Quando a fare domande suggestive è il Giudice…

Michele Sbezzi
27 Luglio 2020

Espressamente ed assai significativamente, nella sentenza in parola, si afferma che “… un intervento officioso del giudice con finalità chiarificatrice dei fatti oggetto del processo … trova giustificazione in un processo tendenzialmente accusatorio”. Si fa qui riferimento, nonostante il tenore letterale di quanto riportato, all'evidenza di un uso che è stato giudicato non corretto della facoltà...
Il caso

Un imputato, chiamato a rispondere di fatti particolarmente scabrosi, rubricati sotto l'egida degli artt. 609-bis e 609-quater codice penale, condannato in primo grado solo per il secondo reato, viene riconosciuto colpevole di entrambi i reati dalla Corte di Appello. Propone ricorso alla Suprema Corte, lamentando, per quel che qui ci riguarda, che la prova testimoniale sarebbe consistita in una serie di domande suggestive, poste peraltro direttamente dal consigliere relatore alla teste parte offesa, che avrebbero minato la credibilità e l'attendibilità dell'intera prova.

La sentenza 15331/2020

Espressamente ed assai significativamente, nella sentenza in parola, si afferma che “… un intervento officioso del giudice con finalità chiarificatrice dei fatti oggetto del processo … trova giustificazione in un processo tendenzialmente accusatorio”.

Si fa qui riferimento, nonostante il tenore letterale di quanto riportato, all'evidenza di un uso che è stato giudicato non corretto della facoltà, e ancor di più dei limiti, che il codice di rito riserva al giudice con l'art. 506, che espressamente prevede che il giudice, non soddisfatto nella sua “fame di sapere”, debba dapprima indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi perché l'esame risulti, nel suo insieme, completo. E, solo dopo, può rivolgere direttamente al teste le domande che gli appaiano necessarie.

Non spetta al giudice l'integrale o preponderante conduzione dell'esame testimoniale. Si tratta, fin qui, di concetti noti ed incontestati. Che però non figurano abitualmente espressi in modo tanto chiaro.

Maggior impatto va riconosciuto al passaggio con cui la Corte ha sancito che: “… le modalità di assunzione della testimonianza, condotta in prima battuta ed in gran parte dal consigliere relatore, e il contenuto delle domande da questi rivolte alla persona offesa ne hanno gravemente pregiudicato l'attendibilità di talché la motivazione fondata sulle dichiarazioni rese da costei … appare radicalmente viziata sotto il profilo della tenuta logica della sentenza impugnata.”.

Qui, insieme alla violazione dell'art. 506 c.p.p., si introduce l'argomento del contenuto delle domande poste dal giudice, che può essere tale da pregiudicare l'attendibilità delle risposte e riverberarsi in un vizio della motivazione. Si parla, in sostanza, di domande vietate; nonché delle conseguenze della violazione del divieto.

Approfondendo l'argomento, la Suprema Corte sancisce che: “Il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte … è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a suggerire al teste risposte utili per la sua difesa. A maggior ragione detto divieto deve applicarsi al giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 della medesima disposizione”.

Vedremo più avanti che l'assunto finale costituisce novità assoluta: la domanda vietata resta tale anche per il giudice.

Ed infine: “…l'inosservanza delle regole stabilite dal codice di rito per assicurare la sincerità e genuinità delle risposte del teste rende la prova non genuina e poco attendibile”.

Sono, tutti, concetti scolpiti nel marmo, che avrebbero dato non poca soddisfazione al caro Ettore Randazzo. E che, oggi, senza farne riferimento alcuno, sanciscono la fondatezza delle idee che hanno fatto nascere il LaPEC. Pur senza condividerne le conclusioni.

Come si arriva a tanto?

L'ultima volta che questa rivista ha trattato il medesimo argomento (v. La Risposta a domanda suggestiva o nociva è inutilizzabile? Ancora una volta, la Cassazione dice di no), la chiusa è stata un'amara presa d'atto del portato della sentenza Cass. pen. n. 43157/2018, con cui la terza sezione della Suprema Corte ribadì l'orientamento secondo cui la violazione del divieto di porre domande suggestive non comporta la sanzione dell'inutilizzabilità della risposta ex art. 191 c.p.p.; tale sanzione, motivava la Corte, è riservata tassativamente al caso di prova vietata dal codice; e la testimonianza, di certo, non può qualificarsi come “prova vietata dal codice”.

La domanda suggestiva, più semplicemente, secondo quella sentenza come per costante giurisprudenza precedente, costituisce irregolarità delle modalità con cui viene condotta una prova perfettamente legittima. Stante il noto regime di tassatività, non può ritenersi applicabile una sanzione, come l'inutilizzabilità, che il codice non prevede. L'art. 191 c.p.p., a mente del quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate, farebbe dunque riferimento a ben altro: alle prove che la legge espressamente vieta, come la testimonianza sulle dichiarazioni comunque rese dall'imputato o dall'indagato nel corso del procedimento (art. 62 c.p.p.), le dichiarazioni indizianti (art. 63 c.p.p.), le perquisizioni e ispezioni effettuate negli uffici dei difensori in casi non consentiti (art. 103 c.p.p.); o come i casi di cui all'art. 195 c.p.p. E, anche, i casi previsti agli artt. 197, 203, 234, 240, 254, 270 e 271 del codice di rito.

Fuori da tali casi, secondo quella sentenza ma, purtroppo, ancor oggi, non sarebbe fondato invocare un'inutilizzabilità o invalidità della prova.

A tanta certezza residuava un'amarezza di fondo: il processo penale è funzionale alla verifica di un'ipotesi accusatoria, nell'ambito della ricostruzione di una verità processuale; quest'ultima non si identifica con la verità assoluta ed è convenzionalmente accettata “fino a prova contraria”, cioè finché resiste a una ricostruzione logica e contraria, basata su un dubbio ragionevole. In tale ottica, accettare come priva di effetto invalidante una domanda suggestiva, che – comunque la si voglia considerare - pone a rischio la genuinità e attendibilità della risposta, significa accettare come conforme a diritto una decisione che rischia di fondarsi –anche- su modalità espressamente vietate, potenzialmente idonee a falsare le “verità” testimoniate.

Ma la Suprema Corte, sul punto, ha sempre e solo ritenuto non possa parlarsi d'altro che di una semplice irregolarità, priva di effetto diretto sulla validità e utilizzabilità della prova.

Al più, la prova può risultare inattendibile; ma, in passato, solo ove fosse stato dimostrato che la domanda o la serie di domande avesse comportato un inquinamento della testimonianza.

A nulla è valso obbiettare che all'art. 62 c.p.p. leggiamo di un divieto di porre domande sulle dichiarazioni rese dall'imputato, così come all'art. 499 di un divieto di porre domande suggestive.

Domande le une e domande le altre. Entrambe le norme impongono un divieto; in nessuna delle due si legge di “prove vietate”. Eppure alla violazione del primo divieto consegue da sempre un'acclarata applicazione della sanzione dell'inutilizzabilità e al secondo, invece, una semplice presa d'atto di irregolarità ininfluenti. È un'applicazione francamente eccessiva del principio di salvaguardia della prova.

Ma, fino a ieri, la risposta poteva risultare perfino attendibile se la domanda fosse stata posta dal giudice, esentato di fatto e per interpretazione dal rispetto del divieto.

Perché il giudice deve rispettare il divieto di porre domande suggestive?

Saccheggiando quanto brillantemente sostenuto dall'Avv. Valerio Vancheri (Perché il giudice non può e perché non deve porre domande suggestive) bisogna convenire che, a giudicare dall'ordine imposto dal codice alla sequela con cui vanno poste le domande (artt. 498, 499, 506 … c.p.p.), il metodo del contraddittorio va considerato quello preferito, il più efficace.

Perchè nel processo penale non può esistere una verità precostituita, della quale il giudice sia, o ritenga di poter essere, custode sacerdotale; ma una verità da costruire, della quale le parti sono gli artefici; nel rispetto delle regole e a beneficio del giudice.

Un giudice che si sottragga a tale assunto priva se stesso, oltre che il processo e le parti (persino la persona offesa), del miglior livello di giudizio, in senso scientifico, oltre che costituzionale e giuridico.

Chi è chiamato a giudicare deve essere, quindi, non solo consapevole ma, ancor più, portatore di un valore irrinunciabile: il giudicante non deve usare solo della propria sensibilità, del proprio buon senso e della propria cultura giuridica per tutelare e garantire il giusto processo; deve prima di tutto essere pienamente consapevole e rispettoso delle regole e dei principi che le sottendono.

L'Avv. Valerio Vancheri, nel contributo sopra richiamato, ha affrontato con consueta brillantezza quest'ultimo tema, sottolineando come la modifica dell'art. 111 della Costituzione e la legge attuativa n. 63 dell'1 marzo 2001 sul “giusto processo” hanno definitivamente sancito che il processo, per quel che riguarda la formazione della prova, è regolato dal contraddittorio « … come metodo di conoscenza dialettica, fulcro di un processo di parti “tendenzialmente” uguali, nel quale la prova non può che scaturire dal contributo, dalla partecipazione dei contraddittori, nei cui confronti la prova medesima deve essere fatta valere».

Se ciò è indiscutibile, come sembra all'Autore e al sottoscritto, deve essere assolutamente negato ogni valore probatorio a qualsiasi elemento acquisito con metodo diverso da quello dialettico, a meno che non si tratti, come ha riconosciuto la Corte Costituzionale con decisione 361/1998, di una prova a discarico dell'imputato, in favore del quale ogni dichiarazione deve essere utilizzata senza limiti.

È indubbio che il Giudice debba seguire i tempi e le regole dettate dal codice; sembra, dunque, logico e opportuno che egli debba osservare, con le altre, anche quella che offre tutela nei confronti della suggestionabilità del teste. Perché il Giudice, prima di altri, deve impedire in ogni modo che il teste, attraverso tecniche, più o meno consapevoli, che condizionano e suggeriscono la risposta, non sia libero di dare il proprio genuino apporto conoscitivo al processo.

È noto che perfino il contesto e l'autorità dell'interrogante influiscono in modo determinante sulla genuinità della risposta, inducendo la persona sottoposta ad esame a compiacere chi lo interroga, sino al punto da ammettere ciò che non ricorda o non vorrebbe dire. Si tratta di una vulnerabilità psicologica che non colpisce solo i soggetti deboli o i portatori di disagi mentali ma, apprezzabilmente, qualsiasi cittadino, persino di elevata cultura.

Parliamo, qui, di suggestionabilità, che si riflette nella tendenza o comunque nel rischio di rispondere in modo acriticamente conforme rispetto all'informazione che la domanda è riuscita a indurre; di remissività, che è, più semplicemente, una tendenza a dare comunque risposte di senso affermativo a qualunque domanda; di accondiscendenza, consistente nella tendenza dell'interrogato a evitare il contrasto, ed anzi ad accondiscendere perfino a quelle che ritenga siano state le indicazioni dell'esaminatore.

Si tratta di gravissimi rischi, dei quali tutti dobbiamo avere conoscenza e perfino padronanza. Per riconoscerli e per opporci ad essi; ma anche per non esserne veicolo.

Ciò posto, nei casi in cui il divieto di legge venga aggirato, non sembra francamente sufficiente ritenere che la prova si sia svolta in modo irregolare e che ciò comporti solo un dubbio sulla conducenza, l'attendibilità e l'utilizzabilità di ogni singola risposta – ove sia possibile estrapolarla dal contesto – o dell'intera testimonianza negli altri casi.

Così come la conseguenza immediata – in udienza – al cospetto di parti preparate e pronte, non può essere la riproposizione di una domanda che, anche nel migliore dei casi, ha comunque veicolato un'indicazione, un suggerimento, una suggestione.

Al Giudice compete, senza alcun dubbio, la direzione dell'udienza e, con essa, la vigilanza del “buon agire processuale”; per quel che riguarda il nostro argomento, gli spetta la vigilanza sul rispetto delle regole di assunzione della prova, nella consapevolezza prudente del rischio indotto da una domanda che ha suggerito la risposta; perchè mai, se le norme a tutela della genuinità della testimonianza tendono a garantire una qualità di giudizio superiore, da tanta prudenza dovrebbe essere esentato il giudice?

In realtà, come è stato autorevolmente affermato dal Prof. Paolo Ferrua, la disciplina dettata dall'art. 499 c.p.p. è davvero infelice. Se il divieto di porre domande suggestive, letteralmente rivolto a chi ha chiesto la citazione del teste ed ha chi ha con lui un interesse comune, va inteso come un'eccezione a fronte di una generale ammissibilità di tali domande, esso andrebbe circoscritto al solo esame diretto.

Il giudice, dunque, ne sarebbe esente. Se, invece, il divieto di domande suggestive nell'esame diretto è applicazione di un principio generale, posto a tutela della genuinità della testimonianza, il divieto va esteso a tutti; e senz'altro esteso financo al giudice.

In questa seconda ipotesi – che sembra preferibile, quantomeno al sottoscritto – un interprete potrebbe però, pericolosamente, argomentare che, proprio perchè si tratta di principio generale di tutela, esso va esteso anche al controesame. (Cass. pen. 18.1.2012, in Giust. Pen., 1012, III, 321).

Possiamo superare indenni tale grave pericolo considerando che, in entrambi i casi, é purtroppo errata la lettura del principio che sottende alla norma.

Il divieto di porre domande suggestive deve esser considerato espressione dell'esigenza di tutelare la genuinità delle risposte; va dunque applicato sempre e comunque; tranne che nel caso vi sia un fondato motivo che suggerisca e giustifichi una deroga (Ferrua).

Il fondato motivo può intravvedersi nel difficile e, a volte, contrastato rapporto che nasce tra il Difensore che ha necessità di porre in dubbio la testimonianza già resa ed il teste stesso. In tal caso, infatti, la domanda suggestiva, che indubbiamente rende concreto il pericolo che la risposta possa non essere genuina, diviene efficacissimo strumento per rendere palese al giudice che la testimonianza è inattendibile. O, addirittura, falsa, preconfezionata, concordata con una parte processuale a danno delle altre.

Può mai sostenersi che il giudice possa agire al fine di far cadere in contraddizione un teste? O per rendere evidente la sua inattendibilità?

Il giudice, come recita la Costituzione, è terzo ed imparziale. E tale deve rimanere e mostrarsi. Peraltro, come recita il sesto comma dell'art. 499 c.p.p., durante l'esame egli deve intervenire per assicurare la genuinità delle risposte, non per inquinarla. Non può, dunque, che uniformarsi pienamente ai divieti di legge, rispettandoli e garantendone l'altrui rispetto.

Se, anche inconsapevolmente, dovesse violare la regola facendo immaginare al teste un'aspettativa di risposta, violerebbe la propria posizione di terzietà ed imparzialità (concetti per nulla equivalenti o ripetitivi) e rischierebbe di falsare i risultati di quello che, sopra, abbiamo riconosciuto essere il miglior metodo di indagine.

La psicologia forense ha da tempo dimostrato che l'autorevolezza di chi interroga ha una chiara influenza sul teste e rischia per ciò stesso di inquinare la prova, anche non volendolo. Anche nei confronti del giudice, dunque, vi è fondato motivo – utilitaristico, non fosse altro – per ritenere vigente il divieto di porre domande che possano influenzare il teste. Secondo il Prof. Guglielmo Gullotta, ogni Avvocato ha esperienza di testi che sembrano non voler rispondere; e che, poi, rispondono di getto alla stessa domanda posta dal giudice. Cosa che dimostra come il teste può comportarsi in modo differente a seconda della figura e dell'importanza dell'interrogante. Può essere facilmente suggestionato da lui.

Il giudice non è un terzo contendente, portatore di una verità propria e altra; è invece il beneficiario del contributo conoscitivo che le parti gli forniscono con un corretto metodo di indagine dibattimentale. Cioè con un contraddittorio corretto e giusto, rispettoso delle regole.

Al “governo” dell'udienza, per il puntuale rispetto delle regole, si accompagna, funzione ancor più importante, l'esercizio della giusta attenzione, volta al decidere. Come ha scritto il Dott. Michele Consiglio, magistrato di corte di appello: “Il corretto svolgersi di esame, controesame e riesame presuppone doti di competenza, attenzione e pazienza, nessuna delle quali deve far difetto.”

La duplice novità espressa sentenza in commento

Con la sentenza qui in argomento, la Suprema Corte ha cambiato radicalmente rotta rispetto al passato. E lo ha fatto in duplice direzione, riconoscendo alla regola codicistica sulle domande suggestive un fondamento del tutto nuovo.

In primo luogo, infatti, la Corte di legittimità ha modificato profondamente l'orientamento consolidato in ordine al fondamento del divieto.

Basta verificare la giurisprudenza sul punto per appurare che esso veniva riconosciuto nell'esigenza di impedire, a chi avesse concordato con il teste cosa rispondere, la possibilità di suggerire le risposte già concordate.

È stato peraltro osservato (Gulotta), a contestazione di tale orientamento, che il reale fondamento va ricercato altrove visto che, in presenza di un accordo, non ci sarebbe motivo né necessità di imbeccare il teste. Ci si permette qui di sottolineare che le indicazioni concordate in “preparazione” della testimonianza, ben potrebbero improvvisamente azzerarsi nella mente del teste, sottoposto allo stress di una testimonianza che, per i più, resta un fatto altamente ansiogeno. E che, quindi, l'esigenza di impedire anche l'imbeccata a ricordo dell'intesa non sembra poi così infondata. Essa, dunque, a parere del sottoscritto, permane immutata; ma solo perché rientra perfettamente nella finalità poste dal divieto: la tutela della genuinità della testimonianza, di cui ci parla il Prof. Ferrua, che è legittimo sia messa in crisi e stressata soltanto a fronte di una reale, comprovata esigenza di verificarne fondatezza e attendibilità.

In tal senso, la recentissima sentenza in parola ci offre il primo contenuto di novità: le domande suggestive, cui il Collegio si riferisce parlando pur sempre ed ancora di “modalità di assunzione della testimonianza”, pregiudicano l'attendibilità delle risposte, a prescindere dall'eventualità di un'intesa precedentemente raggiunta con il teste. E ciò si riverbera sulla motivazione di sentenza che non ne prenda criticamente atto.

Da ciò discende, per conseguenza, che al divieto in parola – finalizzato esclusivamente alla tutela della genuinità delle risposte - non può certo sottrarsi neppure il giudice.

E in ciò va riconosciuto il secondo elemento di grande novità.

Anche su tal punto l'inversione di marcia è stata, infatti, notevolissima. La giurisprudenza sul punto, prima di oggi, ha costantemente sottolineato che la formulazione letterale del divieto suggerisce che esso sia rivolto solo a chi conduce l'esame del teste, cioè a chi lo ha addotto ed a chi ha, con il primo, un comune interesse di posizione. Il giudice, quindi, era anche per questo escluso dal novero dei soggetti tenuti a rispettare il divieto e poteva, per conseguenza, “…rivolgere al testimone qualsiasi domanda, con esclusione di quelle nocive, ritenuta utile a fornire un contributo per l'accertamento della verità” (Cass. pen., Sez. III, n. 27068/2008).

A partire dalla sentenza in parola, invece, la domanda suggestiva è vietata a chiunque non abbia la necessità di contestare le dichiarazioni già rese dal teste per verificarne attendibilità e credibilità. E quindi anche al giudice. Solo il controesaminatore, proprio con domande particolarmente insinuanti e suggestive, può sottoporre a profonda verifica di attendibilità la testimonianza, al fine di fornire un fondamentale contributo di conoscenza a chi, raccogliendo infine tutto il sapere ricevuto, dovrà decidere della fondatezza dell'azione penale esercitata.

In conclusione

La Suprema Corte è dunque giunta là dove la dottrina, e prima ancora il LaPEC, avevano da tempo ritenuto dovesse pervenire. La risposta a domanda suggestiva, certamente vietata perfino al giudice, va comunque messa in dubbio come potenzialmente non genuina. Perché le regole del codice di rito sono poste a tutela della legittimità del procedimento, che va condotto nel più assoluto rispetto delle norme che lo fanno “giusto”. In tale ambito, il divieto di porre domande suggestive mira a tutelare la genuinità della risposta e, con essa, la rispondenza e affidabilità del sapere che viene fornito a chi, poi, lo userà per pervenire alla decisione finale. Per tal motivo, le risposte che potrebbero non essere genuine non possono entrare automaticamente a far parte del materiale utilizzabile per la decisione.

La risposta, in tali casi, andrebbe qualificata come inutilizzabile ai sensi dell'art. 191 c.p.p.

Purtroppo, però, la Suprema Corte non si è ancora spinta fino a tal punto; né a dirlo in modo così palese. Non lo fa con la sentenza che qui si è tentato di commentare, come non lo ha fatto in passato.

Nel 2012, con la nota sentenza n. 7373 della tera sezione penale, la Corte aveva già fatto un passo avanti, sancendo che “la violazione delle regole poste a presidio dell'esame testimoniale rende la prova acquisita non genuina e poco attendibile e, come tale, censurabile in sede di valutazione della prova.” Escludeva, però, espressamente, che potesse applicarsi la sanzione della inutilizzabilità, riservata alla “prova vietata nel suo complesso”. Si spingeva, comunque, a ritenere che “il giudice di merito, di fronte a puntuali contestazioni riguardanti la violazione delle regole … nel valutare la prova già assunta da altri, non può trincerarsi dietro la generica affermazione della validità del mezzo istruttorio, ma deve tenere particolarmente conto degli elementi che possono averne inficiato la genuinità, da qualsiasi causa tale risultato sia stato determinato”. Imponeva, in buona sostanza, un ancor più attento vaglio di attendibilità che, ancor ora, lascia troppo spazio all'arbitrio che ciascun giudice, in perfetta buona fede, rischia quando deve determinare se e quanto una suggestione, che di certo non ha lasciato prova certa di sé ma solo un insuperabile dubbio, abbia effettivamente inquinato la volontà del teste di rispondere in un modo piuttosto che in un altro.

Oggi, decorsi altri otto anni, sono forse state gettate le basi per ritenere e dichiarare che il divieto in argomento, oltre a tenere all'osservanza anche il giudice, non costituisce semplice regola di modalità della tenuta di una prova lecita; ma comporta, in caso di violazione, l'inutilizzabilità della risposta.

Ci siamo quasi. Ci saremo presto. Spero.

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