Covid-19, ritorno a scuola e possibili implicazioni penalistiche: la rilevazione della temperatura
09 Settembre 2020
Introduzione
Uno dei temi che sta agitando la delicata questione dell'imminente riapertura delle scuole a seguito della pandemia di Covid-19 è quello della rilevazione della temperatura corporea: da effettuarsi presso la scuola oppure ad opera dei genitori presso l'abitazione? È sufficiente una semplice consultazione dei siti internetdegli istituti scolastici per rendersi conto di come, in alcuni casi, sia stata, sin qui, privilegiata la rilevazione della temperatura direttamente presso la scuola a mezzo di termoscanner: ad esempio si veda la circolare n. 242 del 14/05/2020, Istituto Comprensivo Statale di Via Acerbi, Pavia, Oggetto: Problematiche epidemiologiche COVID19 – Modalità di utilizzo del termoscanner; per il caso in cui non dovesse essere disponibile o funzionante il dispositivo termoscanner laser viene richiesta l'autodichiarazione di non avere temperatura corporea superiore ai 37,5° C, avendola misurata in autonomia in data odierna. In altri casi, viene richiesta ai genitori quanto meno la dichiarazione di aver provveduto autonomamente, per l'intero anno scolastico, prima dell'accesso a scuola, alla rilevazione della temperatura corporea del proprio figlio/a (Istituto Comprensivo San Nicola La Strada). La Regione Lombardia, Ordinanza n. 596 del 13 agosto 2020, prevede la sottoscrizione di un Patto di corresponsabilità tra il legale rappresentante dell'ente scolastico gestore del servizio educativo per la prima infanzia ed il genitore o titolare della responsabilità genitoriale. Il genitore/titolare della responsabilità genitoriale dichiara: di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio vigenti alla data odierna; che il figlio/a, o un convivente dello stesso all'interno del nucleo familiare, non è o è stato COVID-19 positivo accertato ovvero è stato COVID-19 positivo accertato e dichiarato guarito a seguito di duplice tampone negativo; di impegnarsi a trattenere il proprio figlio/a al domicilio in presenza di febbre superiore a 37,5° o di altri sintomi e di informare tempestivamente il pediatra e il gestore del servizio educativo; di essere stato adeguatamente informato dai responsabili del servizio di tutte le disposizioni organizzative e igienico sanitarie per la sicurezza e per il contenimento del rischio di diffusione del contagio da COVID-19 ed in particolare delle disposizioni per gli accessi e l'uscita dal servizio; di essere tenuto a informare al momento dell'ingresso l'operatore del servizio sullo stato di salute corrente del bambino, in particolare dichiarando se ha avuto sintomi quali febbre, difficoltà, respiratorie o congiuntivite. Il Ministero dell'istruzione ha, da ultimo, fornito un'indicazione volta ad escludere la necessità di rilevazione presso la scuola, rimettendola ai genitori: tale scelta non pare una “neutra” per quelle che possono essere le sue eventuali implicazioni penalistiche. La scelta governativa e le possibili ricadute penalistiche
Con ordinanza n. 69 del 23 luglio 2020, il Ministero dell'Istruzione ha invero disposto che le lezioni dell'anno scolastico 2020/2021 nell'intero territorio nazionale possono avere inizio a decorrere dal giorno 14 settembre 2020 per le scuole dell'infanzia, del primo ciclo e del secondo ciclo di istruzione, appartenenti al sistema nazionale di istruzione, ivi compresi i Centri provinciali per l'istruzione degli adulti. Il 6 agosto 2020 è stato sottoscritto tra il Ministero dell'Istruzione e le Organizzazioni Sindacali, il Protocollo d'intesa per garantire l'avvio dell'anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di Covid-19. Il Protocollo richiama, a sua volta, il “Documento tecnico sull'ipotesi di rimodulazione delle misure contenitive nel settore scolastico”, tramesso dal CTS - Dipartimento della protezione civile in data 28 maggio 2020 e il Verbale n. 90 della seduta del CTS del 22 giugno 2020, in cui si legge: All'ingresso della scuola NON è necessaria la rilevazione della temperatura corporea. Chiunque ha sintomatologia respiratoria o temperatura corporea superiore a 37.5°C dovrà restare a casa. Pertanto si rimanda alla responsabilità individuale rispetto allo stato di salute proprio o dei minori affidati alla responsabilità genitoriale.Sicché, prosegue il Protocollo, il Dirigente scolastico (che esercita le funzioni di datore di lavoro nelle scuole statali, ovvero, per le scuole paritarie, il Datore di lavoro), per prevenire la diffusione del Virus, è tenuto a informare attraverso una un'apposita comunicazione rivolta a tutto il personale, gli studenti e le famiglie degli alunni sulle regole fondamentali di igiene che devono essere adottate in tutti gli ambienti della scuola…In particolare, le informazioni riguardano: l'obbligo di rimanere al proprio domicilio in presenza di temperatura oltre i 37.5° o altri sintomi simil-influenzali e di chiamare il proprio medico di famiglia e l'autorità sanitaria; il divieto di fare ingresso o di poter permanere nei locali scolastici laddove, anche successivamente all'ingresso, sussistano le condizioni di pericolo (sintomi simil-influenzali, temperatura oltre 37.5°, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.) stabilite dalle Autorità sanitarie competenti. Dopo l'adozione di questo Protocollo, alcune realtà territoriali che già si erano orientate per l'adozione della rilevazione della temperatura direttamente presso la scuola a mezzo di termoscanner hanno rivisto la loro posizione: è questo il caso della Provincia autonoma di Trento che, con ordinanza 43 del 3 settembre 2020, pur facendo permanere per il personale e i fornitori il controllo della temperatura corporea al momento dell'accesso alla struttura, secondo le modalità organizzative definite dal responsabile della struttura, lo ha ritenuto non necessario per gli accompagnatori dei bambini e per i bambini. Le due differenti opzioni, rilevazione ad opera dei genitori, rilevazione presso la scuola, vanno valutate per quelle che ne possono essere le conseguenze penali Se la rilevazione fosse affidata al personale scolastico, in caso di accesso presso i plessi scolastici di studenti infetti, gli eventuali effetti penali in termini di omesso o erroneo controllo e successiva diffusone dell'epidemia sarebbero senza dubbio a carico dell'amministrazione scolastica. Viceversa, trasferendo ai genitori l'incombenza, su questi vengono ad essere “ribaltati” i rischi penali. Quali reati possono rilevare in tale ambito? Per dare adeguata risposta a tale quesito, occorre, in primo luogo, domandarsi come accertare che effettivamente sia stata compiuta la rilevazione della temperatura domiciliare: ci si può accontentare del mero richiamo alla “responsabilità individuale”, oppure occorre richiedere un'autodichiarazione, come del resto è già previsto pressi alcuni plessi scolastici? Nel primo caso, laddove si verificasse la diffusione del virus all'interno di un istituto scolastico a causa dell'omessa od erronea misurazione, non può escludersi che i genitori vengano chiamati a rispondere del delitto di epidemia. Nel secondo caso, laddove venisse richiesta un'autodichiarazione, oltre alla diffusione dell'epidemia, si potrebbero configurare profili di falso, rilevanti ex art. 483 c.p., laddove i genitori dichiarassero falsamente di aver proceduto ad una rilevazione invece omessa, ovvero ne riportassero falsamente i dati. Entrambe le alternative dimostrano la delicatezza della soluzione da prediligere. Vista la rinnovata diffusività del virus, non può escludersi che la ripresa dell'attività scolastica sia destinata a provocare una significativa proliferazione delle notizie di reato connesse alla responsabilità genitoriale in relazione alla rilevazione della temperatura. Cenni in tema di epidemia colposa
Mentre l'eventuale falsa attestazione resa ai sensi dell'art. 46 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (d.P.R. n. 445 del 2000) [cfr. comunicazione n. 263 del 28.8.2020, Misure anti-contagio Covid-19 autocertificazione temperatura corporea (art. 47 del d.P.R. 445/2000) Istituto Comprensivo San Nicola La Strada, cit.] non pone particolari problemi interpretativi, più complessa appare la valutazione della configurabilità del delitto di epidemia colposa. Secondo la migliore dottrina, l'elemento psicologico della colpa c.d. comune nell'epidemia è integrato allorquando il soggetto agente diffonda, per negligenza, imprudenza o imperizia, germi che sappia essere patogeni – dei quali può anche essere egli stesso il vettore – senza la volontà di cagionare l'evento epidemico. Si tratta del grado minimo di rimproverabilità psicologica nell'ambito della responsabilità da contagio per epidemia. Alla luce delle caratteristiche epidemiologiche di malattie infettive quali il Covid-19, il coefficiente psicologico della colpa comune nell'epidemia deve essere riconosciuto tipicamente in capo a una categoria di soggetti agenti individuati a contrario: coloro i quali colposamente diffondano germi patogeni senza volere l'evento, e rispetto ai quali non operino regole cautelari-professionali (che danno luogo a colpa professionale o speciale) o contenitive-provvedimentali (che generano colpa specifica). La mancanza di una regola, cautelare-professionale o contenitivo-provvedimentale, fa sì che l'area del rimprovero psichico sia circoscritta alla sola consapevolezza, da parte dell'agente, della pericolosità del mezzo patogeno: in tal modo, recuperando al delitto di epidemia i principi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza in materia di elemento colposo, si configura la sola “conoscibilità” all'agente del rischio epidemico, attratta all'area della colpa, e non l'effettiva “conoscenza” dello stesso, che attiene alla sfera della volontarietà. Questo assunto acquisisce una sua rilevanza applicativa in relazione alla diffusione della Covid-19 in quanto, a rigore, accogliendo le diversificazioni epidemiologiche invalse in altre partizioni dell'infettivologia (i.e. HIV), dovrebbe ritenersi che lo stadio della “conoscibilità” del rischio epidemico andrebbe accordato ai soli c.d. infettati primari, con esclusione dei contagiati successivi. Rispetto a questi ultimi, infatti, la diffusione del morbo nella popolazione e l'adozione di provvedimenti di contenimento e di contrasto da parte della pubblica autorità possono svolgere una funzione di ammonimento, capace di generare una vera e propria conoscenza ;» del rischio lesivo, mortale o epidemico. La genericità del Protocollo 6 agosto 2020, che per altro si limita a richiamare, a sua volta, il “Documento tecnico sull'ipotesi di rimodulazione delle misure contenitive nel settore scolastico”, tramesso dal CTS – Dipartimento della protezione civile in data 28 maggio 2020 e il Verbale n. 90 della seduta del CTS del 22 giugno 2020, – All'ingresso della scuola NON è necessaria la rilevazione della temperatura corporea – induce a ritenere che, nel caso in trattazione, si verserebbe in ipotesi di colpa c.d. comune nell'epidemia a carico dei genitori, con una notevole potenzialità diffusiva di tale forma di responsabilità. Se invece fosse stata perseguita la soluzione della rilevazione presso le scuole, ciò avrebbe verosimilmente comportato la contrazione dei possibili centri di imputazione di responsabilità penale, per altro in presenza di strumenti di misurazione senz'altro più oggettivi. La “scelta di campo” operata dal Ministero su tale delicato versante pare volta allo scopo di erigere una sorta di “scudo penale” per il proprio personale dirigenziale. Tale assunto trova giustificazione in altro coevo provvedimento, la nota del Ministero dell'Istruzione del 20 agosto 2020 sulla responsabilità dei Dirigenti Scolastici in materia di prevenzione e sicurezza – Covid-19, inviata agli Uffici Scolastici Regionali e ai dirigenti scolastici. Nella nota si afferma che la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell'emergenza da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali. Gli ordinari criteri di imputazione della responsabilità possono ritenersi idonei a destituire di fondamento interpretazioni penalizzanti per i datori di lavoro. Appare evidente la finalità della nota, tranquillizzare i dirigenti scolastici in merito alla loro responsabilità qualora si verificassero casi di positività al Coronavirus presso gli istituti di loro competenza. In tal senso, il Ministero, inoltre, aggiunge che l'articolo 29-bis del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40 ha introdotto una disposizione che limita la responsabilità dei datori di lavoro per infortuni da Covid-19: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati (scil., dirigenti scolastici) adempiono l'obbligo di tutela della salute e sicurezza di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione, l'adozione e il mantenimento delle prescrizioni e delle misure contenute nel Protocollo condiviso dal Governo e dalle parti sociali il 24 aprile 2020”, nonché delle eventuali successive modificazioni, “e degli altri protocolli e linee guida, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni rilevano, in ogni caso, le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale”. In sostanza, secondo la nota ministeriale i dirigenti scolastici potrebbero veder escludere ogni timore di una semplicistica, ma errata, automatica corrispondenza tra malattia da Covid-19, infortunio sul lavoro, riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro applicando quanto previsto dal protocollo generale sulla sicurezza siglato in data 6 agosto 2020 e dallo specifico protocollo per i servizi educativi e le scuole dell'infanzia in via di pubblicazione. Ad ulteriore tutela dell'azione dirigenziale, secondo la nota, l'articolo 51 del codice penale esclude la punibilità laddove “l'esercizio del diritto o l'adempimento di un dovere” sia “imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità”. In tale prospettiva, i dirigenti scolastici osservando e curando l'osservanza degli atti prescrittivi e ai protocolli adottati, adempirebbero ai doveri d'ufficio e ciò rappresenterebbe, di fatto, la garanzia rispetto a qualsivoglia “diffida”. Per comprendere se la nota ministeriale, nel richiamare l'art. 51 del codice penale abbia compiuto un'operazione giuridicamente corretta, ed effettivamente “rassicurante”, è necessario confrontarsi con l'elaborazione dottrinale e l'evoluzione giurisprudenziale. La norma viene dapprima richiamata in modo “indiscriminato”, tanto con riferimento all'esercizio del diritto, tanto con riferimento all'adempimento del dovere. La ratio sottostante ad entrambe è la medesima, tradizionalmente rinvenuta nel principio secondo il quale qui iure suo utitur neminem laedit, espressione, a sua volta, di quello di non contraddizione perché sarebbe logicamente contraddittorio che una norma concedesse un potere d'agire e, dall'altro, ne sanzionasse penalmente l'esercizio. Queste due scriminanti occupano, tra gli elementi negativi della condotta illecita, una posizione del tutto particolare. Non consistono, come le altre cause di esclusione del reato in specifici avvenimenti indicati tassativamente dalla legge penale. Sono piuttosto situazioni in cui la legge penale “si apre” alle valutazioni provenienti da qualsiasi settore dell'ordinamento. Non ha importanza quale sia il concreto contenuto del diritto, né del dovere, purché il diritto o il dovere sussista nell'ordinamento giuridico, e sia in grado di rendere lecita o doverosa una condotta che altrimenti costituirebbe reato. Ne discendono alcuni importanti corollari, tra i quali forse il più importante è questo: mentre le altre cause di esclusione del reato non possono essere accertate se non dopo che sia supposta la presenza di un fatto capace di adempiere una fattispecie, per l'esercizio e per l'adempimento di un dovere questa regola non vale. Dopo il richiamo indifferenziato ad entrambe le ipotesi, la nota ministeriale menziona espressamente, come rilevante in tal caso, l'adempimento di un dovere d'ufficio. La suddetta esimente è stata strutturata e modulata su quattro commi. Il principio generale è quello secondo il quale «l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità»: art. 51 comma 1. I commi 2-3 dell'art. 51 prevedono, poi, l'ipotesi dell'ordine dato illegittimamente e la disciplina nel seguente modo. Se la pubblica autorità impartisce un ordine illegittimo che comporti la commissione di un reato, di questo ne risponde, in primo luogo il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine. Il subordinato che l'ha eseguito ne risponde salvo che l'abbia eseguito per errore di fatto, ovvero ritenendo di obbedire ad un ordine legittimo, nonché nel caso in cui la legge non gli consentiva alcun sindacato sulle legittimità dell'ordine (art. 51 comma 4 c.p.). In relazione alla suddetta specifica ipotesi, va rilevato che la medesima si riferisce ai rapporti di subordinazione di natura militare o assimilabili (agenti di polizia, pompieri ecc.) cioè a quei rapporti caratterizzati dal fatto che la legge impone all'inferiore la più stretta e pronta obbedienza. In questo campo all'esigenza di sottoporre a controllo la legalità dell'azione dei pubblici poteri, si contrappone quella di non paralizzare l'esercizio di funzioni che richiedono, per loro natura, un sollecito adempimento: ed è per questo che si parla in proposito di cd ordini vincolanti. Quanto alle fonti, l'art. 51 rinvia: ad una norma giuridica; ad un ordine legittimo della pubblica autorità. Anche l'ordine dell'autorità non è un'autonoma fonte normativa della scriminante in quanto esso, a sua volta, trae origine, pur sempre, da una norma giuridica che impone una determinata condotta. La norma richiede che l'ordine dell'autorità, perché scrimini, abbia due requisiti: che provenga dalla pubblica autorità; che sia legittimo. A livello normativo si deve ricordare che l'art. 17 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, prevede che l'impiegato non deve comunque eseguire l'ordine del superiore quando l'atto sia vietato dalla legge penale. In linea generale perché l'adempimento di un dovere imposto da un ordine della pubblica autorità abbia efficacia scriminante, è necessario che detto ordine sia legittimo, nel senso che il suo contenuto rientri nella corretta esplicazione del servizio della persona destinataria, quanto all'essenza, ai mezzi e al fine (Cass. pen. Sez. VI, 04/04/2012, n. 12802). La norma sull'adempimento del dovere e la centralità della figura dell'"ordine" che la caratterizza si attagliano a sistemi organizzativi fondati in misura più o meno intensa sul principio gerarchico e sulla insindacabilità degli ordini del superiore, come avviene per i corpi militari o di polizia ed in alcuni ambiti della pubblica amministrazione. Il richiamo a tale scriminante risulta, pertanto, improprio con riferimento al rapporto tra il personale paramedico e quello medico, improntato ad una collaborazione funzionale nell'interesse del paziente ed una cooperazione diretta al puntuale e corretto adempimento delle prescrizioni medico-diagnostiche (così Cass. pen. Sez. V, 07/11/2018, n. 50497). In tema di delitti colposi, la scriminante relativa all'adempimento di un dovere, prevista dall'art. 51 c.p., è configurabile nel caso in cui la condotta dell'agente derivi dall'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline imposta da direttive o disposizioni superiori, mentre la stessa non può essere riconosciuta, quando la condotta sia caratterizzata da un atteggiamento di negligenza o imprudenza (Cass. pen., Sez. IV, n. 53150 del 28/09/2017, fattispecie in tema di condotta negligente ed imprudente del medico nel trattamento sanitario del detenuto. Conformi Cass. pen., Sez. IV, n. 48757 del 16/10/2019, Cass. Sez. I n. 20123 del 20/01/2011). Il problema principale che solleva la norma in esame, non riguarda tanto l'illegittimità formale dell'ordine che, essendo di immediata percezione, è sindacabile più facilmente e, quindi, non eseguibile dal subordinato, quanto l'illegittimità sostanziale che implica, quasi sempre, una valutazione del merito dell'ordine. La quaestio iuris che, quindi, pone la suddetta norma è la seguente: «entro quali limiti il subordinato può sindacare nel merito l'ordine che gli viene impartito?»: si ponga attenzione alla circostanza che la problematica è ristretta ai rapporti che non rientrano in quelli di subordinazione di natura militare o assimilabili per i quali, come si detto, è prevista una specifica norma nel comma quarto che disciplina proprio i cd. ordini vincolanti. La giurisprudenza è attestata su una linea molto rigorosa in quanto, valorizzando il principio di autoresponsabilità e di critica che ogni cittadino deve avere anche di fronte ad un ordine impartito da una pubblica autorità, esclude la possibilità che possa essere fatta valere l'esimente in esame, nelle ipotesi in cui il subordinato, pur se per ordine del superiore gerarchico, commette dei reati: per l'esclusione della scriminante in caso di emanazione da parte di un assessore comunale di un'autorizzazione ad effettuare attività di stoccaggio di rifiuti contra legem, resa verbalmente e senza alcuna motivazione, adottata in assenza del Sindaco e dell'assessore competente, al fine di fronteggiare una situazione di emergenza rifiuti: C., Sez. III, 12.10.2011, n. 2683. Può dunque affermarsi che il rinvio all'art. 51 c.p. contenuto nella nota ministeriale appare alquanto sbrigativo e non dotato di quella capacità “rassicurante” che pure gli viene attribuita, spettando sempre al giudice il sindacato circa le legittimità dell'ordine. Inoltre, cosa deve intendersi per ordine legittimo? La domanda non pare di poco momento dal momento che alcune Regioni hanno ritenuto di orientare diversamente le scelte concernenti la ripresa dell'attività scolastica. L'Allegato 3 all'Ordinanza n. 84 del 13 agosto 2020 della Regione Veneto, Linee di indirizzo per la riapertura dei servizi per l'infanzia 0-6 anni. Interventi e misure di sicurezza per la prevenzione e il contenimento della diffusione di SARS-CoV-2, prevede che le strutture educative devono provvedere alla misurazione quotidiana della temperatura corporea per tutti i minori e per il personale all'ingresso, e per chiunque debba entrare nella struttura. La misurazione della temperatura rappresenta, infatti, un ulteriore strumento cautelativo utile all'identificazione dei soggetti potenzialmente infetti, anche in considerazione del fatto che nel bambino i sintomi possono essere spesso sfumati. In caso di temperatura misurata all'ingresso superiore a 37.5°: il bambino non potrà accedere alla struttura e il genitore dovrà essere invitato a rivolgersi al Pediatra di Libera Scelta per le valutazioni del caso; il personale non potrà accedere alla struttura e dovrà contattare il proprio Medico di Medicina Generale. Con la già citata Ordinanza n. 596 del 13/08/2020, la regione Lombardia raccomanda fortemente la rilevazione della temperatura nei confronti del personale a vario titolo operante, dei genitori/adulti accompagnatori e dei bambini, prima dell'accesso alla sede dei servizi educativi e delle scuole dell'infanzia. Quale sarà dunque l'ordine legittimo da adempiere per i dirigenti scolastici, quello regionale o quello governativo? Se il parametro di riferimento deve essere individuato nell'art. 2087 c.c., come per altro indicato nella stessa nota del Ministero dell'Istruzione del 20 agosto 2020, allora appare da prediligersi la scelta operata da alcune Regioni volta a richiedere la misurazione della temperatura presso i plessi scolastici, opzione perseguita già presso alcuni di essi. Lo stesso Ministero viene infatti ad individuare i dirigenti scolastici quali datori di lavoro: il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa, tale obbligo dovendosi ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2. In tal senso Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 13-02-2020) 02-03-2020, n. 8160 secondo cui sul datore di lavoro grava l'obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti e di adottare nell'impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori. Nel caso di specie, il pensiero corre ai menzionati termoscanner volti a rilevare la temperatura corporea in assenza di contatto fisico. La nota ministeriale neppure “osa” mettere in discussione la possibilità di configurare i dirigenti scolastici quali “datori di lavoro”, così mostrando piena acquiescenza all'orientamento giurisprudenziale prevalente. Il Supremo collegio, Cass. pen. Sez. IV, 04/07/2014, n. 36476, ha ritenuto pacifico che al preside sia attribuita la qualità di datore di lavoro nei confronti del personale della scuola, tra cui vanno annoverati gli alunni, non essendo contestabile la qualificazione di quest'ultima come "luogo di lavoro". Hanno ricordato i giudici di legittimità che a carico del datore di lavoro, anche in riferimento alla norma cd. "di chiusura del sistema" ex art. 2087 c.c., sussiste un obbligo di controllo dell'attuazione delle norme vigenti e delle disposizioni e procedure di sicurezza. In altre parole, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro, e di chiunque frequenti il luogo di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2. Posizione questa ribadita da Cass. pen., Sez. V, 03/02/2015, n. 12228, che ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Torino del 28 ottobre 2013 che aveva riconosciuto la penale responsabilità in capo ai dirigenti della Provincia di Torino e ad alcuni professori succedutisi nel tempo nella qualità di RSPP dell'istituto, per il crollo del soffitto dell'aula della Quarta G del Liceo “Darwin” di Rivoli (TO) avvenuto il 22 novembre 2008 in cui perse la vita uno studente, mentre altri riportarono lesioni personali. Con riferimento all'identificazione della figura del “datore del lavoro” all'interno delle istituzioni scolastiche, la Cassazione non nega che i poteri di spesa e di intervento spettino esclusivamente alla Provincia ma, al contempo, precisa che l'istituzione scolastica deve essere intesa quale “Datore di Lavoro”, nonostante essa non sia dotata di poteri decisionali e di spesa. Nello specifico. pertanto, “non può pertanto dubitarsi della posizione di garanzia dei funzionari della Provincia cui gravava l'obbligo degli interventi di manutenzione straordinaria dell'edificio. Ciò tuttavia non comporta che la scuola resti esente da responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto all'Ente locale idonei interventi strutturali e di manutenzione poi non attuati, incombendo comunque al datore di lavoro (e per lui come si vedrà al RSPP da questi nominato) l'adozione di tutte le misure rientranti nelle proprie possibilità, quali in primis la previa individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile garantire un adeguato livello di sicurezza, con l'interruzione dell'attività. Ulteriore conferma si rinviene nel decreto ministeriale n. 382 del 1998 e nella circolare ministeriale n. 119 del 1999 che prevede l'obbligo per l'istituzione scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di pregiudizio per l'incolumità dell'utenza. Si configura insomma una pregnante posizione di garanzia in tema di incolumità delle persone”. Acuta dottrina ha segnalato alcune perplessità in merito a tale opzione ermeneutica e, in particolare, sulla scelta di attribuire lo status di “Datore di Lavoro” a un soggetto giuridico sprovvisto di poteri gestionali e di spesa. A tal proposito, si ricorda che l'art. 2, lett. b) del d.lgs. 81/2008 qualifica la figura del datore di lavoro come il soggetto titolare dei poteri decisionali e di spesa: “b) “datore di lavoro”: il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.” Concetti validi anche nel settore della Pubblica Amministrazione, poiché il medesimo articolo precisa anche che “nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo”. Curioso, quindi, che la Suprema Corte attribuisca tale status a un'istituzione che non possiede, per stessa ammissione della Cassazione, tale classe di poteri. Tuttavia, tale deficit verrebbe, sempre secondo l'iter dei giudici di legittimità, colmato dalla presenza di altre categorie di poteri in capo all'istituto scolastico idonei a garantire un elevato livello di sicurezza negli edifici scolastici, ivi compresa anche “l'interruzione dell'attività” scolastica. Orbene, tale soluzione presenta evidenti limiti applicativi, dal momento che l'interruzione delle attività scolastiche per ragioni di sicurezza si presenta, nella prassi comune, come un'ipotesi residuale, di extrema ratio, raramente praticata dai funzionari scolastici. Nonostante le osservazioni della dottrina, i medesimi principi sono stati, tuttavia, ribaditi dalla Corte di Cassazione Penale con la sentenza della Sez. IV, 12 settembre 2019, n. 37766: quando l'infortunio dell'alunno è dovuto a una carenza dell'edificio, anche il Preside è responsabile penalmente. Sul dirigente scolastico, infatti, grava l'obbligo di vigilare sulla messa in sicurezza della struttura. E sul responsabile del Servizio Prevenzione e protezione grava la responsabilità di individuare il rischio, valutarlo e segnalare al dirigente scolastico i possibili interventi preventivi e protettivi su una struttura pericolosa e non a norma con le leggi sulla sicurezza degli edifici scolastici. Infatti anche se il «Preside» della scuola non è proprietario dell'immobile e non ha poteri di spesa o decisionali in merito alla manutenzione dell'edificio, che tra l'altro è di solito proprietà dell'ente comunale o provinciale, comunque viene considerato ex lege “datore di lavoro”. Come tale, il dirigente sarà responsabile del rispetto delle norme antinfortunistiche e, dati i suoi limiti, sarà esente da responsabilità penali e civili se segnalerà alle autorità competenti gli interventi strutturali necessari. Il dirigente scolastico, dunque, ha il dovere d'informare e segnalare le fonti di pericolo alle autorità competenti, che sono il Comune e la Provincia. Tale segnalazione deve essere tempestiva e sarà responsabile dei danni se dalla sua inerzia derivano dei danni agli alunni o al personale docente. In ciò affiancato dal Rspp. Se chi “di dovere” non interviene in tempi brevi, il Preside è tenuto a prendere tutte le misure necessarie a scongiurare gli infortuni, nell'ipotesi più grave sospendere le lezioni e tutte le attività scolastiche. Neppure l'art. 29-bis della legge n. 40/2020, pure citato nella nota ministeriale, può assumere una qualche portata “rassicurante” in quanto non ritocca la teoria della colpa, non incide sulla tipicità dei reati (neppure menziona la materia penale), non modifica assetti di tutela preesistenti: tantomeno quello del T.U. 81/2008 i cui contenuti, al limite, specifica per relationem. Ha soltanto una valenza indiretta, di "richiamo" all'esistente. A differenza di alcuni suoi omologhi nella recente storia penalistica (si pensi alla responsabilità del sanitario), non assurge nemmeno a regola di giudizio. Se si vuole riconoscere alla disposizione un ruolo penalistico, si tratterebbe di un semplice memento. Tradendo un'eccessiva sfiducia nell'interprete, la disposizione si limita a ricordare ciò che già dovrebbe essere noto, e cioè che, in relazione ai fatti verificatisi in determinati frangenti – in questo caso addirittura emergenziali e segnati da grande incertezza –, per decidere della colpa si deve guardare alle regole di cautela in quel momento vigenti e non a quelle che dovessero rivelarsi efficaci ex post. Regole di cautela che sono state appunto "concordate" (con il contributo di diverse parti, portatrici di interessi e punti di vista differenti) in atti scritti denominati (perspicuamente o meno: non rileva): protocolli. Un intervento legislativo minimale, dunque, la cui opportunità si coglie essenzialmente calandolo nel contesto storico che lo ha generato, ma che non cambia, non deve cambiare, l'esistente. Al limite, può fungere da monito per evitare “il senno del poi”. Ben altra cosa è dunque la disposizione in oggetto rispetto alla proposta avanzata nei primi giorni di maggio dal Direttore dell'INAIL, che ipotizzava un'esplicita esenzione da responsabilità nel caso di osservanza della normativa Inail (c.d. "scudo penale del datore di lavoro"). Tale previsione, nonostante il suo condivisibile fine e il fascino della semplicità, sarebbe stata inutile, controproducente, forse dubbia. E, visto che una siffatta novella – nell'attuale alluvione di provvedimenti anche legislativi – ancora non può dirsi scongiurata, vale la pena di spiegare succintamente le ragioni del giudizio negativo. L'esenzione legislativa da responsabilità penale del datore di lavoro sarebbe stata inutile. Aspirando a una sorta di presunzione iuris et de iure, avrebbe dimenticato che l'accertamento della colpa è svolto necessariamente in concreto. I "protocolli" di cui stiamo parlando (innanzitutto, il citato Protocollo 24.4.2020) non contengono soltanto regole rigide (ammesso che ne esistano), ma anche elastiche: sono (vive) raccomandazioni da “calare” nella specificità delle situazioni concrete, tra loro anche molto diverse. Una pur sommaria lettura del testo fornisce facile conferma di questa osservazione, come quando si suggerisce il massimo utilizzo dello smart working o si consiglia di limitare gli spostamenti all'interno dei siti per le attività produttive. Gli stessi atti chiedono dunque all'imprenditore di adeguare le cautele alle caratteristiche della sua azienda, secondo un ormai sempre più frequente modello di normazione che suppone il concorso di fonti pubbliche e private. Modello che può piacere o no, ma che è imposto dalla crescente complessità sociale e, in questo caso, suggerito dalla scarsa predittività delle conseguenze già solo nel breve termine. Modello con cui, in sintesi, tocca fare i conti anche penalistici. Di conseguenza, uno "scudo penale" come quello ipotizzato, pur suggerendo il contrario, non avrebbe impedito la nascita di un procedimento penale ed avrebbe quindi tradito le sue promesse. Le indagini sarebbero state pur sempre avviate per accertare che le cautele fossero state realmente assunte, fossero adeguate alla specifica situazione lavorativa e fossero comunque concretamente idonee (come nell'esempio del termoscanner usato davvero ma che si scopre a posteriori non funzionante o non a norma). A bypassare l'accertamento giudiziario sulla concreta adeguatezza delle precauzioni ci si era già provato d'altronde in più occasioni, come per gli enti [si pensi alla c.d. proposta dell'Agenzia di Ricerche e Legislazione (Arel) sulla certificazione dei modelli organizzativi, datata oramai una decina d'anni] e, più di recente, in materia medica (con le leggi Balduzzi e poi Gelli-Bianco). La missione si è rivelata impossibile. L'esenzione legislativa da responsabilità penale del datore di lavoro sarebbe stata dannosa. Lo "scudo penale" avrebbe rischiato di ingenerare l'inquietante equivoco che il nesso causale vada in questa materia supposto, presunto o accertato secondo modelli probatori semplificati: laddove, come si è detto, è proprio su quel versante che presumibilmente sarà realizzata la massima selezione. Nel caso del Covid-19, il paragone con quanto accaduto in ambito sanitario desta preoccupazioni anche maggiori. In materia medica l'accertamento del nesso causale è arduo e discrezionale (nella prima fase, non può prescindere da leggi con scarso potere predittivo, come quelle biologiche; nella seconda fase trova un ostacolo nella multifattorialità di molti eventi-malattia), ma resta pur sempre possibile. Dal che l'astratta utilità di riforme tese a incidere sull'accertamento della colpa. In tema di infezione da Covid-19 negli ambienti lavorativi, invece, il giudizio sulla responsabilità penale dovrebbe arrestarsi solitamente, come ricordato, sul piano causale, che uno "scudo" tarato sulla colpa avrebbe invece probabilmente indotto a presumere. L'eterogenesi dei fini di una siffatta riforma sarebbe stata quindi non solo prevedibile ma clamorosa. L'esenzione legislativa da responsabilità penale del datore di lavoro sarebbe forse stata di dubbia correttezza teorica. Oltre ad essere spesso elastiche, alcune cautele filtrate nei protocolli non hanno una finalità del tutto chiara. Sono state tarate – peraltro in tutta fretta, a causa del carattere emergenziale della situazione – su studi (molto iniziali) virologici ma anche epidemiologici. Si sono avvalse di analisi statistiche, oltre che di studi clinici. Sono state pensate in chiave di gestione del rischio per la salute pubblica, e non solo individuale. Insomma, non tutte le regole dei protocolli potrebbero rivelarsi perfettamente funzionali all'accertamento di posizioni individuali in relazione a specifici eventi Covid. Ipotizzare un nesso semplicistico ed automatico tra osservanza della regola e mancanza della colpa sarebbe stato quantomeno fuorviante. In conclusione
A sommesso avviso di chi scrive, né la scelta “responsabilizzante” dei genitori, né gli argomenti impiegati dal Ministero per “tranquillizzare” i dirigenti hanno raggiunto lo scopo. Per comprendere il vero nucleo della questione ci si deve affidare al pensiero di un autorevole Magistrato, recentemente apparso su un quotidiano nazionale. Secondo l'Autore, l'espansione del controllo penale nel settore dei reati colposi è, probabilmente, il vero, possente pilastro di quella democrazia sorvegliata e sorvegliante che si è imposta nel Paese attraverso il dilagare del controllo penale in ogni ganglio della vita sociale ed economica. Non ci sono precauzioni legislative o codificazioni che reggano. Il solo compiersi dell'evento (una malattia, una lesione o, peggio, una morte) in un'organizzazione complessa pretende che si scovi un responsabile. Il fatto che un danno si sia verificato in un contesto soggetto a regole precauzionali impone che si rintracci un responsabile. A ogni costo. Nelle pieghe delle regole tecniche, nelle maglie fitte e intricate delle prescrizioni, nel reticolo degli obblighi si trova sempre una falla, un varco, un cedimento della qualità – ossia dell'adeguatezza – dell'azione di prevenzione che consente di creare un legame, di individuare un responsabile e, quasi sempre, costui coincide con il dirigente, con il capo della struttura o dell'organizzazione. Non importa quanto questo soggetto, finanche fisicamente, fosse distante dal luogo dell'evento da sanzionare, quanto fosse effettivamente in grado di governare e controllare il processo generatore dell'evento avverso, quanto complessa fosse la catena organizzativa che implementava e applicava i protocolli di sicurezza. Il Magistrato sottopone a serrata critica la giurisprudenzache risale i più ripidi crinali, aggira le più minute disposizioni organizzative interne (ritenendole spesso elusive della legge), stigmatizza la lontananza del responsabile dal luogo del fatto come fosse di per sé una colpa stare a capo di macchine complesse, elide i passaggi intermedi e punta dritto al cuore della governance perché chi comanda risponde comunque e a qualunque costo. Nessuna giustificazione regge e nessuna scusanteè in grado di arrestare la macchina sanzionatoria che ha praticamente costruito un sistema di responsabilità oggettiva, senza colpa, perché la colpa (nata e concepita come un connotato imprescindibile della responsabilità per gli eventi non voluti) è sostituita dalla mera inosservanza delle regole tecniche che governano l'attività produttiva o di servizio, a prescindere dall'effettiva condotta del titolare del potere organizzativo. In particolare l'omessa vigilanza e l'omessa sorveglianza riempiono ogni interstizio del processo e raggiungono la prova necessaria alla condanna. A nulla servono disposizioni interne, ripartizioni di compiti, controlli periodici, scelte imprenditoriali, l'omissione è la sola causa del fatto che contamina verso l'alto la catena di comando, sino all'apice, ovvero la dirigenza scolastica. Per questi motivi, l'Autore ritiene che sia necessario ricondurre alla politica, ossia al legislatore, il potere di sanzionare le condotte effettivamente colpevoli in casi come questi in cui la natura, la provvidenza o altro pretende, da millenni, di sconvolgere la vita degli uomini. Quanto sopra esposto dimostra la fondatezza di tale assunto: a fronte della pervasività del diritto penale, tanto temuta dai dirigenti scolastici, il Ministero ha ritenuto di poterli “rassicurare” sulla base di indicazioni che risultano invero cedevoli rispetto ad un diritto vivente in grado di disattendere financo il chiaro dato normativo: mentre l'art. 2, lett. b) del D.Lgs. 81/2008 qualifica la figura del “Datore di Lavoro” come il soggetto titolare dei poteri decisionali e di spesa, la giurisprudenza ritiene tali i dirigenti scolastici nonostante siano privi di questo tipo di poteri. Se non si vuole che i dirigenti scolastici assecondino l'unica alternativa consentita loro dalla giurisprudenza, sospendere le lezioni e tutte le attività scolastiche, trasformandola da ipotesi residuale, di extrema ratio, in pratica “corrente”, pare auspicabile che il Covid-19 venga colto quale occasione per avviare un percorso di ripensamento della responsabilità penale per colpa.
Emanuele Perrotta, Verso una nuova dimensione del delitto di epidemia (art. 438 c.p.) alla luce della globalizzazione delle malattie infettive: la responsabilità individuale da contagio nel sistema di common but differentiated responsibility, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2020, pag. 179 Geppino Rago, Codice Penale Commentato DeJure, GFL, 2020, Art. 51 Codice Penale - Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere Mattia Miglio, La sicurezza degli edifici scolastici. La sentenza della Cassazione sul crollo al Liceo Darwin di Rivoli, in www.giurisprudenzapenale.it, 4 Aprile 2016 Ombretta Di Giovine, Coronavirus, diritto penale e responsabilità datoriali, in www.sistemapenale.it, 22 Giugno 2020 Alberto Cisterna, Salviamo i presidi, saranno i nuovi untori!, il Riformista 1.9.2020 |