La complessa dinamica dell'onere probatorio nella holding di fatto

Clara Letizia Riccio
04 Novembre 2020

Il contributo tratteggia l'istituto dell'holding di fatto, alla luce delle recenti pronunzie della Suprema Corte, con l'essenziale e indiscusso apporto della tradizionale dottrina, in tema di impresa occulta e abuso della persona giuridica.
Premessa

Il contributo tratteggia l'istituto dell'holding di fatto, alla luce delle recenti pronunzie della Suprema Corte, con l'essenziale e indiscusso apporto della tradizionale dottrina, in tema di impresa occulta e abuso della persona giuridica. Le ricadute dell'elaborato riflettono la tematica spinosissima dell'onere probatorio nelle sue dinamiche interne, soprattutto per quanto attiene all'inversione della prova. Infatti, se il nesso causale è nella sfera giuridica dell'attore, che intende smascherare l'holding di fatto, vi è anche l'impellente necessità di dimostrare se, secondo l'art. 2497 c.c., vi sia stato l'impoverimento della società eterodiretta con il beneficio di quella dominante, agente in modo abusivo.

La teoria dell'imprenditore occulto

Secondo il dettato codicistico, può qualificarsi come imprenditore «chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi». Come è acclarato dall'art. 2082 c.c., il legislatore ha fissato le conditiones sine quibus non affinché un imprenditore possa caratterizzarsi come tale: deve esser titolare di un'attività di impresa, “in quanto serie coordinata di atti unificati da una funzione unitaria, caratterizzata da uno specifico scopo, ossia produzione o scambio di beni o servizi, sia da specifiche modalità di svolgimento che si concretizzano in organizzazione, economicità, professionalità”.

Nonostante la granitica definizione, sul cabalistico ordito della figura soggettiva dell'imprenditore si staglia la complessa e divisiva problematica dell'imputazione degli atti compiuti e, pertanto, anche l'applicazione della disciplina giuridica. A tal proposito, Gian Franco Campobasso, autorevolissima scuola di pensiero, ritiene che il criterio essenziale al fine di individuare il centro di imputazione degli atti compiuti si rinvenga nel soggetto il cui nome sia stato validamente speso nel traffico giuridico (Campobasso, Diritto commerciale, volume 1, Diritto dell'impresa, V, Torino, 2006). Ci si inerpica, cioè, alla sola muraglia formale della spendita del nome, volendo rintracciare nell'art. 2082 c.c. una dicitura che reciterebbe «è imprenditore chi esercita in nome proprio …un'attività economica», ignorando innegabilmente che nella realtà fattuale non sempre coincidono colui il cui nome è speso e colui che occultamente vanta un interesse sotteso all'esercizio dell'attività imprenditoriale.

La potenziale spaccatura tra le suddette figure di imprenditore è stata immortalata e dispiegata dalla cosiddetta “dottrina della sovranità”, che perentoriamente si allaccia alla teoria dell'imprenditore occulto, il cui pioniere è stato Walter Bigiavi nell'opera omonima. L'illustre giurista asseriva, infatti, che sono imprenditori, e, perciò, dell'attività esercitata responsabili, coloro che dell'impresa detengono l'interesse e l'iniziativa, poco importa se palesemente od occultamente. La qualifica di imprenditore, cioè, si ascrive non solo a chi spende il proprio nome, ma anche a chi, rinunciando ad impiegare il proprio nominativo, detiene il potere direttivo dell'attività economica. Ergo, la responsabilità d'impresa avvilupperebbe non solo il “prestanome”, ma anche il dominus occulto dietro le quinte.

È in ordine a tale scuola di pensiero che il maestro bolognese inalbera la tesi dell'analogia iuris, riferibile all'allora comma 2 dell'art. 147 del Regio Decreto 16 Marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare). Tale disposizione, oggi fedelmente riprodotta dal comma 4 del medesimo articolo, prescrive che, qualora dopo la dichiarazione di fallimento della società affiori l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale dichiara il fallimento di questi: vale a dire che falliscono i soci occulti di società palese. Alla luce di tale dettame, applicando il già menzionato criterio dell'analogia iuris, non si spiegherebbe l'arcana motivazione per la quale “non debba fallire anche il socio occulto di una società occulta, e con lui, anzi prima di lui, essendone presupposto, la società occulta stessa” (come riportato da Giulio Barbato, La critica alla c.d. teoria dell'imprenditore occulto, in www.filodiritto.com).

Indi ragion per cui, sarebbe d'uopo proclamare l'assoggettabilità a fallimento anche del soggetto che, seppur celato, ricopra il ruolo di vero dominus dell'impresa nominalmente esercitata da altri, ossia l'imprenditore occulto.

La teoria in questione è stata bersaglio di copiose critiche da parte della dottrina e della giurisprudenza; ciononostante, è prioritario segnalare la concezione di Antonio Pavone La Rosa, che tende a smussare gli spigoli più aguzzi ed audaci del pensiero di Bigiavi nel testo “La teoria dell'imprenditore occulto nell'opera di Walter Bigiavi”. Egli, infatti, quantunque sposi la tesi summenzionata, ritiene che il requisito della spendita del nome non sia del tutto irrilevante ai fini dell'imputazione della responsabilità, anche fallimentare, dei debiti d'impresa, al contrario ne costituisca uno sviluppo. Ciò, in virtù del fatto che, per quanto concerne le società che appaiono all'esterno, non sarebbe verosimile poter discernere tra soci che hanno attuato la spendita del proprio nome e soci che non l'hanno fatto, dal momento che entrambe le tipologie di soci sono illimitatamente responsabili e, dunque, soggiogabili a procedura fallimentare. Ergo, è tangibile che non rileva la condizione se l'esistenza del socio sia o meno nota.

Eppure, malgrado si tenti di perorare la corrente di pensiero su esposta, la maggior parte della dottrina (e della giurisprudenza) omaggia pur sempre la spendita del nome come conditio sine qua non per mezzo della quale le conseguenze giuridiche di un atto o di una attività si producono esclusivamente a carico di colui nel cui nome tale atto o attività vengono effettuati.

In particolare, è da rimarcare l'invettiva contro Bigiavi di Tullio Ascarelli, il quale affermava che: «non è possibile imputare un'attività indipendentemente dall'imputazione degli atti che la integrano e non è perciò possibile qualificare un soggetto in funzione dell'attività compiuta da un altro. La «spendita del nome» non è affatto un requisito che si possa aggiungere o non aggiungere agli altri necessari per qualificare l'imprenditore. Essa invero si identifica con l'imputabilità a un soggetto degli atti nei quali si concreta l'attività imprenditrice. L'art. 2082 c.c. riporta l'attribuzione della qualifica dell'imprenditore innanzitutto all'esercizio di un'attività che a sua volta si traduce in una serie di atti».

Super omnia, il criterio di imputazione sostanziale degli atti di impresa e, quindi, dell'attività di impresa rimane pur sempre la formalissima spendita del nome, e non è lontanamente accoglibile la prospettiva ideologica di chi avalla la scuola di pensiero secondo la quale il quarto comma dell'art. 147 l.fall. sia applicabile, per analogia iuris, al socio occulto, alla società occulta e persino all'imprenditore occulto, giacché nelle trame del diritto non è per niente contemplata tale figura.

L'eloquente discrimen tra le due correnti di pensiero suesposte spicca, in particolare, in riferimento ai creditori che vantano diritti nei confronti degli imprenditori. Chi spalleggia la tesi dell'analogia iuris, quindi, riterrà naturalmente che i creditori stessi possano rivalersi anche nei confronti dell'imprenditore occulto, ricalcando le orme del comma 4 dell'art. 147 l.fall.

Di converso, chi ossequia l'ortodossa formalità del requisito della spendita del nome accredita la teoria in ragion della quale i creditori, non conoscendo l'esistenza dell'imprenditore occulto, non avrebbero mai fatto affidamento sul suo patrimonio, ma solo su quello dell'imprenditore apparente, potendo, pertanto, rivendicarsi solo su quest'ultimo. Tale precetto reperisce il corrispondente codicistico nell'art. 1707 c.c., il quale statuisce che i creditori del mandatario non possono soddisfarsi sui beni del mandante, neppure nell'ipotesi in cui fossero a conoscenza della sua esistenza. Questa norma si applicherebbe, quindi, nel caso dell'imprenditore occulto, la quale esistenza è ignorata dai creditori dell'imprenditore apparente.

Ebbene, questa spasmodica difformità di vedute, in cui riecheggia tale discrimen, è stata oggetto di riforme del diritto societario e fallimentare che hanno delineato il rapporto creantesi nell'ordinamento giuridico tra titolarità formale dell'impresa, imputazione dei relativi atti, imputazione dell'interesse imprenditoriale e responsabilità patrimoniale e/o risarcitoria.

In special modo, nella disciplina codicistica, a seguito delle riforme suddette, si intesse il combinato disposto tra l'art. 2497 c.c. e l'art. 147 l.f.all che, letti congiuntamente, “creano uno spartiacque tra due versanti: quello delle società di persone ed in accomandita per azioni, dove si rafforza e si amplia la regola della responsabilità illimitata dei soci (anche se persone giuridiche) e della conseguente estensione del fallimento, e quello delle altre società di capitali dove viene definitivamente esclusa, a beneficio di una diversa forma di responsabilità «da abuso del dominio»” (come asserito da F. Fimmanò, Abuso di direzione e coordinamento e tutela dei creditori delle società abusate, in Riv. notariato, fasc.2, 2012, 267).

Circa la fisionomia dell'ultima responsabilità tratteggiata, nel canovaccio dell'art. 2497 c.c., si legge che l'attività di dominio da parte di un dominus (che può incarnarsi in una persona fisica, quale, per esempio un socio di maggioranza oppure un perfetto estraneo alla società, che ne dipende economicamente o finanziariamente, od anche l'amministratore di diritto o di fatto, così come in una persona giuridica, come la società controllante) è lecita ed ex se, il fatto che il centro decisionale delle strategie sia collocato al di fuori delle società controllate e dominate è comunque ligio ai principi inderogabili dell'ordinamento giuridico.

Viceversa, ciò non avviene nella fattispecie in cui il dominio si effigia come abusivo, ossia nella circostanza in cui il dominus ponga in essere l'attività di direzione e coordinamento esclusivamente nell'interesse imprenditoriale, proprio o altrui, o anche extrasociale, ed in ogni caso non nell'interesse del dominato (o delle dominate), violando così i principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria.

Il dominio

L'attività di dominio può essere compiuta in variopinte modalità. Nel corpus dell'ordinamento giuridico si stagliano alcuni indici meramente presuntivi, in presenza dei quali la stessa prescrizione legislativa stabilirebbe che si profila il controllo assembleare o un'influenza dominante. Tuttavia è d'uopo anche denunciare che l'attività di direzione e controllo possa realizzarsi anche di fatto, prescindendo, cioè, da ogni presunzione legislativa.

Ragion per cui, le presunzioni in questione, o meglio le spie che suffragherebbero la tesi della direzione e del coordinamento di un dominus/società controllante su una o più società eterodirette si decrittano in alcune particolari fattispecie: l'art. 2359 c.c. illustra come presunzione legale relativa di direzione e coordinamento la detenzione della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria, così come il secondo comma dello stesso articolo presagisce che, qualora il soggetto controllante disponga di un numero di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea di un'altra società, su questa eserciti un'attività di direzione e coordinamento. Il medesimo dettato legislativo suppone che tale attività si effettui anche in virtù di particolari rapporti contrattuali. Al di fuori di tale normativa si colloca l'ipotesi di talune clausole statutarie, che sono in grado di attribuire il controllo dell'assemblea ordinaria della società o in alternativa attribuire alcuni particolari diritti a determinate categorie di soci.

Eppure, forse l'indizio più eloquente è illustrato dall'art. 2497 sexies c.c., il quale assevera che la società obbligata alla redazione del bilancio consolidato svolga attività di direzione e coordinamento nei confronti di quelle società il cui bilancio è obbligatoriamente incluso all'interno del bilancio consolidato o che comunque la controlla ai sensi dell'art. 2359 c.c. L'art. 25 del D.Lgs 127/91 sancisce anche l'obbligo di redazione del bilancio consolidato nei confronti di quelle società che controllano altre società.

Come si può ben presentire, dal sistema delle presunzioni spicca in modo apodittico che il dominio non si sbroglia in modalità tipiche di attuazione, soprattutto nell'ipotesi in cui si verifica di fatto. Viene all'attenzione, in questa sede, il principio giurisprudenziale, in ragion del quale «per l'esistenza di un gruppo di imprese assoggettate a direzione e coordinamento non è indispensabile che la sua costituzione risulti da atti formali o che le società controllate operino simultaneamente, prevalendo il principio di effettività – cui è ispirata la disciplina dettata dagli artt. 2497 ss. c.c. – con riferimento all'inizio, allo svolgimento e alla cessazione dell'attività di direzione e coordinamento considerata dalla legge» (Cass. Civ., Sez. I, 7 ottobre 2019, sent. n 24943).

Bisogna, tuttavia, porre l'accento sul fatto che il sistema di cui all'art. 2497 c.c. ammette l'esercizio dell'attività di dominio (di fatto) anche in mancanza del controllo sulla società, e la sussistenza di quest'ultimo non esclude che l'attività di direzione sia esercitata da un soggetto differente (in tal senso A. Niutta, Sulla presunzione di esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497-sexies e 2497-septies c.c.: brevi considerazioni di sistema, in Giur. comm., 2004, I, 997).

Ciononostante, è in relazione alla sostanziale differenza che intercorre tra i concetti di eterodirezione e controllo, che viene in essere la situazione giuridica dell'holding di fatto.

Holding di fatto, responsabilità risarcitoria e responsabilità patrimoniale

L'holding di fatto altro non è che quel fenomeno patologico che indiscriminatamente ha navigato tra le acque del diritto vivente e che il legislatore ha immortalato (e regolamentato) solo nel 2003, con la riforma del diritto societario e fallimentare.

Riguardo a tale situazione giuridica, si dipana una vera e propria diatriba faziosa, che vede contrapposte due scuole di pensiero e le connaturate conseguenze in tema di responsabilità. Innanzitutto, ricorre l'holding di fatto ogni qual volta una persona fisica (o una società di fatto tra persone fisiche o tra diverse società) agisca per il perseguimento di un risultato economico, attraverso attività svolta professionalmente, con organizzazione e coordinamento dei fattori produttivi.

Tenuto conto che la conditio sine qua non sia l'esercizio di attività di direzione e coordinamento su un gruppo di società eterodirette, l'antagonismo ideologico, di cui prima, si erge circa l'elemento della spendita del nome, foriero di contrapposte ripercussioni.

L'indirizzo giurisprudenziale maggioritario prende le mosse dalla celeberrima sentenza Caltagirone che, non solo ha imbastito la significativa distinzione tra holding “pura” e holding “operativa” (secondo Cass. 26 febbraio 1990, n. 1439: l'holding si definisce “pura”, quando la stessa esercita un'attività di direzione e di governo di un gruppo di società, ed è, invece, “operativa” quando, accanto all'attività direttiva, svolge funzioni finanziarie ed ausiliarie. L'attività di direzione e coordinamento di un gruppo di imprese cui sia funzionalizzato l'esercizio dei poteri derivanti dal possesso di uno o più pacchetti azionari, sia essa svolta da una società di capitali, da una persona fisica o da una società di fatto, determina l'acquisto della qualità di imprenditore in capo a chi la esercita qualora, oltre ad essere qualificata dai requisiti usualmente intesi dell''organizzazione' e della ‘professionalità', la stessa sia posta in essere in nome dell'esercente e risulti astrattamente idonea a far conseguire al gruppo vantaggi economici ulteriori rispetto a quelli acquisiti in mancanza dell'opera di coordinamento”), ma ha oltremodo asserito che sussiste un'holding di fatto solo nella fattispecie in cui «gli atti attraverso i quali si estrinseca la relativa attività di impresa siano compiuti dalla società (di fatto) spendendo il proprio nome e siano parimenti idonei a produrre risultati economici per l'intero gruppo», come riferito da A. Ippolito (Amministratore di fatto, holding di fatto e abuso di attività di direzione e coordinamento, Tribunale Sez. spec. in materia di imprese Ord., 06 marzo 2018).

In particolare, secondo la citata Cassazione, l'attività d'impresa dell'holding dovrebbe sostanziarsi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, presentando altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima (in Giur. comm., 1991, II, 366, con nota di N. Rondinone, Esercizio della direzione unitaria ed acquisto della qualità d'imprenditore commerciale).

Ciò postulerebbe che l'holding sia assoggettabile a fallimento, in quanto imprenditore commerciale, solo ed esclusivamente avendo contratto obbligazioni in nome proprio; l'holding, cioè, «può essere chiamata a rispondere soltanto delle obbligazioni da essa direttamente assunte, spendendo il proprio nome, non anche delle obbligazioni contratte dalle e in nome delle società dirette e coordinate» (in tal senso M. Prestipino, Brevi osservazioni sulla fallibilità della holding individuale, nota a Corte appello Ancona, 05 marzo 2010, in Giur. comm., fasc.3, 2011, 646)

Indi ragion per cui, l'insolvenza della capogruppo, ossia la sua incapacità di onorare con regolarità i propri debiti, si dipana inerentemente alle sole obbligazioni “personali”, contratte con la spendita del nome, non anche in ordine alle obbligazioni stipulate in nome delle società dirette e coordinate. Ergo, campeggia in prima linea la distinta soggettività giuridica delle singole componenti in cui il gruppo si articola.

Il subitaneo strascico di tale concezione si riverbera sui creditori: coloro i quali sono in diritto di chiedere il fallimento ed insinuarsi al passivo dell'holding insolvente sono esclusivamente quelli che hanno direttamente negoziato con l'impresa capogruppo, non invece i creditori che hanno intrattenuto rapporti creditizi solamente con le singole società del gruppo. Dunque, i creditori delle imprese eterodirette, che non abbiano concluso alcuna obbligazione con la holding saranno, quindi, sprovvisti di qualsiasi rimedio fallimentare nei confronti del socio di controllo.

Tale dissertazione è suffragata da un'opulenta giurisprudenza, la quale converge nell'asserire che nessuna disposizione esclude – in presenza dei presupposti previsti dalla legge per l'individuazione, nell'holding, di un'impresa – che si possa dichiarare il fallimento (Trib. Marsala – Sez. civile – 26 aprile 2016). In particolare, ci si riallaccia all'holding personale (o individuale), che si concretizza ogni volta che una persona fisica agisca in nome proprio. Come già ribadito in precedenza, ciò preannuncia la configurabilità di un'autonoma impresa assoggettabile a fallimento. Ma è oltremodo doveroso rimarcare che «la valutazione di insolvenza dell'imprenditore di cui sia chiesto il fallimento va condotta sulla base del patrimonio della società medesima; in caso di società occulta, non vi è alcun patrimonio attribuibile all'ente, che quindi non è in grado di far fronte alla richiesta risarcitoria avanzata dal fallimento istante» (Trib. Padova - Sez. I - 1° agosto 2017, sent. n. 150).

Tuttavia, nel marasma giurisprudenziale e dottrinale non è mancato chi ha avuto l'ardire di voler superare il requisito della spendita del nome, onde imputare le obbligazioni in capo al dominus (sia esso un'holding individuale o societaria) che eserciti un'attività di direzione su una o più società. Ad onor del vero, tale tentativo si aggrappava alla teoria dell'imprenditore occulto, sostenuta da Walter Bigiavi, di cui al primo paragrafo. Tale corrente di pensiero, sulla scorta dell'art. 147 l.fall., applicando l'astruso meccanismo dell'analogia iuris, ambiva ad estendere il fallimento del socio occulto di società palese, previsto dal comma 4, al fallimento della società occulta e del socio occulto di tale società (disciplinato dall'art. 147, comma 5, l. fall.), per poi giungere, sempre attraverso l'interpretazione analogica, al fallimento dell'imprenditore occulto che dirige l'attività esercitata dal prestanome. In ambito societario, ciò spianava la strada all'accertamento della responsabilità patrimoniale e della fallibilità del dominus occulto, sovrano di società capitali.

Ciononostante, è irrinunciabile il richiamo al comma 1 dell'art. 147 l.fall., che circoscrive il fallimento per estensione ai soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili, di società appartenenti «ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del Titolo V del Libro V del codice civile». Come si può ben vedere, la norma assume carattere eccezionale, sicché è insuscettibile di interpretazione analogica.

Si riporta, a tal proposito, una sentenza del Tribunale di Ancona, confermata dalla Corte di Appello di Ancona, la quale è approdata alla conclusione secondo cui: «Ai fini dell'assoggettamento della holding individuale a fallimento non occorra alcuna esteriorizzazione dell'attività di direzione e coordinamento, in quanto ciò che rileva non è l'imputazione diretta o indiretta degli atti di impresa al dominus, ma il dato fattuale o giuridico del governo della condotta unitaria; il sistema normativo delineato non esige ai fini della configurazione della responsabilità l'esteriorizzazione di atti. L'attività di direzione tirannica professionalmente organizzata, in spregio ai principi di corretta gestione imprenditoriale, delle società strumentali etero dirette configura di per sé attività di impresa ed una conseguente responsabilità per tutte le obbligazioni delle società dominate e nei confronti di tutti i creditori» (Trib. Ancona 10/8/2009 e App. Ancona, 5/3/2010, in Giur. comm., a cura di M. Prestipino).

La deliberazione in esame muove dall'assunto dell'art. 2497 c.c., il cui primo comma acclara: «le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all'integrità del patrimonio della società». Vale a dire che, nella circostanza in cui il capogruppo abbia esercitato attività di direzione e coordinamento in modo abusivo, ovvero in spregio dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, ed anche abusando della personalità giuridica delle imprese sottoposte, è chiamato a rispondere non solo delle obbligazioni contratte direttamente spendendo il proprio nome — come vorrebbe l'orientamento tradizionalmente seguito dalla giurisprudenza di legittimità — bensì anche di quelle contratte dalle e in nome delle società dirette e coordinate. Indi ragion per cui i soggetti che vantano pretese creditorie solo ed esclusivamente nei confronti delle società figlie e non anche nei confronti della società madre, potranno ingiungere direttamente la richiesta di fallimento per l'holding, qualora essa sia insolvente rispetto alle obbligazioni gravanti sulle imprese eterodirette. Tale interpretazione contemplerebbe che l'abuso dell'attività direttiva e di coordinamento sarebbe foriera non solo di responsabilità risarcitoria, ma soprattutto di responsabilità patrimoniale.

A tal proposito, le correnti maggioritarie della dottrina e della giurisprudenza collimano nel ritenere che la responsabilità ex art. 2497 c.c. sia di tipologia esclusivamente risarcitoria e non anche patrimoniale, non solo dal momento che tale disposizione pone in rilievo l'autonomia patrimoniale delle singole società formanti il gruppo, ma anche poiché l'azione prevista dalla norma in esame è un'azione di responsabilità per i danni arrecati dall'attività di direzione abusiva ai soci e ai creditori delle società dirette e coordinate, non un'azione diretta ad ottenere l'adempimento delle obbligazioni contratte in nome di queste ultime.

Nondimeno, il soggetto giuridico controllante è responsabile nei confronti dei creditori delle società figlie, quando l'attività di direzione sia stata esercitata in spregio dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale e, in particolare, abbia causato un pregiudizio all'integrità patrimoniale alla società diretta e coordinata tale da rendere il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese creditorie. Tuttavia, affiora una notevole singolarità: in questa ipotesi non galleggerebbe nemmeno la problematica relativa alla spendita del nome, giacché tale requisito è rilevante solo per quanto riguarda le obbligazioni “volontarie”, non anche per quelle “involontarie”, quali per natura le obbligazioni risarcitorie.

Ove si spalleggi tale soluzione, è indispensabile dedurre che «i creditori che si possono insinuare al passivo della holding sono, oltre ai creditori le cui pretese trovino giustificazione in atti negoziali compiuti in proprio nome dal capogruppo, anche i creditori delle società figlie che abbiano subito un danno a causa dell'insufficienza del patrimonio delle società, sempre che tale insufficienza (e la successiva insolvenza della società di cui sono creditori) sia causalmente riconducibile all'attività direttiva esercitata dalla holding in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale. Non dunque tutti i creditori delle società figlie, bensì solo quelli delle società la cui insolvenza sia causalmente riconducibile all'attività di direzione abusiva del capogruppo» (M. Prestipino, ibidem)

Ad onta di ciò, sono due le possibili scappatoie di cui l'holding potrebbe giovare. La prima concernerebbe il piano probatorio: l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento da parte del soggetto (o società) controllante soffre un'inversione dell'onere della prova. Ciò determinerebbe che dovrà essere l'holding a provare il contrario, ossia il mancato esercizio del dominio. La seconda si rintraccia nell'ultima parte del primo comma dell'art. 2497 c.c.

L'abuso di attività di direzione e coordinamento

Prima di disvelare la scappatoia recantesi nell'ultima parte del primo comma dell'art. 2497 c.c., è d'uopo rintracciare gli elementi fondamentali di un'attività di direzione e coordinamento che si qualifichi come “abusiva”, essendo questa esercitata da un dominus o una società capogruppo, e invada la personalità giuridica delle società a quest'ultima sottoposte.

Tuttavia, è prioritario chiarificare che l'individuazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale non è stata delineata dal legislatore, che al riguardo ha utilizzato una clausola generale. Di volta in volta, quindi, l'interprete dovrà valutare, alla luce della fattispecie concreta, se siano stati violati i suddetti principi, adottando il metro della ragionevolezza delle scelte gestionali e non di opportunità delle stesse, in quanto quest'ultima appartiene al campo della discrezionalità non sindacabile, come affermato da M. Greggio (La holding occulta e la responsabilità da direzione e coordinamento: una nuova frontiera dell'attività recuperatoria nel fallimento, in Riv. Crisi d'Impresa e Fallimento, 3 novembre 2017), secondo il noto principio della c.d. business judgment rule (Montalenti, La riforma del diritto societario: profili generali, in Ambrosini (a cura di), La riforma delle società, Torino, 2003, 16). Le società eterodirette, in altri termini, non sono altro che “strumenti strategici per un interesse sovradimensionato” (Cass., 25 luglio 2016, n. 15346).

Malgrado ciò, è palmare che, seppure in presenza di attività di direzione e coordinamento, le società del gruppo siano pur sempre centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici, con la conseguenza che ciascuna delle predette società «è, di fronte ai terzi, un soggetto di diritto distinto da ogni altra società del medesimo gruppo, ciascuna responsabile dei debiti da essa assunti, non responsabile dei debiti assunti dalle altre società, che per esse sono, giuridicamente, debiti altrui». Indi ragion per cui, l'ipotesi della mala gestio della società eterodiretta si tratteggia nella fattispecie in virtù della quale la condizione complessiva di questa «le preclude di operare come autonomo “centro di profitto” sia pure nel contesto dato» (in tal senso: Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2006, 204; Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, cit., 39. In argomento cfr., altresì, Trib. Roma, 27 agosto/13 settembre 2007, in Riv. dir. comm., 2007, II, 212 e ss.).

Tant'è vero che i suddetti principi di corretta gestione appaiono come “normogenetici”, dal momento che coniano degli indici generali che, in seguito, si traducono in vere e proprie regole, adattabili al caso concreto e ai caleidoscopici problemi verificabili nella realtà di gruppo (in tal senso, E. Mugnai, Responsabilità da direzione e coordinamento, Gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, in IlFallimentarista).

Pertanto, la corretta gestione, secondo il legislatore, non solo dev'essere societaria, ma anche imprenditoriale: ciò determina che il contenuto dei principi di cui prima è “mutuabile” dai principi e dalle regole che disciplinano l'amministrazione delle singole società; dai principi e dalle regole poste a presidio della corretta gestione delle società in quanto appartenenti ad un gruppo societario; dai principi che presiedono alla corretta gestione di un'impresa. E non solo. Si ponga il caso della società eterodiretta che versi in uno stato di crisi; in questa circostanza, la minuziosa osservanza dei principi di cui prima imporrebbe che la società controllante non possa in alcun modo non curarsi dello stato in cui si trova l'impresa diretta, al contrario, sia tenuta a “fronteggiare” la crisi allo scopo di evitarne il peggioramento (Cfr. Miola, Attività di direzione e coordinamento e crisi di impresa nei gruppi di società, in Società, banche e crisi d'impresa, Liber amicorum Abbadessa, Torino, 2014, 3, 2693).

Tuttavia, l'art. 2497 c.c. di cui sopra, nel corpus del primo comma, riporta anche che «non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell'attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette». Il fenomeno giuridico in questione fonda la teoria dei cosiddetti “vantaggi compensativi”, in ragion della quale si assevera che «il principio di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società del gruppo si sostanzia nel fatto che, nella valutazione di quel che potenzialmente giova o invece pregiudica l'interesse della società, non si possa prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto all'effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell'atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza» (M. Furno, Un'ipotesi di responsabilità dell'amministratore per abuso di direzione e coordinamento, in Il Fallimentarista, 5 Novembre 2012).

Ad onor del vero, la tesi dei vantaggi compensativi sgorga dall'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale anteriore alla riforma societaria del 2003, con l'obiettivo di contemperare l'interesse della società, atomisticamente considerata, e l'interesse del gruppo, nel quale la stessa è inserita, alla luce dell'egemonia economica della società controllante nei confronti della controllata. Sicché, una volta normato tale principio nell'anatomia dell'art. 2497 c.c., la previsione legislativa di cui si discute «lega strettamente la mancanza del danno al corretto esercizio dell'attività di direzione e coordinamento, la quale ultima costituisce il cuore, l'oggetto dell'intera disciplina dei gruppi di società […] Essenziale per l'esenzione della responsabilità è l'assenza del danno sin dall'origine, ovvero l'eliminazione dello stesso a mezzo di apposito idoneo intervento ad hoc» (ibidem).

È incontestabile, tuttavia, appurare innanzitutto l'esistenza dell'holding di fatto come causa efficiente del comportamento perpetrato da quest'ultima nei confronti delle imprese eterodirette, in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale. Pertanto, ciò si decritterebbe non solo nel palmare abuso della personalità giuridica, ma soprattutto in un danno consumato nei confronti delle società figlie, dal quale l'holder dovrebbe trarre trasparente vantaggio (o arricchimento), come statuisce la norma in modo netto. Indi ragion per cui, il fenomeno di holding può dirsi realizzato, quando si dipana il nesso di causalità non solo tra l'esistenza della stessa e la condotta abusiva cagionante il danno, ma anche nel momento in cui quest'ultimo annienta la o le società figlie onde giovare solo alla madre. Confermativa di tale assunto è la sentenza del Tribunale di Vicenza (cfr. Corte d'Appello di Napoli, sent. n. 2035/2020), in ragion della quale «non può dirsi integrato un fenomeno di holding quando non vi sia prova del completo assoggettamento alla volontà dell'holder da parte degli organi sociali (amministratori ed assemblea) delle controllate di fatto» e, ancor di più, la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «il fatto che le singole società perseguano l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, prova a favore dell'esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'autonoma insolvenza» (Cass.Civ., sez. I, 20/05/2016, n.10507). Allo stesso modo, la Corte d'Appello di Napoli ha indicato lo spunto innovativo di ritenere che l'holding di fatto affonda, per il tema dell'onere probatorio, nella fattispecie dell'azione di responsabilità, promossa dai creditori sociali nei confronti degli amministratori, con richiami diffusi alla sentenza a Sezioni Unite n. 9100 del 2015.

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