La continua riforma dell'abuso di ufficio e l'immobilismo della pubblica amministrazione

28 Luglio 2020

Le vicende che coinvolgono il delitto di cui all'art. 323 del codice penale hanno una importanza che esorbita la stessa funzione e lo stesso ruolo dell'abuso di ufficio, poiché investono la nozione di pubblica amministrazione, anche...
Abstract

Le vicende che coinvolgono il delitto di cui all'art. 323 del codice penale hanno una importanza che esorbita la stessa funzione e lo stesso ruolo dell'abuso di ufficio, poiché investono la nozione di pubblica amministrazione, anche nei suoi rapporti con gli altri “settori” dello Stato (soprattutto, la magistratura), e interessano tematiche penalistiche di straordinaria rilevanza e importanza, prime tra tutte la tassatività o determinatezza e la successione di norme penali nel tempo.

Dall'originario testo del 1930 sino alla ultima riforma dovuta al d.l. 16 luglio 2020, n. 76, recante Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale, la storia dell'abuso di ufficio è caratterizzata da riforme parziali, insufficienti e poco durature.

L'abuso innominato nell'originario testo del 1930

Nell'impianto del codice del 1930,il delitto di cui all'art. 323, rubricato Abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge, rappresentava una sorta di norma di chiusura del sistema, peraltro già di per sé abbastanza indeterminato e generico, in virtù della coesistente presenza del peculato per distrazione (art. 314 c.p.) e, soprattutto, del delitto di interesse privato in atti di ufficio (art. 324 c.p.).

In particolare, per l'originario art. 323 c.p.:

«Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a diecimila».

Peraltro, tale norma rifletteva la convinzione che i delitti contro la pubblica amministrazione in generale tutelassero l'interesse pubblico concernente il normale funzionamento e il prestigio della pubblica amministrazione per ciò che concerne la probità, la fedeltà e il rispetto dovuto soprattutto dai pubblici funzionari.

Questa impostazione rispecchiava certamente una visione pubblicistica e verticistica dei delitti in esame, nei quali l'autorità era “incarnata” dai pubblici ufficiali che si ponevano su una sorta di piedistallo, nel quale erano maggiormente tutelati, ma anche maggiormente responsabili rispetto ai comuni cittadini.

In tal senso, potevano leggersi, da un lato, la mancata previsione della non punibilità della c.d. reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, poi introdotta dall'art. 4 d.lg.lgt. 14 settembre 1944, n. 288, e oggi disciplinata dall'art. 393-bis c.p.; e, dall'altro, la severa disciplina della concussione, di cui all'art. 317 c.p. o dell'originario oltraggio a un pubblico ufficiale, di cui all'art. 341 c.p. (non a caso, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte cost. 341/1974, nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei).

Il mutato quadro istituzionale e le critiche all'impianto codicistico

Per reazione e contrasto all'impostazione originaria del codice penale, parte della dottrina ha ritenuto preferibile ancorare il bene giuridico tutelato nei delitti contro la pubblica amministrazione alla Costituzione e, in particolare, all'art. 97, il quale, al comma 2, chiarisce che «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione».

Dunque, i veri beni giuridici tutelati sarebbero, appunto, il buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione: il primo garantirebbe l'efficienza dell'azione amministrativa in aderenza al pubblico interesse; la seconda sarebbe posta a presidio della parità di trattamento tra tutti i cittadini, che non dovrebbe essere alterata dalla condotta (illecita) dei pubblici agenti.

Così, rispetto d un originario approccio, di stampo certamente verticale, con uno sguardo sui delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione come tutela del prestigio di una parte dell'apparato statuale o, comunque, pubblico, si è a poco a poco, anche in virtù di un ancoraggio costituzionalmente orientato alla tutela del buon andamento e dell'imparzialità della P.A., spostata la prospettiva con una visione quasi rovesciata, della offesa ricevuta, da noi tutti, da parte di un “pubblico” che non salvaguarda i cittadini e che finisce per essere il luogo del malaffare e del privilegio di pochi. Di qui, probabilmente, il ruolo fondamentale e centrale attribuito, almeno nella percezione diffusa, alla corruzione, da contrastare e combattere sino in fondo. Forse, più che l'efficienza dell'azione amministrativa, la richiesta più avvertita – almeno da larga parte della popolazione – è quella di non fare uso privato del munus pubblico.

Per tali ragioni, il Titolo II segnava un netto distacco tra pubblica autorità e (sudditi, oggi) cittadini, con un rapporto fortemente subordinato dei secondi rispetto alla prima: e, soprattutto in seguito all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, tale assetto non sembrava armonico e coerente.

A ciò si aggiunga che molti delitti contro la pubblica amministrazione scontavano alcuni difetti di tecnica normativa, alla luce delle accresciute esigenze di determinatezza nel quadro di una moderna lettura del principio di legalità (si pensi, appunto, all'interesse privato in atti di ufficio, di cui all'originario art. 324 c.p., o all'abuso innominato in atti di ufficio, disciplinato dal vecchio art. 323 c.p.).

Inoltre, uno dei maggiori problemi nel settore della pubblica amministrazione italiana era ed è rappresentato, tradizionalmente, da un grave deficit di efficienza e di trasparenza dell'azione amministrativa, e da una oggettiva carenza dei controlli interni: con un conseguente ampio intervento della magistratura penale, con ruoli di vera e propria supplenza.

La tendenza a un maggiore controllo penale sull'operato della pubblica amministrazione si era iniziata a manifestare già con il venir meno dell'istituto della c.d. garanzia amministrativa, che condizionava l'esercizio dell'azione penale nei confronti di determinati funzionari pubblici ad una previa autorizzazione. In particolare, tale autorizzazione a procedere poteva essere concessa con decreto del capo dello Stato, sentito il Consiglio di Stato, a tutela del prefetto (salvo che per i reati elettorali) e del sindaco agente quale ufficiale del governo, e dal Ministro della giustizia nei confronti di ufficiali e agenti della polizia giudiziaria per le ipotesi di reati commessi con l'uso delle armi. L'istituto è stato dichiarato illegittimo con sentenze n. 94 del 1963 e n. 4 del 1965 della Corte costituzionale per contrasto con l'art. 28 Cost., che sancisce la piena responsabilità penale di tutti i pubblici funzionari; ed è, dunque, venuto meno un “filtro” che oggi ci appare certamente anacronistico.

Nella medesima direzione sembra orientare anche la disciplina del sindacato del giudice penale sulla legittimità degli atti amministrativi prevista dal codice di procedura penale del 1988. Infatti, diversamente dal codice di rito del 1930 – che disciplinava le questioni pregiudiziali sia pure nel segno della facoltatività (art. 20 c.p.p.) e fissava una generale (salvo taluni casi) autorità del giudicato che decide la questione pregiudiziale amministrativa – il codice Vassalli stabilisce che il giudice penale risolva ogni questione dalla quale dipenda la decisione (salvo che sia diversamente stabilito) e che la decisione del giudice penale che risolve incidentalmente una questione amministrativa (o civile oppure penale) non ha efficacia vincolante in nessun altro processo (art. 2 c.p.p.). Ancora una ragione che segna un accresciuto àmbito di intervento della magistratura penale, solo leggermente attenuato da quanto previsto dall'art. 479 c.p.p., nell'eventualità che la decisione sull'esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia (civile o) amministrativa di particolare complessità, per la quale sia già in corso un procedimento presso il giudice competente. In tal caso, il giudice penale, se la legge non pone limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa, può disporre la sospensione del dibattimento, fino a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato. Peraltro, come è noto, le intersezioni più significative tra sindacato del giudice penale e attività amministrativa – e cioè, sostanzialmente, tra potere giudiziario e potere esecutivo – si sono verificate proprio nella disciplina del delitto di abuso di ufficio e nei reati edilizi.

Tutte tali caratteristiche del settore normativo qui affrontato sono state amplificate e rese evidenti da fenomeni diffusi di malcostume e di vera e propria corruzione sistemica, sino alla emersione (e, forse, alla emergenza) di “tangentopoli” all'inizio degli anni '90 del secolo scorso, con conseguente affermazione della c.d. questione morale.

Almeno da allora, ciclicamente, più che l'efficienza dell'azione dell'apparato pubblico, si è inteso porre al centro dell'attenzione del legislatore la questione della “lotta” o del “contrasto” alla corruzione e al malaffare, ritenuti – certo, non a torto – problemi gravissimi del nostro Paese, soprattutto alla luce della c.d. corruzione percepita. La normativa italiana, dunque, è stata spesso ritenuta insufficiente ed anzi una sorta di concausa del malcostume e della corruttela.

Questo aspetto è molto importante, perché si sono affidati al diritto penale, al processo penale e a tutto ciò che “gira” loro intorno un ruolo ed una funzione che hanno in ben pochi Paesi. Nel campo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, come in molti altri settori, ma forse più che in altri settori, il contrasto penalistico rappresenta un simbolo, trasmette “messaggi”, testimonia impegno alla repressione di un fenomeno certamente disdicevole e meritevole di attenzione da parte della polizia giudiziaria e della magistratura. Ma, anche in questo caso, il diritto penale non può svolgere supplenze, colmare lacune, agire in prevenzione. L'approccio penalistico deve essere parte di un tutto, di una pubblica amministrazione efficiente e corretta, che agisce nel rispetto di tutti, che opera ma senza disparità di trattamento, che faccia perché deve e non perché concede favori.

La burocrazia del non fare

Invece, quanto sin qui riassunto ha certamente portato a una notevole (per molti, eccessiva) ampiezza dell'intervento della magistratura sulla pubblica amministrazione, tramite il c.d. controllo di legalità.

Chiunque abbia avuto la ventura (o la sfortuna) di avere a che fare con la burocrazia si è certamente reso conto di quanto il cittadino sia un soggetto spesso inerme e sopraffatto da lacci e lacciuoli che rischiano di soffocarlo. Si ha l'impressione che tutto si muova (rilievi, osservazioni, riserve, note…) per non fare muovere nulla, per parafrasare il senso del celeberrimo “tutto cambi perché nulla cambi” di gattopardiana memoria. Questa tendenza, che definirei la “burocrazia del non fare” (o “burocrazia difensiva”) mi sembra abbia un serie di motivazioni, purtroppo convergenti; e produce altrettanti pericoli.

Innanzitutto, una vecchia regola è che, piuttosto che fare, è più facile impedire che altri facciano. E se proprio, testardamente, gli altri vogliono procedere, ebbene allora è il caso di criticare, di porre freni e paletti, di dettare condizioni. Il cittadino si rassegna, perché è più conveniente (e più facile) assecondare la burocrazia, piuttosto che combatterla.

In secondo luogo, proprio agendo frequentemente sul piano della burocrazia frenante, si possono aprire spazi sterminati per la corruzione, i favoritismi e le clientele. Se ti dico sì, non è perché ne hai diritto, ma perché sono stato “generoso”.

Ancora, e qui veniamo al punto che qui soprattutto rileva, l'immobilismo generalizzato rassicura anche chi non fa, perché non facendo pensa di non sbagliare e di non incorrere nel rischio di procedimenti penali a proprio carico. Questo è un punto fondamentale: l'abuso di ufficio è un rischio reale, effettivo, che terrorizza chi deve firmare e gli blocca la mano.

Quanto ho appena riassunto vale a tutti i livelli, sia quelli statuali, che regionali o locali. Gli esempi potrebbero essere numerosi: basti dire che si va da imposizioni tributarie assurde e fantasiose (circolano richieste di pagare tasse su immobili venduti da decenni…), a vessazioni vere e proprie (il cittadino deve produrre, magari in carta bollata, ciò che la pubblica amministrazione ha già o potrebbe chiedere ad altra amministrazione).

Ma qui, più che la singola imposizione, ciò che conta è che l'insieme di esse blocca ciascuno di noi e, in ultima analisi, blocca il Paese e la sua economia. La norma di cui all'art. 323 c.p. è stata, ed è, proprio una delle principali cause della c.d. fuga dalla firma, tipica della burocrazia del non fare.

La riforma dovuta alla l. 26 aprile 1990, n. 86

Dunque, nel tentativo di conferire maggiore determinatezza alla norma sull'abuso di ufficio e al contempo limitare le paure dei pubblici funzionari nei confronti di azioni penali nei loro confronti, si giunse alla riforma dovuta alla l. 26 aprile 1990, n. 86, la quale, tra l'altro, sostituì integralmente l'art. 323 c.p.

Più precisamente, il nuovo testo, sotto una rubrica più asciutta (Abuso d'ufficio) stabilì:

«il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri in ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni».

È il caso di segnalare, sia pur sinteticamente, come la complessità dell'intervento normativo dovuto alla legge del 1990 (con abrogazioni, sostituzioni e aggiunzioni), la consueta mancanza di norme transitorie, unita alla importanza ed alla delicatezza della materia, e alla presenza di numerosissimi procedimenti penali pendenti su tutto il territorio nazionale per delitti contro la pubblica amministrazione, segnò l'inizio di un dibattito, poi mai più interrotto, sulla tematica, di carattere generale, della successione di norme penali nel tempo. Fu la prima volta che si delineò la ormai nota distinzione tra abrogatio cum abolitione e abrogatio sine abolitione.

Le modifiche dovute alla l. 16 luglio 1997, n. 234 e alla l. 6 novembre 2012, n. 190

Tuttavia, i risultati sperati dall'intervenuta riforma dell'abuso di ufficio non furono raggiunti e, pochi anni dopo, il legislatore ritornò a modificare l'art. 323 del codice penale.

Nuovamente, con. l. 16 luglio 1997, n. 234, l'art. 323 c.p. fu integralmente sostituito, con tale testo:

«salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità».

Più recentemente, la l. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge Severino, significativamente intitolata Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), nel consueto rilancio in termini di gravità della cornice edittale, ha addirittura aggravato la pena prevista dal primo comma dell'art. 323 c.p., sostituendo le parole: «da sei mesi a tre anni» con le seguenti: «da uno a quattro anni».

Inutile dire che i problemi sopra indicati non soltanto non sono stati superati con i due interventi normativi da ultimo considerati, ma si sono persino ulteriormente complicati, considerato l'aumento di pena.

Il d.l. 16 luglio 2020, n. 76

Con tali premesse, non può stupire che il lungo e tormentato cammino dell'abuso di ufficio, abbia incrociato, ancora una volta, il legislatore che, con l'art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, ha inciso sul delitto in esame. In particolare, all'art. 323, primo comma, del codice penale, le parole «di norme di legge o di regolamento,» sono sostituite dalle seguenti: «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».

Dopo la feroce “caccia all'uomo”, edal funzionario infedele, tipici della legge Severino e, soprattutto, della c.d. spazza-corrotti (l. 9 gennaio 2019, n. 3, recante Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), si tenta una sorta di rivoluzione copernicana, frutto di un approccio diverso.

Più precisamente, il decreto legge de quo agisce dichiaratamente – secondo il comunicato stampa diffuso subito dopo l'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 7 luglio e la stessa conferenza stampa del Presidente del Consiglio – al fine di semplificare i procedimenti amministrativi, eliminare e velocizzare gli adempimenti burocratici, digitalizzare la pubblica amministrazione, sostenere l'economia verde e l'attività di impresa. A tal fine, si opera con semplificazioni in materia di contratti pubblici ed edilizia, semplificazioni procedimentali e responsabilità, misure di semplificazione per il sostegno e la diffusione dell'amministrazione digitale, semplificazioni in materia di attività di impresa, ambiente e green economy.

Quanto allo specifico tema della responsabilità dei pubblici agenti, si agisce “a forbice”, sia sotto il profilo della responsabilità erariale, che sotto il profilo della responsabilità penale.

Per quanto attiene, in particolare, alla responsabilità erariale, innanzitutto si incide sull'art. 1 della legge sulla Corte dei conti (l. n. 20/1994), al quale si aggiunge che «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso». Pertanto, il procuratore della Corte dei conti non potrà limitarsi a provare che la condotta è stato frutto della previsione e volontà dell'incolpato, ma deve dimostrare la volontà dell'evento. Inoltre, l'art. 21 del d.l. 76/2020 prevede che, limitatamente ai fatti commessi dal 17 luglio 2020 e fino al 31 luglio 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti «è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta», a meno che non si tratti di danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente: siamo in presenza, dunque, di una specie di scudo erariale, pur dalla portata transitoria.

L'altra parte della “sforbiciata”, invece, riguarda da vicino il diritto penale e indice direttamente sull'art. 323 c.p.

Rispetto al passato, non è più sufficiente che il pubblico funzionario violi qualsiasi norma di legge o di regolamento.

Innanzitutto, occorre che la violazione concerna leggi o atti aventi forza di legge: pertanto, “norme primarie” e non più anche il regolamento. Questa modifica, se permarrà in sede di conversione del decreto legge, ha una portata di grande respiro, tagliando di fatto la punibilità di un numero elevatissimo di condotte oggi punibili. E infatti, chi ritiene ancora che il controllo della magistratura sulla pubblica amministrazione debba avere un carattere esteso e diffuso auspica che detta limitazione venga meno in sede di conversione del decreto.

Inoltre, il d.l. n. 76/2020 richiede che la violazione sia (non più di qualsiasi violazione di una norma, ma) «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Anche questa innovazione restringe notevolmente la sfera del penalmente rilevante, poiché non sembrerebbe potersi più fare riferimento – come fa l'attuale giurisprudenza – alla violazione dell'art. 97 Cost. (con il generico riferimento al buon andamento e all'imparzialità dell'amministrazione, che tutto può fagocitare e comprendere) ma occorrerà che le procure contestino singole condotte espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge.

Infine, il d.l. n. 76/2020 chiarisce che occorre la violazione di specifiche regole di condotta, espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge, «dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Dunque, se il pubblico agente esercita un potere discrezionale, non dovrebbe essere possibile farne derivare una responsabilità penale, almeno per il delitto di abuso di ufficio. Anche questa modifica potrebbe avere una portata notevolissima, soprattutto se si considerano gli orientamenti giurisprudenziali che fanno riferimento all'eccesso di potere, letto nella luce dello sviamento di potere (cfr. Cass. pen., Sez. Un. 29 settembre 2011, n. 155, Rossi, in C.E.D. 251498).

L'impressione, dunque, a prima lettura, è che la nuova versione della norma sull'abuso di ufficio restringa notevolmente la sfera di intervento della legge penale sull'azione amministrativa. Del resto, a maggiore prudenza avrebbero dovuto condurre i dati diffusi in questi giorni, che segnalano circa 7.000 procedimenti penali pendenti negli anni 2016 e il 2017, a fronte di (quasi) un centinaio di sentenze definitive di condanna.

In conclusione

Con l'ultimo intervento normativo si tenta, dunque, nuovamente di incidere sull'abuso di ufficio e di superare la “burocrazia difensiva”. Rimangono, peraltro, alcuni profili dubbi, quali – ad esempio – quello legato alla punizione dell'inosservanza di regole di condotta puramente formali o di natura meramente procedimentale, benché fissate dalla legge o da atti aventi forza di legge e prive di margini di discrezionalità. Si potrebbe, allora, ulteriormente specificare che le regole violate dovrebbero essere collegate alle funzioni e al servizio esercitato o riguardare la disciplina degli interessi affidati alla tutela della pubblica amministrazione.

O, forse, più radicalmente, si potrebbe immaginare una abrogazione secca dell'art. 323 c.p., non mancando – nel ricco panorama dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione – altre norme incriminatrici, più specifiche e severe, che potrebbero punire singole condotte.

Guida all'approfondimento

Sui delitti contro la pubblica amministrazione, limitandoci alle principali trattazioni generali: C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, Tomo I, I delitti dei pubblici ufficiali, in G. Marinucci-E. Dolcini, Trattato di diritto penale, Parte speciale, Vol. I, Cedam, Padova, 2001; B. Bevilacqua, I reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Cedam, Padova, 2003; A. Bondi-A. Di Martino-G. Fornasari (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione, Giappichelli, Torino, 2004; A. Cadoppi-S. Canestrari-A. Manna-M. Papa (a cura di), I delitti contro la pubblica amministrazione, in Trattato di diritto penale, Parte spec., vol. II, Utet, Torino, 2008; M. Catenacci (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia, in F.C. Palazzo-C.E. Paliero, Trattato teorico-pratico di diritto penale, Vol. V, Giappichelli, Torino, 2011; F. Coppi (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione. Scritti in memoria di Angelo Raffaele Latagliata, Giappichelli, Torino, 1993; A. D'Avirro (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Cedam, Padova, 1999; G. Flora-A. Marandola (a cura di), La nuova disciplina dei delitti di corruzione. Profili penali e processuali, Pacini Giuridica, Pisa, 2019; F. Grispigni, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Ricerche, Roma, 1953; C.F. Grosso-M. Pelissero (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione, in C.F. Grosso-Padovani-A. Pagliaro, Trattato di diritto penale, Parte speciale, Vol. VI, Giuffrè, Milano, 2015; G. Iadecola, La riforma dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Giappichelli, Torino, 1998; N. Levi, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Vallardi, Milano, 1935; T. Padovani (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Utet, Torino, 1996; A. Pagliaro-M. Parodi Giusino, Princìpi di diritto penale. Parte speciale, vol. I, Delitti contro la pubblica amministrazione, 10ª ed., Giuffrè, Milano, 2008; F. Palazzo (a cura di), Delitti contro la pubblica amministrazione, in S. Moccia, Trattato di diritto penale, Vol. II, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011; R. Pannain, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Jovene, Napoli, 1966; S. Riccio, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Utet, Torino, 1955; B. Romano-A. Marandola (a cura di), Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Wolters Kluwer, Milano, 2020; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Artt. 314-335-bis cod. pen. – Commentario sistematico, 3ª ed., Giuffrè, Milano, 2013; V. Russo, I reati contro la Pubblica Amministrazione, Jovene, Napoli, 1991; P. Severino Di Benedetto, Pubblica amministrazione (delitti contro la), in Enc. giur., vol. XXV, Treccani, Roma, 1991; A. Segreto-G. De Luca, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Giuffrè, Milano, 1999; A.M. Stile (a cura di), La riforma dei delitti contro la P.A., Jovene, Napoli, 1987; Id., Amministrazione pubblica (delitti contro la), in Dig. pen., vol. I, Utet, Torino, 1987, 129; S. Vinciguerra, I delitti contro la pubblica amministrazione, Cedam, Padova, 2008.

Sulla originaria formulazione dell'art. 323 c.p.: F. Bricola, In tema di legittimità costituzionale dell'art. 323 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, 985 ss.; E. Contieri, Abuso innominato di ufficio, in Enc. dir., vol. I, Giuffrè, Milano, 1958, 187 ss.; T. Padovani, La riforma dell'abuso innominato e dell'interesse privato in atti d'ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 1042 ss.; Id., L'abuso d'ufficio e il sindacato del giudice penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 76 ss.; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, parte speciale, 4a ed., Giuffrè, Milano, 1986, 269 ss.; M Parodi Giusino, voce Abuso innominato d'ufficio, in Dig. disc. pen., vol. I, Utet, Torino, 1987, 41 ss.; S. Seminara, Riflessioni sul reato di abuso innominato in atti d'ufficio, in Foro it., 1984, II, 342 ss.

Sul testo dovuto alla l. 24.6.1990, n. 86: F. Bricola, La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione: cenni generali, in F. Coppi-P. Bartolo (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di, Giappichelli, Torino, 1993, 18 ss.; C.F. Grosso, L'abuso di ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 321 ss.; T. Padovani, L'abuso d'ufficio, in M.C. Bassiouni-A.R. Latagliata-A.M. Stile (a cura di), Studi in onore di G. Vassalli, vol. I, Giuffrè, Milano, 1991, 584; A. Pagliaro, Principi di diritto penale, parte speciale, 7a ed., Giuffrè, Milano, 1995, 242 ss.; M. Parodi Giusino, voce Abuso d'ufficio, in Dig. disc. pen., vol. VIII (app. aggiorn.), Utet, Torino, 1994, 600 ss.; P. Pisa, voce Abuso di ufficio, in Enc. giur., vol. II, Treccani, Roma, 1995, 10; R. Rampioni, L'abuso di ufficio, in F. Coppi (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione, cit., 117 ss.; A. Segreto–G. De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, 2a ed., Giuffrè, Milano, 1995, 514 ss.; A.M. Stile, Commento all'art. 16, l. 26/4/1990, n. 86, in Leg. pen., 1990, 331 ss.

Sul testo dovuto alla l. 16.7.1997, n. 234, ed alla l. 6.11.2012, n. 190:

C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, Wolters Kluwer-Cedam, Padova, 2016, 411 ss.; M. Catenacci, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in M. Catenacci (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione e l'amministrazione della giustizia, in Trattato teorico-pratico di Diritto penale, diretto da F.C. Palazzo e C.E. Paliero, Giappichelli, Torino, 2016, 131 ss.; C. Cupelli, Il nuovo abuso d'ufficio: tra vecchi problemi e nuove prospettive, in Legalità e giustizia, 1998, 47 ss.; A. Di Martino, Abuso d'ufficio, in A. Bondi–A. Di Martino–G. Fornasari (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione, Giappichelli, Torino, 2004, 236 ss.; S. Fiore, Abuso d'ufficio, in S. Fiore-G. Amarelli (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Utet, Torino, Milano, 2018, 223 ss.; M. Gambardella, Il controllo del giudice penale sulla legalità amministrativa, Giuffrè, Milano, 2002; E. Infante, Abuso d'ufficio, in I delitti contro la pubblica amministrazione, in Trattato di Diritto penale, parte speciale, a cura di A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna. M. Papa, Utet, Torino, 2008, 295 ss.; A. Manna, Abuso d'ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, Giappichelli, Torino, 2004; S. Massi, Parametri formali e “violazione di legge” nell'abuso d'ufficio, in Arch. pen., 2019, n. 1, 5 ss.; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Giuffrè, Milano, 2019, 349 ss.; G. Ruggiero, Abuso d'ufficio, in C.F. Grosso-M. Pelissero (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione. Trattato di diritto penale. Parte speciale, Giuffrè, Milano, 2015, 345 ss.; S. Seminara, Art. 323, in A. Crespi–F. Stella–G. Zuccalà (a cura di), Commentario breve al codice penale, Cedam, Padova, 2003, 938 ss.; A. Tesauro, Violazione di legge ed abuso di ufficio, Giappichelli, Torino, 2002.

Su ulteriori proposte di riforma:

A.R. Castaldo (a cura di), Migliorare le performance della pubblica amministrazione. Riscrivere l'abuso d'ufficio, Giappichelli, Torino, 2018.

Sul D.l. 16.7.2020, n. 76: G.L. Gatta, Da ‘spazza-corrotti' a ‘basta paura': il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell'abuso d'ufficio, approvata dal Governo ‘salvo intese' (e la riserva di legge?), in Sistema penale, 17.7.2020.

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