito di applicazione del rimedio in discorso, non solo in quanto errore di diritto, ma altresì in ragione di una preclusione procedurale; una volta esauriti i rimedi interni, cioè, il vizio di tal fatta va rilevato agendo direttamente dinanzi alla Corte Europea. L'Art. 35 CEDU, infatti, afferma che “La Corte non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne (…)”, “vie di ricorso” che, ha chiarito la Corte Europea, sono solo le impugnazioni ordinarie, esaurite infruttuosamente le quali, quindi, il cittadino che si ritiene leso può adire direttamente il Giudice sovranazionale. Una volta ottenuto l'accoglimento del ricorso, poi, il ricorrente vittorioso vanta il diritto ad ottenere la riapertura del processo ai sensi dell'art. 46 CEDU e può pretendere che lo Stato di appartenenza (condannato) si adoperi per rimetterlo nelle condizioni in cui verserebbe in mancanza di violazione delle constatate garanzie procedurali. Infatti, l'art. 46 CEDU afferma che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”, imponendo, dunque, agli Stati, l'onere di uniformare i propri processi ai dettami della Corte di Strasburgo; la norma deve essere interpretata in combinato disposto con l'art. 41 CEDU, che stabilisce che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa.”, disposizione comunemente interpretata come residuale, dovendo, lo Stato condannato, prima di tutto provvedere alla restitutio in integrum e, solo ove la stessa sia impossibile, al risarcimento del danno. Dalla lettura coordinata delle due disposizioni, pertanto, emerge l'obbligo per gli Stati di dotarsi di strumenti processuali finalizzati a garantire la rimozione ab origine del vizio eventualmente riscontrato dalla Corte Europea; senza dubbio, deve trattarsi, in dettaglio, di mezzi di impugnazioni straordinaria: l'obbligo di previo esaurimento dei ricorsi interni, infatti, implica logicamente che il provvedimento impugnato in sede sovranazionale sia è sempre definitivo. È noto il travagliato iter che la giurisprudenza italiana, in mancanza di istituti ad hoc, ha seguito per consentire l'adeguamento del processo penale alle patite pronunce di condanna, iter culminato nella sentenza 113/2011, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 630 c.p.p. “nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per confermarsi ad un sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo” (c.d. “revisione europea”). Orbene, prima di tale approdo, con la celebre sentenza Drassich, la Corte di Cassazione aveva ritenuto utilizzabile, allo scopo, il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, negandone la natura eccezionale e di conseguenza affermandone la applicabilità analogica; il rimedio, dunque, negli anni che precedettero la introduzione della c.d. revisione europea, fu impiegato in applicazione dell'art. 46 CEDU. Tuttavia, la eccezionalità dell'art. 625-bis c.p.p., precipitato della sua straordinarietà e del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, è, al netto di questa singola esperienza, un dato pacifico. Ed infatti, nella pronuncia in commento, la quarta Sezione rileva la situazione emergenziale nella quale tale impiego analogico è avvenuto; il riferimento è, probabilmente, da imputarsi alla circostanza che, al tempo, l'Italia fosse l'unico Stato privo di un rimedio teso a riaprire il processo a seguito di condanna da parte della Corte EDU, situazione di stallo che permaneva nonostante la Consulta avesse intimato al legislatore un pronto intervento: forzare il sistema appariva “il male minore”. L'eccezionalità del ricorso straordinario non è, però, la ragione per la quale la Corte Costituzionale del 2011 ha inciso sull'art.630 c.p.p. piuttosto che confermare la suesposta posizione del giudice di legittimità: la inadeguatezza del rimedio viene ravveduta nella possibilità di rilevare, suo tramite, solo i vizi verificatisi in sede di giudizio per cassazione, restando arbitrariamente ed insopportabilmente escluse le violazioni dei gradi precedenti. Per espressa previsione legislativa, infatti, “è ammessa la correzione (…) nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di Cassazione”, disposizione che ha l'ovvia ratio di consentire l'emenda di errori altrimenti permanenti; è il rimedio stesso che trova l'essenza nel suo oggetto: se non si trattasse di provvedimenti di ultima istanza, il ricorso straordinario non si spiegherebbe. Il tema impone di aprire una parentesi al fine di rilevare che la pronuncia in commento, incidentalmente, annovera tra i motivi per cui il ricorso è inammissibile, altresì, il momento in cui il vizio lamentato si è verificato: il giudizio di primo grado, eventualità che, già di per sé, preclude il ricorso straordinario. Anche in considerazione di quest'ultimo rilievo, dunque, si può notare come la richiesta di correzione avanzata dal condannato si risolvesse, sostanzialmente, in una terza impugnazione “ordinaria”, in un tentativo, cioè, di incardinare un quarto grado di giudizio. |