Reati in materia di amianto: indagine sul nesso di causa in ipotesi di successione di apicali

10 Luglio 2020

È certamente assai arduo affrontare un argomento come quello della prova del nesso di causa in situazioni di acclarata esposizione ad amianto riferibili a unità produttive all'interno delle quali si siano avvicendate varie figure apicali con posizioni di garanzia.
Introduzione

È certamente assai arduo affrontare un argomento come quello della prova del nesso di causa in situazioni di acclarata esposizione ad amianto riferibili a unità produttive all'interno delle quali si siano avvicendate varie figure apicali con posizioni di garanzia.

E proprio in casi come questi, infatti, che assume la massima rilevanza il tema cruciale delle esposizioni alla noxa successive a quelle che avrebbero determinato l'insorgenza del processo patologico e quindi alla evidenza scientifica o meno del c.d. effetto acceleratore.

Si tratta del problema delle esposizioni successive.

È noto che, proprio sull'evidenza scientifica o meno dell'effetto acceleratore, sulla scia della sentenza Cass. pen., n. 43786/2010 - Cozzini, la più recente giurisprudenza della Suprema Corte ha assunto una posizione assai rigorosa e tale da rendere molto ardua - se non impossibile - la prova del nesso di causa ove ci si trovi ad affrontare, appunto, imputazioni che vedano coinvolti vari soggetti apicali che si succedano l'un l'altro nelle posizioni di garanzia.

In precedenza la giurisprudenza di legittimità aveva assunto posizioni diverse e, partendo da un principio fondamentale e cioè che la comunità scientifica prevalente avesse validato il c.d. effetto acceleratore quale legge di copertura, aveva ritenuto la rilevanza, dal punto di vista del nesso causale, di tutte le esposizioni successive a quelle che avevano determinato l'insorgenza della patologia sia pur entro il limite della conclusione della fase dell'induzione e quindi dell'inizio di quella fase nota come “latenza clinica”, caratterizzata dall'irreversibilità della patologia tumorale che rende pertanto irrilevanti le eventuali ulteriori esposizioni.

Questa linea interpretativa venne assunta - ad esempio – dalle sentenze Cass. pen., n. 22379/2015, Sandrucci; Cass. pen., n. 33311/2013, Ramacciotti, dalla Cass. pen., n. 24997/2012, Pittarello e soprattutto dalla sentenza Cass. pen., n. 4560/2018, Negroni e – sia pur con qualche distinguo - dalla sentenza Cass. pen.,n. 22022/2018, Tupini.

Ebbene, secondo queste pronunce – sintetizzando al massimo - nel caso di decessi da esposizione ad amianto il nesso causale sussiste se, applicando leggi scientifiche universali o statistiche ovvero il metodo controfattuale e pur non essendo possibile determinare con esattezza il momento d'insorgenza della patologia, si raggiunga comunque la prova che la condotta doverosa omessa avrebbe potuto incidere sul tempo di latenza o di decorso della malattia.

La risposta che veniva data era positiva in quanto l'effetto acceleratore veniva considerato quale vera e propria legge di copertura scientifica.

Molto interessante, in particolare, proprio la sentenza della Cass. pen., Sez III, n. 4560/2018- Negroni che ha ritenuto specificatamente e richiamandosi alle conclusioni di una perizia ad hoc, proprio la sussistenza dell'effetto acceleratore da valutare come legge di copertura in quanto largamente accreditata scientificamente.

Conseguenza di tale interpretazione era la rilevanza delle esposizioni successive alla noxa entro il limite della latenza clinica.

L'anticipazione o comunque accelerazione, secondo questa pronuncia, andrebbe considerata come aumento del rischio di contrarre patologie asbesto-correlate con consequenziale rilevanza, quali fattori causali, di tutte le esposizioni ad amianto avvenute –appunto- entro la fase della latenza clinica (caratterizzata –come si è anticipato- dall'irreversibilità conclamata della patologia) e non solo delle prime esposizioni in ordine cronologico.

A ben diverse conclusioni sono giunte invece altre e recenti sentenze della S.C. tra le quali la Cass. pen., n. 5505/2017, la Cass. pen., n. 1870/2018, la Cass. pen.,n. 25125/2018 e la Cass. pen.,n. 43665/19, pronunce che veicolano principi del tutto antitetici a quelli appena cennati che sposano o la tesi del “dubbio” in ordine alla validità dell'effetto acceleratore quale legge di copertura o comunque esigono uno standard probatorio assai “estremo”.

In queste sentenze, infatti, viene valorizzata la causalità individuale, causalità che viene posta in relazione ai singoli periodi di apicalità dei dirigenti avvicendatisi nell'insediamento produttivo e si esige da parte della pubblica accusa di “pesare” le esposizioni avendo come riferimento cronologico le posizioni di garanzia dei vari apicali.

Si tratta della questione dei c.d. sub-periodi.

Secondo queste pronunce mancherebbe una prova certa in ordine all'esistenza dell'effetto acceleratore quale legge di copertura accreditata dal consesso scientifico e quindi non sarebbe possibile dare rilevanza alle esposizioni successive a quelle, iniziali, che avrebbero, da sole, determinato l'insorgenza della patologia.

Esemplare al riguardo la sentenza Cass. pen., n. 5505/2017 (Tosi) con la quale si afferma come il c.d. effetto acceleratore non possa in alcun modo “considerarsi evenienza affermata da un sapere scientifico consolidato e che anche il solo serio dubbio in seno alla comunità scientifica attinente un meccanismo causale rispetto all'evento è motivo più che sufficiente per assolvere l'imputato”.

Sulla stessa linea della citata sentenza n. 5505/2017 si è posta la sentenza della Cassazione n. 25125/2018 nella quale si afferma come, sempre con riferimento all'effetto acceleratore, “il dibattito scientifico sia ancora aperto” e come non vi sia copertura scientifica con riferimento al “dato della riduzione del periodo di latenza in ragione di una più prolungata ed intensa esposizione alle fibre di amianto”.

Va detto, prima facie, come in tutte le pronunce appena citate – sia in quelle che ritengono sussistente l'effetto acceleratore sia in quelle che invece lo ritengono non adeguatamente provato - si parte comunque da un presupposto probatorio identico e cioè una prolungata e accertata esposizione diretta o indiretta alla noxa e alla certezza di diagnosi circa la riconducibilità della morte all'inalazione di amianto aereodisperso.

Senza il raggiungimento di questo standard probatorio di natura, come dire, oggettiva ogni discorso sul nesso di causa o sull'effetto acceleratore sarebbe inutile.

Secondo il filone giurisprudenziale che “sposa” la rilevanza delle esposizioni successive - sia pur nel già evidenziato limite della fase della latenza clinica- la responsabilità per gli eventi dannosi legati all'inalazione di amianto, pur in assenza di tempi certi circa l'innesco effettivo della malattia, va attribuita causalmente alla condotta omissiva dei soggetti che si sono succeduti nel tempo nella gestione aziendale anche se per una parte soltanto del periodo di esposizione del lavoratore, e ciò in quanto tali condotte hanno ridotto – nell'ambito della rispettiva gestione- i tempi di latenza della patologia ovvero ne hanno comunque accelerato i tempi di insorgenza.

Queste pronunce ritengono, con riferimento alla vexata quaestio dell'esistenza di una legge scientifica condivisa che definisca in modo incontrovertibile i complessi meccanismi causali del mesotelioma e dell'effetto acceleratore, come nel campo del diritto non possa essere imposta la prova dell'esistenza di una legge scientifica che abbia riconoscimento unanime o comunque un'aurea di assolutezza inoppugnabile al 100%.

La conseguenza è che (si cfr. sul punto la sentenza delle Sezioni Unite Cass. pen., n. 9163/2005 - Raso), per ritenere la validità di una legge di copertura si può certamente attingere alle conclusioni scientifiche più generalmente accolte e più condivise alla luce della mutevolezza e relatività del pensiero scientifico che è notoriamente in continua evoluzione ed è, per citare Karl Popper, un pensiero “falsificabile”.

Non è richiesta l'unanimità.

In ambito scientifico, salvo alcune voci dissonanti, è certamente maggioritaria e condivisa la tesi che vede la rilevanza dell'effetto acceleratore e, soprattutto, del dato clinico secondo il quale l'accumulo delle fibre negli organi bersaglio delle sostanze cancerogene accresce la probabilità di malattia e ne accelera inesorabilmente gli effetti mortali.

Ne deriva la rilevanza delle esposizioni e, dal punto di vista penale, l'assoggettabilità a titolo di colpa per i reati di omicidio o lesioni colpose delle condotte riferibili ai vari soggetti garanti avvicendatisi l'un con l'altro nelle apicalità all'interno di una medesima azienda.

Purtuttavia, come si è già anticipato, alcune e recenti sentenze hanno assunto diverse conclusioni proprio avuto riguardo alle fattispecie concrete di successione -nel tempo dell'esposizione del lavoratore alla noxa- di vari soggetti apicali nell'ambito della stessa unità produttiva con frazionamento, quindi, delle relative posizioni di garanzia.

E questo è il tema specifico da approfondire.

Sub periodi e apicalità

Una delle prime sentenze ad affrontare il problema fu la Cass. pen., n. 5273/2017.

In questa pronuncia si afferma come il postulato dell'incidenza di ciascuna esposizione non è affatto sufficiente a risolvere il problema causale e che, durante il periodo di esposizione rilevante, è necessario distinguere i vari sub-periodi in relazione all'avvicendarsi di vari garanti.

Nei confronti di costoro occorre quindi porsi il fondamentale problema di dover provare come, proprio nell'ambito di quel sub–periodo riferibile a quel singolo garante, si sia determinata l'insorgenza ovvero l'ulteriore evoluzione del processo patogenetico.

Viene quindi posto il problema del “peso” delle esposizioni da riferire a ciascun garante.

Il giudice quindi – secondo questa pronuncia- sarebbe tenuto a individuare le evidenze fattuali che permettano di affermare che in ogni sub-periodo si sia prodotto quell'effetto acceleratore che, in via teorica, è stato ritenuto accreditato e condiviso in prevalenza dalla comunità scientifica.

In conclusione viene richiesto dal punto di vista probatorio un accertamento specifico in ordine alla verificazione in concreto di quell'abbreviazione della latenza (che è proprio l'aspetto più significativo l'effetto acceleratore) non solo con riferimento ai vari lavoratori esposti ma anche avuto riguardo ai singoli apicali nell'ambito di una rigorosa causalità individuale.

Sulla medesima linea interpretativa si è posta la sentenza Cass. pen., n. 25125/2018 che ha affermato alcuni principi che si possono così sintetizzare:

  • sarebbe altamente problematico il tema della prova del nesso di causa «in costanza di titolari di obblighi di protezione che si alternino nella posizione di garanzia così da suddividere il periodo di esposizione in sub periodi da cui discende l'esigenza di valutare separatamente la responsabilità di ciascun garante nel periodo di riferimento»;
  • anche ritenendo valida la teoria dell'effetto acceleratore, sarebbe necessario indagare i casi di causalità individuale in concreto, dovendosi appurare in modo rigoroso se, nell'ambito della singola apicalità e del singolo lavoratore, si sia realizzato o meno l'effetto acceleratorio che ben avrebbe potuto operare in un singolo segmento temporale ma in un altro no;
  • appare assai dubbia la posizione di tutti quei soggetti apicali che avevano assunto la posizione di garanzia a distanza temporale elevata (tra i 20 e i 30 anni) rispetto alle prime esposizioni alla noxa dovendosi ritenere improbabile che le loro condotte -ancorché colpose- avrebbero potuto incidere sull'evoluzione o sull'accelerazione della malattia.

Queste stesse argomentazioni fa proprie, infine, la sentenza Cass. pen., n. 43665/2019 che, inoltre, ha modo di sottolineare alcuni aspetti specifici che rendono certamente ancor più complessa - se non impossibile - la possibilità di provare il nesso di causa in tutti i casi di sub periodi di apicalità in successione.

In questa pronuncia si afferma in particolare:

  • che non vi sarebbe un certo accreditamento scientifico di una legge di copertura a carattere universale che possa sostenere la teoria c.d. “multistadio” e quindi la sostenibilità del c.d. “effetto acceleratore”;
  • che sarebbe del tutto incerta una tempistica realmente scansionabile cronologicamente con la quale stabilire la successione degli eventi mutageni;
  • che sarebbe incerto sia il momento preciso della c.d. “iniziazione” sia la durata del processo di c.d. “induzione” della cancerogenesi;
  • che sarebbe del tutto incerto il momento del c.d. “failure time” (e quindi l'irreversibilità della patogenesi) con la conseguente impossibilità di stabilire in modo univoco a quale dei garanti che si siano avvicendati nelle posizioni apicali di un'azienda e con quale “peso”, possa essere attribuita la responsabilità per gli eventi lesivi;
  • che sarebbe del tutto incerta l'esistenza di una legge di copertura scientifica idonea ad assumere che tutte le esposizioni intervenute prima dei 15 anni di c.d. latenza minima avrebbero rilevanza causale;
  • che sarebbe impossibile valorizzare dal punto di vista probatorio l'approccio epidemiologico che, come tale, non potrebbe condurre a una valutazione dei casi con criteri deterministici ma solo in termini di probabilità o comunque statistici.

In conclusione si afferma che il processo di cancerogenesi è un processo stocastico e, come tale, è certamente vero che l'aumento di esposizione aumenta la probabilità di un evento, purtuttavia dal punto di vista strettamente scientifico non si ha alcuna certezza che ciò accada invariabilmente e si resta comunque nell'alveo di un modello meramente matematico o comunque probabilistico-statistico e, come tale, inidoneo a valutare la specificità dei singoli casi concreti.

Tutte queste pronunce pongono infatti l'accento sulla causalità individuale e affidano alla pubblica accusa il gravoso compito di provare - al di là di ogni ragionevole dubbio - se le condotta contestate ai vari imputati alternatisi tra loro nelle varie posizioni di apicalità abbiano avuto rilevanza causale nella genesi delle patologie correlandole altresì alla durata delle stesse apicalità frazionate nel tempo.

Si tratta, ci pare evidente, di una prova assai severa se non sostanzialmente impossibile.

E questo per un motivo assai semplice: la comunità scientifica, allo stato dell'arte, non è in grado di fornire dati cronologici certi sia in ordine all'individuazione del momento dell'iniziazione del carcinoma sia a quello in cui si completa e giunge a compimento la fase dell'induzione.

Iniziazione, effetto acceleratore, conseguenze

Nel partire dal concetto di iniziazione che, come si è visto, avrebbe un'importanza fondamentale per poter eventualmente “pesare” le singole esposizioni nel caso di successione di vari soggetti apicali con acclarata posizione di garanzia, ci appare evidente come non possa essere raggiunta alcuna certezza scientifica circa la scansione cronologica e il reale momento di attivazione di questa fase.

Per iniziazione (si cfr Cass. pen.,Sez IV n. 55005/2017- Tosi) si intende quella fase in cui «si attiva irreversibilmente quel meccanismo che, attraverso costanti infiammazioni, porterà alla cangerogenesi».

Questa definizione giurisprudenziale è corretta e condivisibile ma non risolve il problema cronologico.

E ciò in quanto l'iniziazione in sé - secondo la scienza maggiormente accreditata - resta comunque solo una potenzialità che insorge allorquando un soggetto entri in relazione con un agente patogeno e quindi allorquando un soggetto inizi la sua esposizione lavorativa a tale agente.

Per gli scienziati e gli studiosi di questa materia è pacifico di come il primo contatto, la prima esposizione alla noxa, di per sé si limita esclusivamente a creare le condizioni per una situazione di pericolo ma in un'ottica solo “potenziale”.

Non è assolutamente scontato che le prime esposizioni - e solo quelle - siano quelle decisive per indurre la patogenesi tumorale e questo proprio perché la scienza non è in grado di indicare il momento preciso in cui ciò avviene.

In sintesi possiamo affermare che, pur essendo certa la cancerogenicità dell'amianto, l'esposizione a questo agente comporta esclusivamente un incremento di probabilità in ordine all'induzione e allo sviluppo di una specifica affezione tumorale (ad esempio il mesotelioma o il carcinoma polmonare) ma non può in alcun modo essere individuata come “inizio” vero e proprio.

La fase dell'iniziazione rappresenta infatti solo una sorta di ipotesi di lavoro ma non si può in alcun modo affermare che, in esito a questa iniziale esposizione, si inneschi certamente e vada a progredire una specifica patologia neoplastica.

Con l'iniziazione, in realtà e sempre secondo gli studiosi, si dà solo il “via” a una situazione di pericolo e specificamente quello - meramente potenziale - di poter (forse) innescare un mesotelioma o comunque una cancerogenesi di altro tipo.

Il dato certo è che, allo stato, non è scientificamente individuabile il momento preciso dell'iniziazione.

Ancora più complesso è l'approccio scientifico con riferimento all'effetto acceleratore e alla rilevanza da dare alle esposizioni successive a quelle iniziali e quindi a tutto quel complesso di accadimenti posteriori alla fase dell'iniziazione e fatta salva –ovviamente- la fase della latenza clinica che assai poco rileva poiché -come si è già detto - in tale fase il carcinoma è ormai irreversibile e le ulteriori esposizioni sono del tutto irrilevanti ai fini del progresso della malattia.

Abbiamo già precisato come, proprio con riferimento al valore da dare all'effetto acceleratore, la Cassazione, nelle sue più recenti pronunce, abbia assunto una posizione molto netta ritenendo non possa assurgere a legge scientifica di copertura poiché l'assunto non sarebbe largamente condiviso dalla comunità scientifica.

L'impossibilità di conferire valenza di legge di copertura all'accelerazione in costanza di esposizioni, la difficoltà di fornire scansioni cronologiche certe sull'inizio e lo sviluppo della malattia e, infine, la necessità di scrutinare profili di successioni di apicali all'interno di una medesima azienda o complesso produttivo ha una prima e fondamentale conseguenza di natura processuale: in concreto appare sostenibile solo un'accusa veicolata nei confronti di unità produttive gestite da un solo o da pochi soggetti apicali che abbiano assunto posizioni di garanzia per un lungo e continuativo lasso di tempo.

Questo profilo emergerà in modo chiarissimo alla luce di una recentissima sentenza da Cass. pen.,n. 12151/2020, Magliola sulla quale a breve torneremo.

I giudici di legittimità, infatti, sostengono in modo chiaro che, anche a voler ritenere la sussistenza quale legge di copertura scientifica dell'effetto acceleratore, quest'effetto non sarebbe altro che la descrizione di una legge meramente probabilistica e quindi -dal punto di vista probatorio- non sufficiente a fondare un'affermazione di penale responsabilità.

In conclusione, sempre secondo questo filone giurisprudenziale, occorrerebbe porsi in un'ottica di causalità individuale e comunque legata al singolo caso processuale e quindi, per sostenere l'accusa, sarebbe necessario ottenere un riscontro probatorio circa la sussistenza nel caso (o nei casi) sottoposti al vaglio dibattimentale di un effetto acceleratorio indagando con rigore le singole causalità individuali.

Tale prova, secondo i giudici di legittimità, avrebbe dovuto essere ricercata proprio nell'eventuale abbreviazione della latenza per i lavoratori la cui esposizione era stata maggiormente protratta nel tempo, abbreviazione della latenza che è davvero il “cuore” dell'effetto acceleratore e il dato empirico più rilevante in quanto accelera –appunto- in esito alla permanenza delle esposizioni alla noxa il falilure time.

Il punto è proprio questo – ed è quello sul quale dubita la recente giurisprudenza di legittimità - e cioè se tale accelerazione in costanza di esposizioni abbia valore di legge scientifica di copertura.

Si tratta, ictu oculi, di una richiesta di prova assai ardua che dovrebbe superare un vaglio e una validazione scientifica nel singolo caso calandolo non solo sulle eventuali, varie apicalità succedutesi lungo la vita lavorativa del lavoratore ma imponendo anche un calcolo o comunque una valutazione in concreto circa l'abbreviazione della latenza all'interno di quella stessa, frazionata apicalità.

Profili scientifici e probatori

Affrontiamo ora il tema – decisivo - di ciò che afferma la scienza al riguardo e, soprattutto, di quanto le affermazioni scientifiche possano incidere in concreto sui profili probatori richiesti alla Pubblica Accusa.

Al riguardo va detto che, per gli scienziati, l'accelerazione del tempo è un dato pacifico ma questi stessi scienziati affermano che si tratta pur sempre di un fenomeno valutabile esclusivamente su basi probabilistico/statistiche.

La conseguenza – assai rilevante - è che non è assolutamente possibile, applicando quest'approccio scientifico, rinvenire prove empiriche dell'”effetto acceleratore” nei singoli casi concreti mediante la valutazione della latenza, prova che è invece richiesta dall'attuale giurisprudenza della S.C. che si è posta sulla scia della sentenza Cozzini e che abbiamo già più volte citato.

La stessa iniziazione – lo abbiamo già detto- è concetto altamente problematico in quanto è una fase solo “potenziale”.

Nessuno sa o può affermare, ad esempio, che l'iniziazione – così come l'abbiamo definita- avvenga sempre e comunque nelle prime fasi dell'esposizione all'amianto o comunque in tempo determinato o determinabile.

Dare un tempo certo sarebbe un'opzione logicamente compatibile e corretta solo se si conoscesse l'effettiva probabilità dell'accadimento degli eventi con precisione sufficiente e comunque tale da poterne calcolare le probabilità.

Cosa che allo stato non è dato sapere.

Una volta esposti non si può sapere se e quando si sarà “iniziati” alla patologia e questo perché, allo stato dell'arte e delle conoscenze scientifiche, non esiste una tempistica certa e quantificabile che consenta di individuare l'esatto momento in cui avviene la trasformazione della cellula.

Quanto all'effetto acceleratore, secondo il più accreditato pensiero scientifico, è pacifico che, in persistenza di esposizioni, non possano che aumentare le probabilità che si producano effetti rilevanti ai fini della cancerogenesi e del suo processo nel tempo.

E infatti, al riguardo, tutti gli studiosi sono concordi nell'affermare che le esposizioni successive non sono tanto la causa dell'accelerazione ma ne sono la probabile ragione.

E, sotto questo specifico profilo, il verbo “causare” e il termine “probabile” fanno davvero la differenza perché, letti in combinato disposto, ineriscono a una semplice maggior probabilità di avanzamento e non a una certezza matematica e perimetrabile.

In conclusione: l'avanzamento (e quindi l'accelerazione) è tanto più probabile quanto maggiore è l'esposizione alla noxa.

Questa conclusione, che si basa su un approccio puramente scientifico che sposa la via “probabilistica” (che è l'unica seria e attendibile per la valutazione di fenomeni così complessi), appare perfettamente in linea con l'osservazione empirica- oggetto di vari studi- secondo cui il rischio di mesotelioma cresce con l'aumentare dell'esposizione cumulativa all'amianto, senza alcun limite di sorta.

Sul punto abbiamo esistono numerosi riscontri ai massimi livelli scientifici quali - ad esempio - la Seconda Consensus Conference, il Quaderno del 15/2012 del Ministero della Salute e la Terza Consensus Conference.

È quindi difficile (come opinano molte e recenti pronunce della S.C.) negare che la relazione della cancerogenesi con l'esposizione cumulativa sia argomento di ampio consenso come è facile affermare che le voci dissonanti siano ben meno numerose (se non episodiche) e spesso veicolate nei procedimenti penali da consulenti tecnici di parte nominati da complessi produttivi estremamente interessati agli esiti processuali per i profili risarcitori a questi connessi.

In estrema sintesi - per quanto concerne l'effetto acceleratore - si può affermare che la diminuzione ovvero l'anticipazione del tempo all'evento morte è un fenomeno valutabile esclusivamente in un'ottica statistico-probabilistica che si basa su sudi epidemiologici e, come tale, di valenza generale e conseguentemente ben poco utilizzabile per valutare le singole causalità individuali.

Se quindi l'accelerazione del tempo è pacifica ma si tratta di un fenomeno valutabile solo su basi probabilistico/statistico/epidemiologico e se non è assolutamente possibile rinvenire prove empiriche dell'effetto acceleratore nei singoli casi concreti mediante la valutazione della latenza, si pone un problema probatorio che appare irrisolvibile essendo esattamente questo lo standard probatorio richiesto dall'attuale giurisprudenza della S.C. posta sulla scia della sentenza Cozzini.

I sub periodi e il paradosso probatorio

Da quanto abbiamo sino ad ora esposto pare evidente che, dal punto di vista probatorio, si è creato un vero e proprio “cul de sac”, una sorta di corto circuito tra diritto giurisprudenziale e scienza.

Davvero arduo appare - in particolare - il ruolo del Pubblico Ministero allorquando si trova ad affrontare il delicatissimo tema di valutare, nei procedimenti in materia di amianto, la sostenibilità dell'accusa in giudizio in tutti i casi si ponga un problema di sub-periodi.

L'organo requirente, infatti, è costretto a cimentarsi in un irrisolvibile dilemma quando pone a confronto le conclusioni della scienza da una parte e i principi di diritto enucleati dalla Cassazione (che dettano i criteri di valutazione probatoria del sapere scientifico nei procedimenti penali in tema di amianto) dall'altra.

Affermiamo ciò in quanto, se l'accelerazione si basa su analisi del rischio e calcolo della probabilità (che abbiamo visto essere uno standard probatorio ritenuto inadeguato nel settore penale dalla S.C.) e occorre contestualmente valutare, nell'ambito della causalità individuale, l'esposizione cui è stato assoggettato il singolo lavoratore tenendo anche conto della durata delle apicalità dei garanti e in concreto, appare evidente che quel che viene richiesto al Pubblico Ministero è una vera e propria “probatio diabolica”.

Vediamo perché.

Abbiamo preso atto che il dato probatorio ormai pacificamente richiesto dalla Cassazione è quello - nell'ottica del già richiamato principio che la responsabilità penale è personale - di stabilire il “peso” delle singole esposizioni in concreto patite dal o dai lavoratori in relazione ai vari soggetti apicali e garanti succedutisi in azienda e quindi nell'ambito dei sub-periodi.

A questo punto il problema – serio - è quello di verificare se è possibile quantificare, con riferimento a tale soggetto nell'ambito – appunto - del “sub-periodoquanto questo periodo limitato di apicalità abbia potuto “pesare” ai fini dell'esposizione del lavoratore all'agente patogeno e quanto abbia contestualmente inciso nell'abbreviazione della latenza, così accelerando il failur time.

Se questo è il quesito occorre brevemente richiamare in modo netto qual è stata la risposta della scienza su tale aspetto specifico, aspetto che abbiamo già trattato ma che ora occorre sussumere nel ragionamento probatorio, per valutare se un tale standard sia esigibile o meno.

La risposta è chiara e al tempo stesso frustrante per la Pubblica Accusa: nessuno scienziato o studioso della materia, argomentando sul concetto di latenza dal punto di vista strettamente scientifico e calandolo sulla causalità individuale (e quindi sul singolo caso concreto), potrà dare risposte soddisfacenti e probatoriamente rilevanti circa la sussistenza dell'effetto acceleratorio nel caso singolo.

E questo per due ordini di ragioni:

  • la prima è che la latenza non ha alcuna relazione con l'accelerazione del tempo all'evento. Il disegno degli studi epidemiologici, infatti, implica sempre confronti a durata (di osservazione) costante, e non a incidenza costante ed è questa la ragione per cui la latenza media non ha alcuna connessione con l'accelerazione del tempo all'evento e lo stesso vale per gli altri parametri della distribuzione di frequenza della latenza.
  • La seconda, ancora più bruciante, è che, quand'anche paradossalmente la latenza fosse invece in relazione con l'accelerazione del tempo all'evento, sarebbe comunque impossibile - caso per caso e quindi nella causalità concreta - stabilire se si sia verificata la sua riduzione e questo per un motivo molto semplice: occorrerebbe – ed è chiaramente impossibile - che i casi potessero vivere una seconda vita, esattamente identica alla prima salvo che per l'esposizione di interesse, per verificare se e quando la malattia sarebbe occorsa.

È quindi assolutamente impossibile, per la scienza, ottenere prove empiriche nel singolo caso e nella causalità individuale perché non è possibile verificare che cosa sarebbe accaduto all'individuo ove fosse stato sottoposto a un'esposizione (o a una condizione) alternativa per un fatto del tutto tranchant: l'individuo è deceduto e non può – putroppo - resuscitare.

Ecco perché riteniamo ci si trovi di fronte a una vera e propria probatio diabolica e a un vero e proprio paradosso probatorio.

Proprio per questo motivo, per evitare il paradosso di un'ipotetica “seconda vita” del soggetto deceduto, la scienza fa ricorso all'epidemiologia e agli studi statistici e risolve quest'oggettiva “impossibilità” di verifica del caso individuale mediante un processo di osservazione rigorosa e sistematica di gruppi di individui sotto esposizioni (o condizioni) alternative.

A nostro avviso, applicando con rigore i criteri scientifici, se si ritiene che le conclusioni cui si perviene attraverso questa tipologia generale di osservazioni epidemiologiche non possono essere applicate agli individui e quindi ai casi singoli – nessuno dei quali per ovvi motivi potrà mai corrisponderà esattamente all'individuo/tipo medio – si giungerà inesorabilmente all'impossibilità di sostenere in giudizio un'accusa ove ci si trovi ad affrontare un problema di sub-periodi.

Purtuttavia questo è lo standard probatorio attualmente richiesto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità che si pone in evidente contrasto con le concrete possibilità della scienza di dare risposte –che abbiano il valore di legge di copertura- nei singoli casi anche se, non si può non evidenziarlo, questo standard è perfettamente in linea dal punto di vista del rigoroso accertamento delle responsabilità penali, con il principio generale e fondamentale che la responsabilità penale è personale il cui rispetto è assai complesso in realtà aziendali ove si susseguano nel tempo varie e diverse figure apicali che spesso operano per brevi periodi o frazioni di tempo.

Siamo comunque assolutamente certi che, ove ponessimo a un perito o a un consulente tecnico dei quesiti specifici sulla scansione dell'induzione del tumore e sul peso delle esposizioni frazionate per i singoli garanti, egli ci risponderebbe che:

  • alla luce delle conoscenze scientifiche attualmente disponibili non sarebbe possibile individuare nel caso singolo il periodo in cui possa essere collocato con precisione il completamento dell'induzione del tumore;
  • alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, non sarebbe possibile stabilire, all'interno della fase di induzione del tumore, la rilevanza in concreto delle singole esposizioni in relazione alla successione dei garanti e in relazione alla eventuale riduzione dell'intensità.

Riteniamo opportuno che gli uffici dei Pubblici Ministeri, ove si trovino ad affrontare il tema dei sub-periodi, facciano valutare da un consulente tecnico tali profili prima di esercitare l'azione penale.

Una recente conferma giurisprudenziale

A confermare quanto abbiamo sino ad ora sostenuto, depone una recentissima sentenza, Cass. pen.n. 12151/2020, che ha trattato il caso di un lavoratore, deceduto per mesotelioma pleurico, che aveva lavorato esclusivamente in una stessa azienda, che aveva una diagnosi di morte non contestata e che aveva subito esposizioni all'agente patogeno amianto pacifiche e perduranti per buona parte della sua vita lavorativa senza che abbiano avuto rilevanza eventuali ulteriori esposizioni “alternative”.

Il dato più significativo che traspare dalla valutazione di questo caso processuale sta nella circostanza che il procedimento ha visto coinvolti esclusivamente due datori di lavoro che avevano assunto una posizione di garanzia per l'intero periodo di lavoro del soggetto deceduto.

Appare evidente di come si tratti di una vicenda nella quale non ha davvero molto senso parlare di effetto acceleratore o di sub-periodi e dove l'onere della prova attenga essenzialmente alla causa di morte e all'esposizione alla noxa -in assenza di esposizioni diverse e alternative.

Appare evidente altresì di come non sia stato necessario in alcun modo “pesare” il contributo causale ascrivibile ai vari apicali poiché l'apicalità era ridotta a soli due dirigenti che avevano “coperto” l'intera vita lavorativa del soggetto deceduto.

La sentenza è comunque interessante perché afferma- o meglio riafferma- alcuni principi e in particolare:

  • ribadisce come la teoria dell'effetto acceleratore non sia “condivisa in modo generalizzato nella letteratura internazionale del settore”, con ciò allineandosi alla giurisprudenza che abbiamo già richiamato e che si è posta sulla scia della sentenza Cozzini;
  • precisa come vi sia un'equazione tra presenza di asbesto e insorgere del mesotelioma, essendo state escluse dagli esperti cause diverse di origine non professionale ed essendo stata accertata l'unicità del rapporto lavorativo e la prestazione dell'attività per tutta la sua durata nello stesso stabilimento della società della quale, per l'intero periodo, furono legali rappresentanti i due imputati;
  • precisa come il nesso causale sia stato accertato non certo facendo riferimento alla teoria dell'effetto acceleratore bensì sull'assenza di qualsivoglia elemento causale alternativo di innesco della patologia.

In ultimo la pronuncia valorizza in modo chiaro la circostanza fattuale della “ridotta” apicalità (due soli legali rappresentanti che hanno coperto tutto il periodo lavorativo della parte offesa) che assurge pertanto a dato probatorio fondamentale.

In motivazione, infatti, si legge:

«Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore per mesotelioma, ove con motivazione immune da censure la sentenza impugnata ritenga impossibile l'individuazione del momento di innesco irreversibile della malattia, nonché causalmente irrilevante ogni esposizione successiva a tale momento, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell'imputato è necessaria l'integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale tra la durata dell'attività lavorativa della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall'imputato nei confronti della stessa (Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019, PG in proc. Abbona Mario, Rv. 276339). Si tratta di condizioni che si sono entrambe realizzate nel caso di specie, come chiarito dal giudice di seconde cura, sicché fuorviante appare anche il rimprovero incentrato sulla critica del riferimento alla teoria dell'effetto acceleratore, il cui richiamo, pur operato dai giudici di merito, si rivela, in concreto, ininfluente sulla decisione».

Come si nota agevolmente questa pronuncia valorizza proprio l'integrale sovrapposizione di apicalità per confermare la sentenza della Corte d'Appello e questo profilo così particolare (e purtroppo raro nelle fattispecie concrete) solleva i giudici supremi dal rischio di “incagliarsi” nelle problematiche dell'effetto acceleratore e dei sub-periodi, che avrebbero dovuto certamente affrontare ove in azienda si fossero avvicendati nel tempo più titolari di posizioni di garanzia in luogo di soli due apicali.

E l'esito processuale sarebbe stato, probabilmente, ben diverso.

La grande questione dei sub-periodi resta quindi aperta e la pronuncia, sia pur nel ribadire la penale responsabilità dei due datori di lavoro, non pare discostarsi per nulla dai principi rigorosi più volte evidenziati e che paiono ormai consolidati presso la S.C.

Resta in particolare irrisolto – ed è un grave vulnus- proprio il problema dei sub periodi che, allo stato, non trova soluzione.

In conclusione

La sentenza che abbiamo brevemente analizzato conferma, sia pur indirettamente, quel che abbiamo sino a ora affermato e cioè che una prognosi di sostenibilità in giudizio sussiste esclusivamente e in concreto solo in casi processuali simili a quello che abbiamo appena trattato e che non impone un “peso” delle varie apicalità nella causalità in concreto.

In tutti i casi di frazionamento nel tempo di varie e non sufficientemente ampie apicalità non è possibile “pesare” le singole posizioni di garanzia in relazione all'esposizione e all'eventuale accelerazione del failure time.

In conclusione, alla luce di quanto abbiamo tentato di argomentare, possiamo affermare che, allo stato, non esistono contributi scientifici che consentano un accertamento delle responsabilità individuali a fronte della successione nel tempo dei vari garanti in posizione apicale.

Non si può che affermare, altresì, l'assoluta carenza di riscontri tecnici per sostenere con un supporto scientifico adeguato che i vari garanti - succedutisi nel tempo - ognuno con un suo “peso” specifico, abbiano contribuito a causare la patologia di un qualunque lavoratore esposto e, soprattutto, quanto sia stato accelerato da ciascuno di loro il failure time.

Osserviamo infine che, alla luce del filone giurisprudenziale ormai prevalente in Cassazione, è stata esclusa la rilevanza probatoria di un approccio epidemiologico, probabilistico, statistico e di oggettivo aumento del rischio, approccio che –ormai è chiaro- è l'unico che la scienza è in grado di supportare.

Esclusa tale strada non resta che prendere atto che è davvero arduo affrontare questa materia con l'approccio tradizionale del diritto penale sostanziale quantomeno in quelle realtà aziendali ove si avvicendino nel tempo diversi soggetti apicali.

La conseguenza paradossale è che solo le aziende con un unico o pochissimi apicali garanti per un tempo significativo e che coprano gran parte della vita lavorativa di un soggetto esposto alla noxa possono essere indagate con una prognosi di sostenibilità dell'accusa in giudizio.

Se le cose stanno così, allo stato, non resta altra strada se non quella che di affrontare la questione nell'ambito della responsabilità civile svincolando i magistrati inquirenti e i giudicanti penali da “prove diaboliche” sulla responsabilità penale degli apicali che si avvicendano nel tempo nell'ambito aziendale, poiché lo standard probatorio appare palesemente inesigibile, come riteniamo di avere dimostra.

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