Sentenze non definitive e parziali

Davide Turroni
Davide Turroni
12 Settembre 2016

La sentenza non definitiva è quella che non pone fine al processo, ma ha l'effetto più limitato di decidere specifiche questioni o singole domande e di rimandare a una sentenza successiva la pronuncia sulle restanti questioni o domande.
Inquadramento

La sentenza non definitiva è, secondo il lessico corrente, quella che non pone fine al processo, ma ha l'effetto più limitato di decidere specifiche questioni o singole domande e di rimandare a una sentenza successiva la pronuncia sulle restanti questioni o domande.

In un'accezione più rigorosa bisogna però distinguere. La «sentenza non definitiva» ha per oggetto specifiche questioni. È detta invece «sentenza parziale» quella che decide una o più domande senza definire il giudizio.

La nozione di sentenza non definitiva si ricava dall'art. 279 c.p.c., che disciplina la forma dei provvedimenti «del collegio» ma che si applica anche ai processi davanti al giudice monocratico. Il suo comma 2, n. 4, assegna forma di sentenza anche ai provvedimenti che decidono particolari questioni senza definire il giudizio. Le «particolari questioni» da decidere con sentenza sono quelle indicate nei precedenti nn. 1, 2, 3 stesso comma, tutte accomunate dalla loro idoneità a definire il giudizio; nel senso che, se fondate, determinano la chiusura del processo davanti al giudice adìto – o, quanto meno, il rigetto di una singola domanda. Una definizione autonoma, benché convergente, la dà l'art. 360, comma 3, c.p.c. (nel testo introdotto dal d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40) che nell'escludere il ricorso immediato per cassazione si riferisce alle «sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio».

La nozione di sentenza parziale si ricava dallo stesso art. 279 c.p.c. nel suo coordinamento con gli artt. 277 e 361 c.p.c. L'art. 279 c.p.c. non la prevede espressamente, ma l'art. 277, cpv., c.p.c. consente di definire parzialmente il giudizio, limitando la decisione ad «alcune domande» – nel qual caso non occorre una previsione ad hoc per concludere che la decisione va presa con sentenza. Dall'altro, l'art. 361, comma 1, c.p.c., nel disciplinare la riserva di ricorso in cassazione, menziona «le sentenze che decidono una o alcune delle domande senza definire l'intero giudizio».

Rientra nel novero delle sentenze parziali anche la condanna generica prevista dall'art. 278 c.p.c. – sempre che non esaurisca l'oggetto del giudizio, come può accadere se la parte si limiti a chiedere la condanna generica riservando a un separato giudizio la determinazione del quantum del credito. Su questo particolare istituto si rinvia all'apposita voce Condanna generica.

La distinzione tra sentenza non definitiva e parziale non è puramente classificatoria. Da essa derivano conseguenze importanti sul regime d'impugnazione del provvedimento (v. infra e amplius la voce Riserva di impugnazione) e sull'estensione della cosa giudicata (v. infra e amplius voce Giudicato).

Il legislatore non sempre rispetta questa distinzione e talora scambia i termini, etichettando ad es. come «non definitiva» una decisione che secondo il criterio sopra indicato è chiaramente una sentenza parziale (è il caso di quella «non definitiva» di scioglimento del matrimonio ex art. 4, comma 12, l. 898/1970, palesemente sentenza su domanda). L'importante è non equivocare sull'oggetto di queste decisioni; e aver chiaro che la sentenza su questione è intrinsecamente diversa da quella su domanda – ferme le peculiarità che la legge riconosca all'una o all'altra in casi specifici.

«Fenomenologia» (situazioni da cui può scaturire la sentenza non definitiva)

La sentenza non definitiva o parziale trae origine dalle situazioni contemplate negli artt. 187, comma 2, e 277, comma 2,c.p.c., dai quali si ricava

a) che il giudice istruttore può sempre rimettere la causa al collegio affinché sia decisa una questione preliminare di merito (art. 187, cpv., cit.; lo stesso vale per le pregiudiziali di rito, in base al comma successivo);

b) che il collegio può a sua volta, con scelta ampiamente discrezionale, limitare la decisione ad alcune domande (art. 277, cpv., c.p.c.).

Davanti all'organo monocratico queste prerogative sono esercitate in maniera più semplice, visto che il fascicolo non deve transitare dall'istruttore al collegio.

Le disposizioni richiamate indicano dunque il «tracciato» che conduce alla sentenza non definitiva.

Così l'art. 187, cpv., c.p.c. consente di passare direttamente dalla fase pre-istruttoria a quella decisoria, senza la necessità di trattare la causa in tutti i suoi aspetti. Il giudice (l'istruttore nei giudizi collegiali) lo applica se ritiene probabilmente fondata una questione idonea a definire il giudizio; o se la reputa abbastanza seria o «insidiosa» da suggerirne la pronta soluzione. In tal caso, la sentenza non definitiva è emessa se il giudice accerta che la questione è infondata – conclusione che di solito smentisce un'iniziale valutazione di probabile fondatezza – e che, sui restanti aspetti, la causa non è ancora in condizione di essere decisa.

Così pure una sentenza non definitiva, o parziale, può aversi quando il giudice – ritenendo la causa pronta per essere definita in tutti i suoi profili – avvia normalmente la fase decisoria; ma in seguito constata che può deciderla solo in parte. Gli artt. 279 e 277 c.p.c. gli consentono allora di emettere sentenza non definitiva limitatamente ad alcune domande o questioni.

In evidenza

Nella prassi l'emanazione di una sentenza non definitiva o parziale è un fenomeno poco frequente. Se si eccettuano ambiti particolari (ad es. il processo del lavoro, quanto alla sentenza non definitiva sull'interpretazione del contratto collettivo nazionale ex art. 420-bis c.p.c.; i processi di separazione e divorzio, quanto alla sentenza parziale di separazione e scioglimento del matrimonio rispettivamente contemplate dagli artt. 709-bis c.p.c. e art. 4, comma 12, l. 898/1970) il giudice tende di solito a esaurire in una sola sentenza l'intera materia del contendere; e a non avviare la fase decisoria prima che la causa sia interamente istruita.

Le ragioni di questo notevole self-restraint sono varie. È comunque diffusa l'idea che, a dispetto della sua ratio, la decisione non definitiva possa ostacolare l'efficienza del processo: sia perché comporta l'emanazione di (almeno) una seconda sentenza e il conseguente avvio di una seconda (solitamente lunga) fase decisoria. Sia perché genera il rischio di frammentazione del giudizio in caso di impugnazione (rischio più elevato in appello e più ridotto in cassazione, alla luce di quanto prevedono rispettivamente gli artt. 340 c.p.c. e art. 360, 361 c.p.c.: v. sub Riserva di impugnazione).

Quali «questioni» possono decidersi con sentenza non definitiva

La sentenza è forma generale delle decisioni che definiscono il processo o decidono singole domande; mentre l'ordinanza è la forma generale assunta dai provvedimenti «relativi all'istruzione della causa» (artt. 279, comma 1, e 176, comma 1, c.p.c.), che cioè decidono le questioni strumentali alla definizione del giudizio.

La forma di sentenza attribuita alla pronuncia su questioni rappresenta dunque una deviazione rispetto alla regola generale e va limitata a casi particolari. Per l'individuazione di questi casi il punto di riferimento è l'art. 279, comma 2, n. 4, c.p.c.: esso prevede che il giudice pronunci sentenza quando, decidendo questioni indicate nei precedenti nn. 1, 2 e 3, non definisce il giudizio.

La disposizione vuol senz'altro dire che il giudice emette sentenza se deve respingere (nel senso di dichiarare infondata) una «questione di giurisdizione» (n. 1) oppure una «questione pregiudiziale attinente al processo» o una «questione preliminare di merito» (n. 2).

Sul significato di ciascuna nozione si rinvia alle voci Giurisdizione, Difetto di giurisdizione, Questioni preliminari, Questioni pregiudiziali. In estrema sintesi si tratta delle questioni idonee a definire il giudizio, nel senso che la loro fondatezza provoca il rigetto della domanda. Con l'avvertenza che, secondo un'opinione diffusa in dottrina, la «questione preliminare di merito» corrisponde all'«eccezione propria» nel senso che ha per oggetto un fatto (e il relativo effetto) modificativo, impeditivo o estintivo del diritto fatto valere con la domanda; mentre un orientamento più estensivo – e più convincente a chi scrive – ritiene che questa figura abbracci qualsiasi questione idonea a determinare il rigetto della domanda, sia essa eccezione in senso proprio, pregiudiziale di merito o questione su semplice fatto o di solo diritto (v. Questioni preliminari).

Meno chiaro il senso in cui il n. 4 dell'art. 279 c.p.c. richiama il precedente n. 3, il quale stabilisce che il collegio pronuncia sentenza «quando definisce il giudizio decidendo totalmente il merito». Nel richiamarlo, il n. 4 intende dire grosso modo che il giudice, se decide il merito ma «non totalmente», lo fa con sentenza. Ma quale possa essere l'oggetto di questa decisione la norma non dice. Evidentemente non è la questione preliminare di merito, visto che l'ipotesi è già inclusa nel richiamo del n. 4 al precedente n. 2 art. 279, cpv., c.p.c. (v. sopra).

Il riferimento non sembra poi attagliarsi alla decisione «parziale» su domanda: la lettera del n. 4, cit. considera la sola pronuncia su «questioni»; inoltre una simile previsione sarebbe superflua, non potendosi dubitare che, una volta ammessa dall'art. 277 c.p.c., la decisione parziale vada resa con sentenza. Tuttavia è preferibile una diversa lettura, che consideri il richiamo del n. 4 al n. 3 riferito anche alle sentenze «parziali»: ciò consente di estendere alle sentenze parziali l'istituto della riserva di appello, che l'art. 340 c.p.c. limita alla condanna generica (art. 278 c.p.c.) e alle sentenze di cui al n. 4 dell'art. 279 c.p.c. In tal senso v. Cass. civ., 25 marzo 2011, n. 6993.

Infine il richiamo al n. 3 dell'art 279, comma 2, n. 4, c.p.c. può riferirsi anche alla decisione di questioni diverse dalle «preliminari di merito» ma ugualmente idonee a definire il giudizio. Questa lettura, beninteso, non è compatibile con la tesi che estende la preliminare di merito a tutte le questioni comunque idonee a provocare il rigetto della domanda. Si concilia invece con la tesi più restrittiva, che identifica la questione preliminare di merito con l'eccezione in senso proprio (benché taluni la sostengano proprio per escludere che le altre questioni, pur «idonee a definire il giudizio», possano decidersi con sentenza). In questa seconda prospettiva, la disposizione in esame si estenderebbe alle questioni che vertono su un elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato o sulla qualificazione giuridica del fatto, che pur non dando luogo a «eccezioni in senso proprio» siano ugualmente in grado di determinare l'esito del giudizio.

Ad esempio la questione se un documento sia una semplice minuta, oppure un contratto completo dei suoi elementi essenziali, è senz'altro idonea a definire il giudizio promosso per l'adempimento contrattuale; ma non è a rigore una questione «preliminare di merito», trattandosi di una mera difesa consistente nella contestazione di un elemento costitutivo del diritto. Come non è preliminare di merito la «questione pregiudiziale» prevista dall'art. 34 c.p.c. e decisa incidenter tantum – questo almeno se si condivide l'opinione largamente diffusa, che, mentre la «pregiudiziale di merito» può essere oggetto di una apposta domanda giudiziale, le «preliminari di merito» sarebbero invece relegate al rango di eccezione e mai potrebbero costituire oggetto di un'autonoma domanda.

Va infine avvertito che l'art. 279, cpv., c.p.c., per quanto detti una disciplina modellata sul processo ordinario di cognizione, in questo stesso processo patisce delle deroghe. La deroga più evidente è quella prevista dallo stesso art. 279, comma 1, c.p.c., che assegna forma di ordinanza alle pronunce sulla competenza (V. le voci Incompetenza e Regolamento di competenza). Altra deroga degna di nota è quella prevista dalla disciplina sull'estinzione: essa attribuisce al g.i. il potere di potere di dichiarare l'estinzione con ordinanza reclamabile al collegio (artt. 307 e s. c.p.c.); quindi il rigetto della relativa eccezione dovrebbe a sua volta assumere la forma dell'ordinanza – mentre davanti al giudice monocratico, secondo l'opinione accreditata dalla giurisprudenza, troverebbe piena applicazione l'art. 279, cpv., c.p.c.: sul punto si rinvia alla voce Estinzione del processo.

Sentenza parziale e sentenza (definitiva) su causa separata

La «pronuncia su domanda» è in apparenza semplice da individuare, giacché «domanda» è categoria relativamente omogenea, se paragonata alla varietà dei fenomeni predicabili come «questioni». Nondimeno la sentenza non definitiva su domanda – o parziale – pone un diverso problema di delimitazione dei confini.

L'art. 279, cpv., n. 5, c.p.c. stabilisce che il giudice può decidere «alcune delle cause fino a quel momento riunite» e con distinti provvedimenti dispone «la separazione delle altre cause». Si generano così due giudizi, uno sulle cause non ancora decise destinato a proseguire e l'altro sulle cause già decise che risulta già definito; con l'ulteriore conseguenza che la pronuncia già emessa assume i connotati – e il regime – della sentenza definitiva.

Un noto problema si presenta allora quando il giudice, dopo aver deciso una o alcune domande ai sensi dell'art. 277 c.p.c., non prende espressa posizione sulla scelta di separare o no le cause. Se si assume che la separazione delle cause richieda un provvedimento espresso il problema è presto risolto. Ma lo è molto meno se si ritiene che una pronuncia ad hoc non sia necessaria e che la separazione possa aversi anche in presenza di altre condizioni: in questa prospettiva il confine tra sentenza definitiva e sentenza non definitiva è meno nitido e può presentare ampie «zone grigie», a seconda della complessità del criterio e della sua condivisione fra gli interpreti.

Complica ulteriormente il quadro la scelta lessicale dell'art. 279 c.p.c. La disposizione fa insistito riferimento alla «causa» e mai alla «domanda», lasciando intendere che si tratti di due fenomeni diversi: la «causa» indicherebbe allora una categoria più ampia, che può consistere in una pluralità di domande, unite da un legame particolarmente intenso che ne escluderebbe la separazione (v. per approfondimenti la voce separazione di cause).

In evidenza

La giurisprudenza, per lungo tempo oscillante, si è ormai attestata su un criterio relativamente semplice. La separazione delle cause ex art. 279, cpv., n. 5, c.p.c. esige un provvedimento ad hoc che la disponga; oppure che il giudice, nel decidere una delle «cause», statuisca sulle spese processuali, il che equivale a separarle: v. in tal senso Cass. civ., sez. un., 8 novembre 1999, n. 711 e n. 712; Cass. civ., 19 dicembre 2013, n. 28467.

L'adozione di questo criterio tendenzialmente «formale» non esclude che in casi particolari valgano criteri diversi. Così, in un processo litisconsortile, la sentenza che esaurisce la materia del contendere per uno dei litisconsorti si considera definitiva e in sé idonea a provocare la separazione delle cause: v. in tal senso Cass. civ., 25 marzo 2011, n. 6993, cit.

Impugnazione delle sentenze non definitive (rinvio)

Il regime d'impugnazione delle sentenze non definitive e parziali presenta caratteri di particolare complessità, che derivano dall'esigenza di contemperare due interessi: da un lato quello del soccombente all'impugnazione immediata della decisione; dall'altro, quello più generale a conservare l'unità del processo anche nei gradi successivi. Ci si limita a osservare che il punto di equilibrio indicato dal legislatore è variabile (per l'appello vale l'art. 340, mentre il ricorso in cassazione è regolato dal comb. disp. degli artt. 360 e 361 c.p.c. e in maniera sensibilmente diversa) e a rinviare sul punto alla voce Riserva di impugnazione.

Il giudicato sulle sentenze non definitive

Le sentenze non definitive su questione sono pacificamente idonee al giudicato formale, quindi vincolano il giudice che le ha emesse nonché quelli dei gradi successivi (v. fra le tante Cass. civ., 16 giugno 2014, n. 13621). Si pone tuttavia il problema della qualità e dell'estensione di questo giudicato, in quanto il dato positivo non fornisce chiare indicazioni.

Il problema consiste nel chiarire se a) questo giudicato ha una portata esclusivamente interna, o «endoprocessuale», cioè vincolante nel solo processo in cui si è formato e in funzione delle sole domande in esso proposte; oppure b) se ha una portata anche esterna, o «extraprocessuale», cioè vincolante anche nei futuri giudizi in cui fossero riproposte le stesse domande (ad es. in caso di estinzione del primo processo) o bb) anche domande nuove strettamente collegate alle prime.

Ad esempio se il giudice respinge con sentenza non definitiva un'eccezione di annullabilità del contratto di cui l'attore chiede l'adempimento, al conseguente giudicato potrebbe riconoscersi: a) efficacia limitata al singolo processo (endoprocessuale), con la conseguenza che, se questo si estingue, il convenuto, nuovamente adito per l'adempimento, potrebbe tornare a eccepire l'annullabilità del contratto senza sentirsi opporre il previo giudicato; oppure b) efficacia estesa ai futuri giudizi (extraprocessuale), nel qual caso il convenuto non potrebbe nuovamente eccepire l'annullabilità nel secondo giudizio nuovamente promosso per l'adempimento dello stesso contratto; o bb) in termini ancor più estensivi, un'efficacia extraprocessuale estesa a nuovi giudizi con un oggetto diverso ma strettamente collegato al precedente: ad esempio, nel caso in cui l'attore invece di chiedere di nuovo l'adempimento agisse per la risoluzione del contratto.

La soluzione sub a) è quella che sembra riscuotere maggiore consenso – tuttavia è arduo reperire nella giurisprudenza precedenti in termini, perché il problema del vincolo prodotto dalla sentenza non definitiva si pone di solito all'interno del giudizio che l'ha prodotta. Tale orientamento è del resto il più adatto a segnare il confine tra giudicati su domanda e su questione: quando l'effetto giuridico invocato in via di eccezione è anche deducibile con un'azione autonoma (un caso è proprio quello dell'annullabilità), accedere alla soluzione b) finisce col rendere alquanto sfumato, se non inconsistente, la differenza tra l'eccepire e il domandare che la legge ha chiaramente voluto. A favore del giudicato esterno sembrerebbe esprimersi Cass. civ., 24 agosto 1994, n. 7488, ma il precedente non sembra significativo; perché l'assunto non è servito a sostenere l'efficacia extraprocessuale della decisione, bensì a escludere il sindacato sul merito da parte della Suprema Corte.

Almeno in teoria, il problema non è circoscritto alle sentenze non definitive di merito ma si pone anche per quelle su pregiudiziali di rito. Anche qui l'estinzione del processo può essere preceduta da una sentenza non definitiva su (altra) questione processuale; e ben può accadere che, promossa nuovamente la stessa causa, la medesima questione si presenti negli stessi termini.

Decisioni non definitive nei procedimenti speciali

Il frazionamento del potere decisorio non è un fenomeno relegato al processo ordinario di cognizione; il che è pacifico, di fronte ai molti casi in cui i procedimenti speciali contemplano decisioni non definitive – o parziali – per espressa disposizione di legge.

Tuttavia non è pacifico se anche nei procedimenti speciali il potere di emettere provvedimenti decisori non definitivi assurga a regola generale o debba invece ritenersi confinata a casi specificamente indicati dalla legge.

Verosimilmente è un problema cui non può darsi una risposta univoca e generale, ma che occorre affrontare in termini più analitici, cioè concentrando l'indagine sul singolo procedimento, o su gruppi di procedimenti speciali assimilabili per struttura e funzione. Questa importante cautela non toglie che, in linea di massima, l'art. 279 c.p.c. possa ritenersi espressione di un generale potere del giudice di esaurire la materia del contendere «per blocchi» (di domande o questioni idonee a definire il giudizio).

Con specifico riguardo al procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bise ss. c.p.c., nel senso dell'ammissibilità delle decisioni non definitive, v. Trib. Padova, ord., 25 luglio 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 148 e ss. Nella stessa direzione, in riferimento alla procedura di liquidazione delle competenze dell'avvocato – ora attratto al rito sommario dall'art. 14, d.lg. 1 settembre 2011, n. 150 – v. Cass. civ., 30 gennaio 1997, n. 923, contraria tuttavia ad ammettere la riserva d'impugnazione. Per contro, in merito al procedimento speciale di opposizione nell'ambito del giudizio d'impugnazione del licenziamento ex «rito Fornero» (art. 1, comma 51 e ss., l. 92/2012), App. Bologna, 12 settembre 2014, in Leggi d'Italia online, Rep. Giurispr., 2014 ha stabilito che l'ordinanza reiettiva di una preliminare di merito non è equiparabile a una sentenza non definitiva, in quanto il procedimento in questione non ne consentirebbe né l'impugnazione immediata né la riserva di impugnazione.

Riferimenti

CERINO Canova, Sul contenuto delle sentenze non definitive di merito, in Riv. dir. proc., 1971, 249 ss. e 396 ss.;

DALFINI, Questioni di diritto e giudicato - Contributo allo studio dell'accertamento delle «fattispecie preliminari», Torino, 2008;

DENTI, Sentenze non definitive su questioni preliminari di merito e cosa giudicata, ivi, 1969, 213;

GARBAGNATI, Questioni preliminari di merito e questioni pregiudiziali, ivi, 1976, 257 ss.;

MONTESANO, Questioni preliminari di merito e sentenze parziali, ivi, 1969, 579 ss..

Sommario