C'erano una volta… Bruno Contrada, i “Signori Grigi” e il Gatto del Cheshire

09 Novembre 2020

All'indomani delle Sezioni Unite intervenute nel caso Genco con cui, com'è noto, le stesse hanno negato che la decisione assunta nella vicenda di Bruno Contrada possa qualificarsi come “sentenza pilota”, si ritiene utile segnalare tre importanti arresti...
Abstract

All'indomani delle Sezioni Unite intervenute nel caso Genco con cui, com'è noto, le stesse hanno negato che la decisione assunta nella vicenda di Bruno Contrada possa qualificarsi come “sentenza pilota”, si ritiene utile segnalare tre importanti arresti: quello con cui la Corte d'Appello di Palermo ha (in modo, per vero, non del tutto lineare) accolto l'istanza di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da Contrada; il revirement della Sezione VI della Suprema Corte, la stessa che aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione della esportabilità della sentenza Contrada ai “fratelli minori”; la declaratoria di ricevibilità da parte della Corte di Strasburgo del ricorso avanzato da Vincenzo Inzerillo, condannato per “concorso esterno” in associazione di tipo mafioso relativamente a fatti verificatasi prima delle S.U. Demitry.

Anche lui. Come Bruno Contrada. Come Stefano Genco.

L'ordinanza con cui la Corte d'Appello di Palermo ha ristorato Bruno Contrada per l'“ingiusta detenzione” sofferta nel procedimento dichiarato unfair dalla Corte EDU

Prima di evidenziare le anomalie che, a sommesso avviso di chi scrive, ne caratterizzano il decisum, appare doveroso seguire l'ordine di trattazione delle relative questioni.

Innanzitutto, la Corte d'Appello di Palermo, Sez. II, con ordinanza del 12 novembre 2019 (depositata il 6 aprile 2020), n. 25, ha proceduto alla definizione del contesto.

Dopo aver preso le (obbligatorie) mosse dalla sentenza n. 3 del 14 aprile 2015, con cui la Corte EDU aveva (ben) rilevato che le ipotesi oggetto dell'orientamento giurisprudenziale formatosi prima delle S.U. Demitry e citate dal Governo «non riguardano il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (…) bensì reati diversi, quali la cospirazione politica attraverso la costituzione di una associazione e gli atti di terrorismo», la Corte siciliana ha ovviamente ricordato quanto stabilito dalla Suprema Corte il 6 luglio 2017: stante l'«obbligo dei giudici italiani di conformarsi (…) alla decisione della Corte EDU (…), nel caso di violazioni delle norme convenzionali afferenti al diritto penale sostanziale, specificamente riconducibili all'art. 7, (…) nell'ordinamento interno gli strumenti processuali attraverso i quali eseguire (…) la sentenza della Corte europea (…) non possono che essere individuati nell'ambito dei poteri di cui dispone il giudice dell'esecuzione».

È puntualissima la considerazione svolta dalla Suprema Corte (riportata immediatamente dopo) e cioè che, non essendo stata registrata dalla Corte EDU alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo, la sua decisione «non implica né appare superabile mediante alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria»; dal che la Corte di Palermo ha (correttamente) ricavato la «esclusione della possibilità di attivare il procedimento di revisione ex art. 630 c.p.p.».

Anche perché, lo si consenta, non si riesce davvero a capire l'utilità – in uno alla corretta pertinenza e coerenza – di un siffatto rimedio a fronte di un procedimento celebratosi per fatti legalmente non predefiniti, dunque, non e mai giudicabili.

Sennonché, dato l'indiscutibile monopolio del giudice dell'esecuzione, «(…) il genus delle doglianze di cui può essere investito il giudice ex art. 666 c.p.p. deve comprendere tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, con riguardo alla conformità del titolo esecutivo alla legge».

Trattasi di potere riveniente dal combinato disposto degli artt. 666-670 c.p.p., norma quest'ultima che «implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell'ambito applicativo dell'istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo».

Si rifletta ad alta voce sul seguente dato: opportuno il riferimento all'art. 670 c.p.p. ma non sarebbe stato tecnicamente più corretto invocare e inquadrare il caso Contrada – causa ed effetto – là e nella previsione dell'art. 673 c.p.p.?

Cos'è, infatti, l'abolizione del reato se non il Giano della sua inesistenza ab origine?

Sarà stata una scelta ponderata dal legislatore quella di non inserirne il riferimento esplicito (perché basico e, dunque, “banale” stanti gli artt. 25, comma 2, Cost. e 2 c.p.) o è necessaria una Q.L.C. per richiedere e ottenere una manipolazione di tipo additivo?

Perché, è ovvio, gli effetti benefici derivanti dalla revoca – art. 673 c.p.p. – sono certamente maggiori rispetto a quelli conseguenti alla declaratoria di non esecutività e sospensione (cfr. § 2.2) – art. 670 c.p.p. – del titolo esecutivo.

Sic.

Un vero rompicapo: ciò che non è, proprio perché non è, non può essere né divenire… ora per allora; eppure compare e scompare nella saga di Bruno Contrada – e nella mente di chi si ostina a ragionar di diritto – come il Gatto del Cheshire alla povera Alice nel Paese delle Meraviglie.

Non va censurato del tutto, invece, quanto osservato dalla Procura Generale e riferito dalla Corte d'Appello al punto 3.3 a proposito della domanda di equa soddisfazione.

Ed infatti, essendo stato riconosciuto dalla Corte di Strasburgo il relativo diritto previsto dall'art. 41 CEDU, il requirente aveva sostenuto «l'impossibilità di reiterare uno strumento “riparatorio” come quello preteso con il presente ricorso alla Corte d'Appello, avendo già ottenuto un riconoscimento della pretesa».

Vero. Tuttavia, è la stessa Procura a fornire la chiave di volta. E infatti, se il ristoro concesso dal giudice europeo è intervenuto a titolo di danno morale – quantificato nei consueti € 10.000,00 – la domanda in sede nazionale non poteva prescindere dalla prova del nesso di causalità tra la violazione contestata e il danno (anche) materiale lamentato.

Prova evidentemente fornita.

Quindi, al § 3.8, si riportano le conclusioni rassegnate dall'Avvocatura dello Stato nel senso della «imprescindibilità della valutazione di un concorso di colpa dell'odierno ricorrente».

V'è da chiedersi, ancora e spasmodicamente, quale colpa possa addebitarsi a chi all'epoca non poteva – né aveva alcun obbligo di – prevedere l'esito delle sue «“frequentazioni imprudenti”». Un esito chiaro, certo e, dunque, prevedibile solo nel 1994. Solo a partire dal 5 ottobre 1994, per l'esattezza.

Ma questo lo si è già detto, ribadito, sviscerato e si cerchi di non tediare più il Lettore.

Si giunge finalmente al capitolo quinto della ordinanza, dedicato alla decisione.

Già al § 5.1 si intravede – il rompicapo dovrebbe essere risolto con una severa modifica della l. 13 aprile 1988 n. 117 – il senso di ogni azione giudiziaria intrapresa in ambito penale: la costruzione (chirurgicamente corretta) del capo d'imputazione.

Ecco cosa scrive la Corte siciliana: «(…) non è configurabile alcuna ipotesi risarcitoria in relazione alla c.d. “ingiusta imputazione”, ossia all'imputazione rivelatasi infondata, a seguito di sentenza di assoluzione, esulando essa dalle ipotesi normativamente previste dall'ordinamento vigente, che ammette la riparazione del danno, patrimoniale e non, unicamente nei casi di: a) custodia cautelare ingiusta (…); b) irragionevole durata del processo (…); c) condanna ingiusta accertata in sede di revisione, c.d. “errore giudiziario”».

Chissà se è realmente servita la condanna dello Stato italiano da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea; chissà se è davvero innovativa ed efficace la modifica intervenuta con l. 27 febbraio 2015 n. 18. La si consideri – e sia – una breve riflessione ad alta voce, poiché non è questa la sede per occuparsene e, dunque, si proceda oltre.

Chissà, infine, se è consentito un cenno a quanto spiegato dentro le mura – virtuali – del The Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights ed avente ad oggetto “La logica e il processo. Il processo e la verità”.

Come sottolineato in modo acuto da Federico Puppo e Silvestre Costanzo, in occasione del nuovo modulo del corso “Linguaggio e Comunicazione” organizzato da La.P.E.C. e tenutosi in streaming il 16 ottobre u.s., si assiste (troppo) spesso ad una inversione logico-temporale della scansione procedimentale: l'Ufficio di Procura, infatti, è solito costruire prima il capo d'imputazione per poi vagliare la solidità delle prove su cui esso si fonda. Si aggiunga in questa sede: artt. 430 c.p.p. e (tardiva) discovery ai sensi dell'art. 415-bis c.p.p., a parte.

Sennonché, “a prescindere” dalla essenza degli artt. 273 c.p.p. e segg. – art. 285 c.p.p. soprattutto – e 358 c.p.p., non si può che condividere il seguente pensiero: il capo d'imputazione, laddove nasce, si sviluppa e porta a termine l'ἀγών tra Accusa e Difesa, non può e non deve essere fluido.

Se il meccanismo disciplinato dagli artt. 516 e segg. c.p.p. è un retaggio (eccezionalmente rimasto in vita) del sistema inquisitorio, v'è un motivo ben preciso. Storicamente, culturalmente e ideologicamente indiscutibile, così come irrinunciabile e perciò stesso immodificabile.

Ancora sulla scia lapechiana e nell'ottica del realismo aletico – da preferire all'epistemicismo su cui poggia la c.d. “fallacia ad ignorantiam” – nel contesto processuale è più corretto parlare di realtà piuttosto che di verità, anche perché «la verità di un enunciato consiste nel suo accordo (o corrispondenza) con la realtà» (Così, ARISTOTELE, Metafisica, IV, 7, 1011 b 25-6).

Tradotto nell'odierno affair: se davvero Alfa, nel caso specifico Bruno Contrada, sia stato «“persona disponibile” nei confronti di “Cosa Nostra”» non rileva e non può né deve rilevare, perché è il “nucleo duro intangibile” di ciò che fonda e costituisce la dimensione del diritto penale sostanziale italiano a vietarlo. In modo assoluto.

Gianni Vattimo probabilmente parlava alla testa – non già alla pancia – del popolo, allorquando sosteneva che «la verità come assoluta, corrispondenza oggettiva, intesa come ultima istanza e valore di base, è un pericolo più che un valore», giacché si basa su «uno sfondo di violenza» che mette a repentaglio «la nostra esistenza di soggetti liberi» in nome di «una pretesa di dominio» (Vedi G. VATTIMO, Addio alla verità, Roma, 2009, pp. 11, 22, 25 e 27).

Orbene, tornando alla ordinanza in rubrica, ecco che nel paragrafo 5.2 si registra la prima – bivalente – anomalia cui si accennava all'inizio.

Ivi si legge: «Conformemente alle richieste del P.G. e dell'Avv. dello Stato dinanzi illustrate e alle quali si rimanda, va esclusa l'applicazione dell'ipotesi ex art. 643 c.p.p. (i cui presupposti sono stati negati dalla stessa Corte EDU, oltre che dalla Cass. Sez. I^, 6/7/2017, n. 43112), e ciò in quanto essa si fonda su un errore di carattere oggettivo del giudice che ha emesso la pronuncia, infine rescissa a seguito del giudizio di revisione. Il rimedio predisposto dal nostro ordinamento per poter eliminare una condanna definitiva rivelatasi ingiusta (sia con riferimento agli aspetti sostanziali inerenti l'accertamento dei fatti e la responsabilità dell'imputato sia con riferimento ai profili di garanzia processuale), rimane la revisione del giudicato penale di condanna (…). Rimedio che, però, nella fattispecie resta precluso, come si è detto, dal fatto che il Contrada ha rinunciato al ricorso per Cassazione avverso la sentenza di rigetto dell'istanza di revisione emessa nei suoi confronti dalla Corte d'Appello di Caltanissetta».

Giustamente! Vien da chiosare, ma con riferimento alla rinuncia, non già alla revisione.

Detto anche in tal caso con maggiore impegno esplicativo, non si condivide affatto l'idea che la revisione sia l'unico strumento attivabile a seguito della declaratoria di unfairness da parte della Corte di Strasburgo. Essa ha senso – ed è utile, il diritto avendo senso se è utile alla sfera concreta e tangibile dell'esistenza umana – solo nel caso di errores in procedendo, non già nel caso di un deficit sistemico di tipo strutturale, così come è avvenuto nel caso di Bruno Contrada. Condannato senza legge, in spregio agli artt. 25, comma 2, Cost., 2 c.p. e 7 CEDU

Già.

Piuttosto, il rimedio attivabile in tal caso era ed è l'incidente d'esecuzione, non già però (lo si ripeta) nella versione soft dell'art. 670 c.p.p., ma in quella strong dell'art. 673 c.p.p.

Anche perché, ricorda B. LAVARINI, I rimedi post iudicatum alla violazione dei canoni europei, in Aa. Vv., I princìpi europei del processo penale, a cura di A. Gaito, Roma, 2016, p. 118, nota 110, «la soluzione ex art. 673 c.p.p. sarebbe più “appetibile” per l'interessato, perché, conducendo a una decisione sostanzialmente assolutoria, lo preserverebbe, diversamente dalla declaratoria ex art. 670 c.p.p. di inesistenza della condanna illegale, dal rischio del bis in idem».

In ordine, poi, alla Q.L.C. dell'art. 643 c.p.p., la Corte rammenta – in modo un po' contraddittorio, per vero – l'indirizzo inaugurato dalla Consulta con la sentenza n. 148/1983.

Afferma che al fine della rilevanza, «ciò che conta per la Corte non è più – come accadeva per l'antico filone restrittivo – l'influenza della propria pronuncia sul contenuto del giudizio reso dall'autorità rimettente, ma solo l'influenza sul modo (in senso ampio) con cui questa raggiunge le proprie conclusioni, e sull'iter logico che a queste conduce». Dunque: modo (concetto che desta qualche perplessità, così come il relativo distinguo), non già contenuto.

Tuttavia, immediatamente dopo “precisa”: «La rilevanza della questione comporta, perciò, che il giudice che l'ha sollevata possa avvalersi della nuova situazione normativa ipotizzata solo dopo la dichiarazione di incostituzionalità, cioè che l'eventuale decisione di accoglimento della Corte possa avere effetti concreti nel processo a quo». E su questo non v'è dubbio.

“Quindi”, così conclude: «E per di più la Corte talora li ha intesi come effetti pratici o sostantivi, cioè come conseguenze in ordine al contenuto delle decisioni che il giudice rimettente si sarebbe trovato a pronunciare».

L'up and down del peso specifico attribuito al contenuto è innegabile.

Ad ogni modo, quel che è certo – e su questo si è perfettamente d'accordo – «il requisito della rilevanza implica che la questione dedotta abbia nel procedimento a quo un'incidenza attuale, concreta e non meramente eventuale: solo quando il dubbio investa una norma dalla cui applicazione il giudice dimostri di non poter prescindere si concretizza il fenomeno della pregiudizialità costituzionale».

A questo punto, si inizia a disvelare – per chi scrive – il no sense delle argomentazioni con cui la Corte d'Appello ha rigettato la questione: «(…) la norma di rito invocata dalla Difesa istante non appare avere una incidenza attuale e concreta nel procedimento instaurato, in quanto nel caso di specie non ci si trova nell'ambito di una ipotesi di violazione di regole processuali (giusto processo). E tanto meno il vulnus delimitato dalla difesa istante si appalesa sanabile mediante una qualche rinnovazione di attività processuali o probatorie e non “lascia spazio al giudice italiano per l'adozione di rimedi differenti da quelli adottabili (…) ai sensi degli artt. 666 e 670 cpp)” (cfr. Cass. pen. Sez. I, 6 luglio 2017, n. 43112)».

La norma di rito invocata dall'istante è quella di cui all'art. 643 c.p.p., non a caso rubricata Riparazione dell'errore giudiziario; e proprio perché relativa alla riparazione dell'errore giudiziario, non si riesce ad intendere che senso abbia evidenziare che nel caso di specie non si tratti di violazione di regole processuali. Non è stata (definitivamente) richiesta la revisione – tant'è che al relativo ricorso per Cassazione Bruno Contrada ha poi rinunciato – né giova invocare i poteri del giudice dell'esecuzione che è certo fosse l'unico legittimato a rimuovere gli effetti di una decisione ingiusta. Come dire: se il quesito è X non si può rispondere in merito ad Y.

Semmai, proprio perché l'istituto della riparazione dell'errore giudiziario fa riferimento esplicito (e linguisticamente esclusivo) a chi è stato prosciolto in sede di revisione – salvo ricorrere ad una interpretazione costituzionalmente orientata – tale formulazione avrebbe reso necessario l'incidente di legittimità costituzionale, anche in tal caso una pronuncia di tipo additivo rivelandosi l'unico strumento adatto per allargarne le maglie normative.

Si giunge, poi, al paragrafo 5.4 ove si esclude pure il rimedio di cui all'art. 314 c.p.p. – donde la seconda anomalia che nascerà dal raffronto con il P.Q.M. – perché, «attenendo alla custodia cautelare sofferta, ha portata particolarmente riduttiva rispetto agli ulteriori danni causati al Contrada dall'ingiusta condanna, apparendo in tal senso corretta (…) la notazione difensiva (…) secondo la quale il processo celebrato nei confronti del Contrada “si è svolto in relazione a fatti che al momento in cui sono stati commessi erano privi di rilevanza penale fin dalla sua origine” (…)».

All'interno del paragrafo 5.5, l'anomalia aumenta di grado: «Quanto evidenziato al punto 1.7 consente agevolmente a questa Corte di individuare negli artt. 666 e 670 c.p.p. lo strumento per addivenire alla legittima richiesta di ristoro dei danni subiti dal Contrada, essendosi (..) così testualmente espressa la Suprema Corte con la sentenza del 6 luglio 2017: “la decisione della Corte EDU non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in questa sede ai sensi degli artt. 666 e 670 c.p.p. (…)”».

Orbene, quel che non si comprende è il seguente dato: che senso ha invocare gli articoli 666-670 c.p.p. – già applicati, peraltro, dalla Suprema Corte che il 6 luglio 2017 si era pronunciata proprio in sede di esecuzione e proprio come ricordato ai punti 1.5-1.7 dalla stessa Corte d'Appello di Palermo – se il procedimento del quale quest'ultima è stata investita ha ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione?

Disposizioni normative – inutilmente – richiamate anche dopo, laddove si afferma che tali articoli non «possono che essere interpretati nel senso di consentire l'eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna del giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni di legittimità (Cass. pen., Sez.Unite, n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto)».

Assurdità! Direbbe la piccola Alice.

Se il garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione e se il codice consente – o impone? – la eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna che conventionally “oltre che” constitutionally correct non è stata, non è e non lo sarà mai, perché la stessa Corte d'Appello di Palermo, n.q. di giudice dell'esecuzione – non già ora – e come si ricorda al paragrafo 1.4, ha dichiarato inammissibile l'istanza di revoca ex art. 673 c.p.p.? Lo ricorda in sintesi la sentenza Cass. pen., n. 43112/2017: «il Giudice dell'esecuzione evidenziava che, nel caso in esame, la Corte EDU non aveva fornito alcuna indicazione sugli strumenti processuali utilizzabili per consentire all'ordinamento italiano di conformarsi alla sua decisione, con la conseguenza che, in assenza di specifiche prescrizioni, il provvedimento revocatorio richiesto dal condannato non poteva essere adottato, senza che una tale soluzione implicasse l'elusione dell'art. 46 CEDU».

Giovi peraltro riferire – per esigenze di completezza – che la stessa Corte d'Appello palermitana, Sez. III, con ordinanza del 23 novembre 2015, aveva già dichiarato inammissibile analogo ricorso avanzato da un “fratello minore”. L'art. 673 c.p.p., si era sostenuto in quel procedimento, disciplina l'abolitio criminis che è fattispecie diversa da quella oggetto del giudicato europeo; inoltre, il giudicato europeo intervenuto nel caso Contrada non ha fatto emergere alcun vizio strutturale dell'ordinamento interno (si tratta di ordinanza inedita richiamata da B. LAVARINI, op. cit., p. 119).

Orbene, quanto al secondo aspetto, si consideri che la presenza del vizio strutturale – prima delle S.U. Demitry – è già stata approfondita e altro non v'è da aggiungere.

In ordine, invece, al primo segmento, ci si domanda, esattamente come prima e ancora una volta: cos'è l'abolizione del reato se non il Giano della sua inesistenza ab origine?

Sarà stata una scelta ponderata dal legislatore quella di non inserirne il riferimento esplicito (perché basico e, dunque, “banale” stanti gli artt. 25, comma 2, Cost. e 2 c.p.) o è necessaria una Q.L.C. per richiedere e ottenere una manipolazione di tipo additivo?

Ipotesi, per vero, prospettata anche dalla manualistica appena citata che però ha optato per la soluzione diversa da quella sommessamente sostenuta da chi scrive; anche se, lo si confessa, l'interpretazione costituzionalmente orientata (forse un po' forzata ma in modo… ragionevole e sotto l'egida costante degli artt. 25, comma 2, e 117 Cost., in uno all'art. 7 CEDU) è quella che in questa sede maggiormente si predilige e che trae conferma da un importante arresto del giudice di legittimità.

Più esattamente, Cass. pen., Sezioni Unite, 29 ottobre 2015 (dep. 23 giugno 2016), n. 26259, Mraidi, rv. 266872, al § 6.2, ha ritenuto che «(…) non vi è ragione di circoscrivere le ipotesi di revoca per abolitio disciplinate dall'art. 673 c.p.p. ai casi previsti dall'art. 2, secondo comma, c.p. e non anche a quelli del primo comma, che traggono valore cogente dall'art. 25, secondo comma, Cost.».

Linfa vitale maggiore, a sostegno della propria tesi, non si poteva sperare di ottenere.

Ciò detto, si rammenti il pensiero dell'Autrice (Ead., ibĭdem, p. 120): «Lo stesso giudice potrebbe, invece, sollevare una questione di legittimità costituzionale, non tanto dell'art. 673 c.p.p. laddove non consente la revoca della condanna per un fatto che, secondo la giurisprudenza del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato – sul presupposto che l'accezione europea del divieto di retroattività in peius includa gli orientamenti giurisprudenziali» e si ritiene non vi possa essere più alcun dubbio, stante l'ampia accezione di legge/law intesa dal giudice europeo e che certamente comprende sia la produzione legislativa, tecnicamente intesa, che quella di origine giurisprudenziale (il c.d. “diritto vivente”), «quanto degli artt. 110 e 416-bis c.p. per violazione del principio di determinatezza della legge penale, ricavabile, prima ancora che dall'art. 7 CEDU, dall'art. 25 Cost.».

Ebbene, dato che ormai – proprio grazie alle e a partire dalle S.U. Demitry – il “concorso esterno” è reato tipizzato e dunque passibile di contestazione ex nunc, una eventuale Q.L.C. formulata in questi termini non avrebbe più alcuna ragione d'essere sollevata.

Sia consentita una ulteriore riflessione e non la si reputi (o la si perdoni se considerata) una impertinenza: qual è stata l'utilità per la Corte d'Appello di Palermo – chiamata a decidere il procedimento iscritto al n. 36/2019 R.I.D. – di attendere il deposito della sentenza delle S.U. Genco per effettuare il deposito della propria ordinanza relativa a Bruno Contrada, ricorrente vittorioso a Strasburgo e riconosciuto definitivamente tale anche in Italia?

Si sostiene che (richiamando p. 15 della sentenza n. 22 delle S.U.) laddove «la CEDU constati una violazione del tipo di quella di cui ci si occupa “lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non soltanto di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione prevista dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie aventi contenuto ripristinatorio (…)”».

Certamente. Ma trattasi di consapevolezza ampiamente consolidata.

Infine, scrive l'Estensore: «Su tal via», ci si domanda quale, «deve procedersi al ristoro dell'intera carcerazione subita dal Contrada, carcerazione che ha visto la sua permanenza in carcere per anni 3, mesi 9 e giorni 20 ed una detenzione domiciliare complessiva di anni 4, mesi 2 e giorni 10. Sulla base dei noti parametri utilizzati anche ai sensi dell'art. 315 c.p.p., la somma per tali voci ammonta ad € (…)».

Qualcosa non convince. E non convince soprattutto alla luce del P.Q.M.: «Visti gli articoli 314, 315 e 646 c.p.p. (…)». Ci si chiede, in buona sostanza, come mai siano state invocate tali norme – esatte, certo, per chi scrive – se invece entrambi i meccanismi da esse disciplinati sono stati esclusi.

Ed infatti, nel paragrafo 5.2 si leggeva: «Conformemente alle richieste del P.G. e dell'Avv. dello Stato (…), va esclusa l'applicazione dell'ipotesi ex art. 643 cpp (…)»; analogamente nel paragrafo 5.4: «Escluso, infine, resta il rimedio di cui all'art. 314 c.p.p. (…)».

Bruno Contrada ha avuto la “giusta” riparazione. Per quanto umanamente possibile. Ma sulla base di quale (corretto) addentellato normativo non è dato saperlo.

Ad ogni modo e, proseguendo oltre, si giunge al paragrafo 1.9 dove si trova l'essenza della ordinanza: il richiamo dell'istante all'art. 643 c.p.p. – ed alla eventuale Q.L.C. – o, in subordine, agli artt. 314 e segg. c.p.p.

Nel dettaglio, la Q.L.C. dell'art. 643 c.p.p. era stata sollevata

«nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina della riparazione per errore giudiziario all'ipotesi di sentenza di condanna dichiarata inefficace, in sede di incidente d'esecuzione, a seguito di riconoscimento dell'inesistenza del precetto, all'esito di pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo».

La richiesta in via gradata di applicazione dell'istituto della riparazione per ingiusta detenzione si spiegava – data la supremazia dell'art. 5 CEDU sull'incĭpit linguisticamente inteso dell'art. 314 c.p.p. – alla luce degli insegnamenti dati dalla Corte costituzionale nel 2008, 2004 e 1996, per cui trattasi di rimedio ad ampio raggio.

Detto con maggiore impegno esplicativo, posto che l'art. 5 CEDU «prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di detenzione da considerare ingiusta senza distinzioni del titolo che l'ha imposta», nessun valore ostativo può essere attribuito al proscioglimento cui pur l'art. 314 c.p.p. fa esplicito riferimento. Ciò «in quanto il processo celebrato nei confronti di Contrada (…) “deve reputarsi in sé illegittimo e illegale, fin dall'apertura delle indagini perché (…) si è svolto in relazione a fatti che al momento in cui sono stati commessi erano privi di rilevanza penale”: fin dalla sua origine (…) esso si sarebbe svolto, quindi, “in violazione dell'art. 25 Cost., dell'art. 7 CEDU e dell'art. 2 c.p.”».

Esattamente.

Splendido il richiamo a Corte cost. n. 310/1996 secondo cui il diritto all'equa riparazione spetta anche a chi sia stato vittima di un ordine di esecuzione sbagliato – al pari di quello «emesso in assenza di un valido titolo esecutivo come quello costituito da una sentenza successivamente revocata» – atteso che «“l'ordine di esecuzione illegittimo lede la libertà della persona in misura non inferiore della detenzione cautelare ingiusta”».

A questo punto, il desiderio è di fare un salto nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo che, confezionato dall'Unione delle Camere Penali Italiane, appare ed è Magna Charta del buon penalista.

Sì perché l'art. 10, al comma 3, così recita: Il principio di irretroattività della legge più sfavorevole opera in ogni fase della dinamica punitiva, ivi compresa quella dell'esecuzione della condanna.

Non è un caso.

Eppure, al § 2.2, si assiste a un'erronea interpretazione che il rimedio disciplinato dall'art. 673 c.p.p. (in luogo di quello prescelto ex art. 670 c.p.p.) avrebbe certamente impedito.

La Procura Generale ha tenuto a precisare quanto segue: «il provvedimento emesso dalla Corte di Cassazione in data 6/7/2017 (…) con cui è stata dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada dalla Corte d'Appello di Palermo in data 25/2/2006, irrevocabile il 10/5/2007, non esclude la sussistenza dei fatti processualmente accertati e contestati al ricorrente con la sentenza irrevocabile emessa nei suoi confronti».

Errata interpretazione che il limbo cui il titolo esecutivo è relegato, a sua volta consentito dall'art. 670 c.p.p., “legittima”.

Si legge ancora al § 2.3: «Si sottolinea, pertanto, che la decisione adottata dal giudice europeo ne limita la portata all'ambito esecutivo (circoscritto dalla Cassazione con il provvedimento del 6/7/2017), ma si deve escludere che la stessa possa travolgere il giudicato penale nella sua interezza e comporti, perciò, anche l'elisione dell'accertamento dei fatti rilevanti costituenti oggetto del merito di quel giudizio».

Lo si permetta: una simile considerazione ben sarebbe stata evitata se l'istanza depositata il 13 luglio 2016 e avente ad oggetto la richiesta di revoca di cui all'art. 673 c.p.p. non fosse stata dichiarata inammissibile.

Sennonché, la censura cui l'osservazione della P.G. si presta non può che essere la seguente: il fatto non poteva integrare un illecito penale, “semplicemente” perché quel fatto, compiuto in quel momento storico, non era considerato – da nessuno – reato; perciò, come potesse restare in vita un giudicato, frutto di un procedimento che non aveva neppure “da” essere iscritto nell'R.G.N.R., è davvero di impossibile comprensione.

E invece, si legge al § 2.5, «ritiene (…) il requirente che i fatti accertati con la sentenza di condanna di Contrada divenuta irrevocabile siano comunque di imprescindibile valutazione nell'ambito del presente procedimento (…)», al punto che subito dopo si riferiscono – e rivalutano nel merito – le prove attestanti il “concorso esterno” del Contrada. Ma Bruno Contrada all'epoca dei fatti non poteva aver commesso alcun “concorso esterno”, perché in quel preciso contesto temporale proprio quel reato non era stato sufficientemente tipizzato e, dunque, non esisteva.

Decisione

Già al § 5.1 si intravede – il rompicapo dovrebbe essere risolto con una severa modifica della l. 13 aprile 1988 n. 117 – il senso di ogni azione giudiziaria intrapresa in ambito penale: la costruzione (chirurgicamente corretta) del capo d'imputazione.

Ecco cosa scrive la Corte siciliana: «(…) non è configurabile alcuna ipotesi risarcitoria in relazione alla c.d. “ingiusta imputazione”, ossia all'imputazione rivelatasi infondata, a seguito di sentenza di assoluzione, esulando essa dalle ipotesi normativamente previste dall'ordinamento vigente, che ammette la riparazione del danno, patrimoniale e non, unicamente nei casi di: a) custodia cautelare ingiusta (…); b) irragionevole durata del processo (…); c) condanna ingiusta accertata in sede di revisione, c.d. “errore giudiziario”».

Chissà se è realmente servita la condanna dello Stato italiano da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea; chissà se è davvero innovativa ed efficace la modifica intervenuta con l. 27 febbraio 2015 n. 18. La si consideri – e sia – una breve riflessione ad alta voce, poiché non è questa la sede per occuparsene e, dunque, si proceda oltre.

Chissà, infine, se è consentito un cenno a quanto spiegato dentro le mura – virtuali – del The Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights ed avente ad oggetto “La logica e il processo. Il processo e la verità”.

Come sottolineato in modo acuto da Federico Puppo e Silvestre Costanzo, in occasione del nuovo modulo del corso “Linguaggio e Comunicazione” organizzato da La.P.E.C. e tenutosi in streaming il 16 ottobre u.s., si assiste (troppo) spesso ad una inversione logico-temporale della scansione procedimentale: l'Ufficio di Procura, infatti, è solito costruire prima il capo d'imputazione per poi vagliare la solidità delle prove su cui esso si fonda. Si aggiunga in questa sede: artt. 430 c.p.p. e (tardiva) discovery ai sensi dell'art. 415-bis c.p.p., a parte.

Sennonché, “a prescindere” dalla essenza degli artt. 273 c.p.p. e segg. – art. 285 c.p.p. soprattutto – e 358 c.p.p., non si può che condividere il seguente pensiero: il capo d'imputazione, laddove nasce, si sviluppa e porta a termine l'ἀγών tra Accusa e Difesa, non può e non deve essere fluido.

Se il meccanismo disciplinato dagli artt. 516 e segg. c.p.p. è un retaggio (eccezionalmente rimasto in vita) del sistema inquisitorio, v'è un motivo ben preciso. Storicamente, culturalmente e ideologicamente indiscutibile, così come irrinunciabile e perciò stesso immodificabile.

Ancora sulla scia lapechiana e nell'ottica del realismo aletico – da preferire all'epistemicismo su cui poggia la c.d. “fallacia ad ignorantiam” – nel contesto processuale è più corretto parlare di realtà piuttosto che di verità, anche perché «la verità di un enunciato consiste nel suo accordo (o corrispondenza) con la realtà» (Così, ARISTOTELE, Metafisica, IV, 7, 1011 b 25-6).

Tradotto nell'odierno affair: se davvero Alfa, nel caso specifico Bruno Contrada, sia stato «“persona disponibile” nei confronti di “Cosa Nostra”» non rileva e non può né deve rilevare, perché è il “nucleo duro intangibile” di ciò che fonda e costituisce la dimensione del diritto penale sostanziale italiano a vietarlo. In modo assoluto.

Gianni Vattimo probabilmente parlava alla testa – non già alla pancia – del popolo, allorquando sosteneva che «la verità come assoluta, corrispondenza oggettiva, intesa come ultima istanza e valore di base, è un pericolo più che un valore», giacché si basa su «uno sfondo di violenza» che mette a repentaglio «la nostra esistenza di soggetti liberi» in nome di «una pretesa di dominio» (Vedi G. VATTIMO, Addio alla verità, Roma, 2009, pp. 11, 22, 25 e 27).

Orbene, tornando alla ordinanza in rubrica, ecco che nel paragrafo 5.2 si registra la prima – bivalente – anomalia cui si accennava all'inizio.

Ivi si legge: «Conformemente alle richieste del P.G. e dell'Avv. dello Stato dinanzi illustrate e alle quali si rimanda, va esclusa l'applicazione dell'ipotesi ex art. 643 c.p.p. (i cui presupposti sono stati negati dalla stessa Corte EDU, oltre che dalla Cass. Sez. I^, 6/7/2017, n. 43112), e ciò in quanto essa si fonda su un errore di carattere oggettivo del giudice che ha emesso la pronuncia, infine rescissa a seguito del giudizio di revisione. Il rimedio predisposto dal nostro ordinamento per poter eliminare una condanna definitiva rivelatasi ingiusta (sia con riferimento agli aspetti sostanziali inerenti l'accertamento dei fatti e la responsabilità dell'imputato sia con riferimento ai profili di garanzia processuale), rimane la revisione del giudicato penale di condanna (…). Rimedio che, però, nella fattispecie resta precluso, come si è detto, dal fatto che il Contrada ha rinunciato al ricorso per Cassazione avverso la sentenza di rigetto dell'istanza di revisione emessa nei suoi confronti dalla Corte d'Appello di Caltanissetta».

Giustamente! Vien da chiosare, ma con riferimento alla rinuncia, non già alla revisione.

Detto anche in tal caso con maggiore impegno esplicativo, non si condivide affatto l'idea che la revisione sia l'unico strumento attivabile a seguito della declaratoria di unfairness da parte della Corte di Strasburgo. Essa ha senso – ed è utile, il diritto avendo senso se è utile alla sfera concreta e tangibile dell'esistenza umana – solo nel caso di errores in procedendo, non già nel caso di un deficit sistemico di tipo strutturale, così come è avvenuto nel caso di Bruno Contrada. Condannato senza legge, in spregio agli artt. 25, comma 2, Cost., 2 c.p. e 7 CEDU

Già.

Piuttosto, il rimedio attivabile in tal caso era ed è l'incidente d'esecuzione, non già però (lo si ripeta) nella versione soft dell'art. 670 c.p.p., ma in quella strong dell'art. 673 c.p.p.

Anche perché, ricorda B. LAVARINI, I rimedi post iudicatum alla violazione dei canoni europei, in Aa. Vv., I princìpi europei del processo penale, a cura di A. Gaito, Roma, 2016, p. 118, nota 110, «la soluzione ex art. 673 c.p.p. sarebbe più “appetibile” per l'interessato, perché, conducendo a una decisione sostanzialmente assolutoria, lo preserverebbe, diversamente dalla declaratoria ex art. 670 c.p.p. di inesistenza della condanna illegale, dal rischio del bis in idem».

In ordine, poi, alla Q.L.C. dell'art. 643 c.p.p., la Corte rammenta – in modo un po' contraddittorio, per vero – l'indirizzo inaugurato dalla Consulta con la sentenza n. 148/1983.

Afferma che al fine della rilevanza, «ciò che conta per la Corte non è più – come accadeva per l'antico filone restrittivo – l'influenza della propria pronuncia sul contenuto del giudizio reso dall'autorità rimettente, ma solo l'influenza sul modo (in senso ampio) con cui questa raggiunge le proprie conclusioni, e sull'iter logico che a queste conduce». Dunque: modo (concetto che desta qualche perplessità, così come il relativo distinguo), non già contenuto.

Tuttavia, immediatamente dopo “precisa”: «La rilevanza della questione comporta, perciò, che il giudice che l'ha sollevata possa avvalersi della nuova situazione normativa ipotizzata solo dopo la dichiarazione di incostituzionalità, cioè che l'eventuale decisione di accoglimento della Corte possa avere effetti concreti nel processo a quo». E su questo non v'è dubbio.

“Quindi”, così conclude: «E per di più la Corte talora li ha intesi come effetti pratici o sostantivi, cioè come conseguenze in ordine al contenuto delle decisioni che il giudice rimettente si sarebbe trovato a pronunciare».

L'up and down del peso specifico attribuito al contenuto è innegabile.

Ad ogni modo, quel che è certo – e su questo si è perfettamente d'accordo – «il requisito della rilevanza implica che la questione dedotta abbia nel procedimento a quo un'incidenza attuale, concreta e non meramente eventuale: solo quando il dubbio investa una norma dalla cui applicazione il giudice dimostri di non poter prescindere si concretizza il fenomeno della pregiudizialità costituzionale».

A questo punto, si inizia a disvelare – per chi scrive – il no sense delle argomentazioni con cui la Corte d'Appello ha rigettato la questione: «(…) la norma di rito invocata dalla Difesa istante non appare avere una incidenza attuale e concreta nel procedimento instaurato, in quanto nel caso di specie non ci si trova nell'ambito di una ipotesi di violazione di regole processuali (giusto processo). E tanto meno il vulnus delimitato dalla difesa istante si appalesa sanabile mediante una qualche rinnovazione di attività processuali o probatorie e non “lascia spazio al giudice italiano per l'adozione di rimedi differenti da quelli adottabili (…) ai sensi degli artt. 666 e 670 cpp)” (cfr. Cass. pen. Sez. I, 6 luglio 2017, n. 43112)».

La norma di rito invocata dall'istante è quella di cui all'art. 643 c.p.p., non a caso rubricata Riparazione dell'errore giudiziario; e proprio perché relativa alla riparazione dell'errore giudiziario, non si riesce ad intendere che senso abbia evidenziare che nel caso di specie non si tratti di violazione di regole processuali. Non è stata (definitivamente) richiesta la revisione – tant'è che al relativo ricorso per Cassazione Bruno Contrada ha poi rinunciato – né giova invocare i poteri del giudice dell'esecuzione che è certo fosse l'unico legittimato a rimuovere gli effetti di una decisione ingiusta. Come dire: se il quesito è X non si può rispondere in merito ad Y.

Semmai, proprio perché l'istituto della riparazione dell'errore giudiziario fa riferimento esplicito (e linguisticamente esclusivo) a chi è stato prosciolto in sede di revisione – salvo ricorrere ad una interpretazione costituzionalmente orientata – tale formulazione avrebbe reso necessario l'incidente di legittimità costituzionale, anche in tal caso una pronuncia di tipo additivo rivelandosi l'unico strumento adatto per allargarne le maglie normative.

Si giunge, poi, al paragrafo 5.4 ove si esclude pure il rimedio di cui all'art. 314 c.p.p. – donde la seconda anomalia che nascerà dal raffronto con il P.Q.M. – perché, «attenendo alla custodia cautelare sofferta, ha portata particolarmente riduttiva rispetto agli ulteriori danni causati al Contrada dall'ingiusta condanna, apparendo in tal senso corretta (…) la notazione difensiva (…) secondo la quale il processo celebrato nei confronti del Contrada “si è svolto in relazione a fatti che al momento in cui sono stati commessi erano privi di rilevanza penale fin dalla sua origine” (…)».

All'interno del paragrafo 5.5, l'anomalia aumenta di grado: «Quanto evidenziato al punto 1.7 consente agevolmente a questa Corte di individuare negli artt. 666 e 670 c.p.p. lo strumento per addivenire alla legittima richiesta di ristoro dei danni subiti dal Contrada, essendosi (..) così testualmente espressa la Suprema Corte con la sentenza del 6 luglio 2017: “la decisione della Corte EDU non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in questa sede ai sensi degli artt. 666 e 670 c.p.p. (…)”».

Orbene, quel che non si comprende è il seguente dato: che senso ha invocare gli articoli 666-670 c.p.p. – già applicati, peraltro, dalla Suprema Corte che il 6 luglio 2017 si era pronunciata proprio in sede di esecuzione e proprio come ricordato ai punti 1.5-1.7 dalla stessa Corte d'Appello di Palermo – se il procedimento del quale quest'ultima è stata investita ha ad oggetto la riparazione per ingiusta detenzione?

Disposizioni normative – inutilmente – richiamate anche dopo, laddove si afferma che tali articoli non «possono che essere interpretati nel senso di consentire l'eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna del giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni di legittimità (Cass. pen., Sez.Unite, n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto)».

Assurdità! Direbbe la piccola Alice.

Se il garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell'esecuzione e se il codice consente – o impone? – la eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna che conventionally “oltre che” constitutionally correct non è stata, non è e non lo sarà mai, perché la stessa Corte d'Appello di Palermo, n.q. di giudice dell'esecuzione – non già ora – e come si ricorda al paragrafo 1.4, ha dichiarato inammissibile l'istanza di revoca ex art. 673 c.p.p.? Lo ricorda in sintesi la sentenza Cass. pen., n. 43112/2017: «il Giudice dell'esecuzione evidenziava che, nel caso in esame, la Corte EDU non aveva fornito alcuna indicazione sugli strumenti processuali utilizzabili per consentire all'ordinamento italiano di conformarsi alla sua decisione, con la conseguenza che, in assenza di specifiche prescrizioni, il provvedimento revocatorio richiesto dal condannato non poteva essere adottato, senza che una tale soluzione implicasse l'elusione dell'art. 46 CEDU».

Giovi peraltro riferire – per esigenze di completezza – che la stessa Corte d'Appello palermitana, Sez. III, con ordinanza del 23 novembre 2015, aveva già dichiarato inammissibile analogo ricorso avanzato da un “fratello minore”. L'art. 673 c.p.p., si era sostenuto in quel procedimento, disciplina l'abolitio criminis che è fattispecie diversa da quella oggetto del giudicato europeo; inoltre, il giudicato europeo intervenuto nel caso Contrada non ha fatto emergere alcun vizio strutturale dell'ordinamento interno (si tratta di ordinanza inedita richiamata da B. LAVARINI, op. cit., p. 119).

Orbene, quanto al secondo aspetto, si consideri che la presenza del vizio strutturale – prima delle S.U. Demitry – è già stata approfondita e altro non v'è da aggiungere.

In ordine, invece, al primo segmento, ci si domanda, esattamente come prima e ancora una volta: cos'è l'abolizione del reato se non il Giano della sua inesistenza ab origine?

Sarà stata una scelta ponderata dal legislatore quella di non inserirne il riferimento esplicito (perché basico e, dunque, “banale” stanti gli artt. 25, comma 2, Cost. e 2 c.p.) o è necessaria una Q.L.C. per richiedere e ottenere una manipolazione di tipo additivo?

Ipotesi, per vero, prospettata anche dalla manualistica appena citata che però ha optato per la soluzione diversa da quella sommessamente sostenuta da chi scrive; anche se, lo si confessa, l'interpretazione costituzionalmente orientata (forse un po' forzata ma in modo… ragionevole e sotto l'egida costante degli artt. 25, comma 2, e 117 Cost., in uno all'art. 7 CEDU) è quella che in questa sede maggiormente si predilige e che trae conferma da un importante arresto del giudice di legittimità.

Più esattamente, Cass. pen., Sezioni Unite, 29 ottobre 2015 (dep. 23 giugno 2016), n. 26259, Mraidi, rv. 266872, al § 6.2, ha ritenuto che «(…) non vi è ragione di circoscrivere le ipotesi di revoca per abolitio disciplinate dall'art. 673 c.p.p. ai casi previsti dall'art. 2, secondo comma, c.p. e non anche a quelli del primo comma, che traggono valore cogente dall'art. 25, secondo comma, Cost.».

Linfa vitale maggiore, a sostegno della propria tesi, non si poteva sperare di ottenere.

Ciò detto, si rammenti il pensiero dell'Autrice (Ead., ibĭdem, p. 120): «Lo stesso giudice potrebbe, invece, sollevare una questione di legittimità costituzionale, non tanto dell'art. 673 c.p.p. laddove non consente la revoca della condanna per un fatto che, secondo la giurisprudenza del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato – sul presupposto che l'accezione europea del divieto di retroattività in peius includa gli orientamenti giurisprudenziali» e si ritiene non vi possa essere più alcun dubbio, stante l'ampia accezione di legge/law intesa dal giudice europeo e che certamente comprende sia la produzione legislativa, tecnicamente intesa, che quella di origine giurisprudenziale (il c.d. “diritto vivente”), «quanto degli artt. 110 e 416-bis c.p. per violazione del principio di determinatezza della legge penale, ricavabile, prima ancora che dall'art. 7 CEDU, dall'art. 25 Cost.».

Ebbene, dato che ormai – proprio grazie alle e a partire dalle S.U. Demitry – il “concorso esterno” è reato tipizzato e dunque passibile di contestazione ex nunc, una eventuale Q.L.C. formulata in questi termini non avrebbe più alcuna ragione d'essere sollevata.

Sia consentita una ulteriore riflessione e non la si reputi (o la si perdoni se considerata) una impertinenza: qual è stata l'utilità per la Corte d'Appello di Palermo – chiamata a decidere il procedimento iscritto al n. 36/2019 R.I.D. – di attendere il deposito della sentenza delle S.U. Genco per effettuare il deposito della propria ordinanza relativa a Bruno Contrada, ricorrente vittorioso a Strasburgo e riconosciuto definitivamente tale anche in Italia?

Si sostiene che (richiamando p. 15 della sentenza n. 22 delle S.U.) laddove «la CEDU constati una violazione del tipo di quella di cui ci si occupa “lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non soltanto di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione prevista dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie aventi contenuto ripristinatorio (…)”».

Certamente. Ma trattasi di consapevolezza ampiamente consolidata.

Infine, scrive l'Estensore: «Su tal via», ci si domanda quale, «deve procedersi al ristoro dell'intera carcerazione subita dal Contrada, carcerazione che ha visto la sua permanenza in carcere per anni 3, mesi 9 e giorni 20 ed una detenzione domiciliare complessiva di anni 4, mesi 2 e giorni 10. Sulla base dei noti parametri utilizzati anche ai sensi dell'art. 315 c.p.p., la somma per tali voci ammonta ad € (…)».

Qualcosa non convince. E non convince soprattutto alla luce del P.Q.M.: «Visti gli articoli 314, 315 e 646 c.p.p. (…)». Ci si chiede, in buona sostanza, come mai siano state invocate tali norme – esatte, certo, per chi scrive – se invece entrambi i meccanismi da esse disciplinati sono stati esclusi.

Ed infatti, nel paragrafo 5.2 si leggeva: «Conformemente alle richieste del P.G. e dell'Avv. dello Stato (…), va esclusa l'applicazione dell'ipotesi ex art. 643 cpp (…)»; analogamente nel paragrafo 5.4: «Escluso, infine, resta il rimedio di cui all'art. 314 c.p.p. (…)».

Bruno Contrada ha avuto la “giusta” riparazione. Per quanto umanamente possibile. Ma sulla base di quale (corretto) addentellato normativo non è dato saperlo.

La Sez. VI della Suprema Corte segue la scia delle S.U. che hanno negato alla sentenza Contrada la natura di “sentenza pilota”

Benché avesse doverosamente dato atto di entrambi gli orientamenti – favorevole e sfavorevole alla efficacia della sentenza Contrada anche nei confronti dei “fratelli minori” – la Sezione Sesta aveva comunque prospettato – al § 14.5 – «una terza opzione interpretativa, più vicina al dictum della Corte EDU, secondo cui la sentenza sul caso Contrada ha inteso censurare tout court la qualità della base legale della norma incriminatrice e della pena. Accedendo a tale interpretazione, ai cosiddetti “fratelli minori” di Contrada, sempre che si ritenga non necessario investire della questione la Corte costituzionale, si dovrebbe estendere il principio, secondo cui la fattispecie di concorso esterno delineata dagli artt. 110 e 416-bis cod. pen. non potrebbe più trovare applicazione per i fatti commessi prima del cristallizzarsi dell'interpretazione consolidata delle Sezioni Unite in materia, risalente al 1994 (…)».

Peraltro, poco prima e in calce al paragrafo precedente, l'Estensore aveva puntualizzato che «l'opzione esegetica indicata dalla sentenza Dell'Utri, per quanto costituisca una equilibrata soluzione, offre (…) il fianco ad una critica in ordine al tipo di valutazione da compiersi caso per caso. Invero, la Suprema Corte ha trasformato il vulnus sistemico rilevato dalla Corte EDU in un vizio del singolo processo, avente ad oggetto un difetto della valutazione dei giudici che sono pervenuti alla condanna per reati di concorso esterno commessi in quella determinata fascia temporale, senza verificare la “rimproverabilità” soggettiva e quindi la colpevolezza dell'imputato a fronte di una situazione di incertezza interpretativa (…)».

Eppure, a distanza di poco tempo, la stessa Sezione si è allineata interamente alla decisione delle S.U. che tale efficacia erga omnes aveva negato.

Si tratta della sentenza emessa il 26 novembre 2019, depositata il 9 aprile 2020, n. 11770, con cui la Suprema Corte ha rigettato il ricorso avente ad oggetto il diniego opposto, a sua volta, dalla Corte d'Appello di Messina a un'istanza di revisione c.d. “europea” fondata sui princìpi affermati dalla Corte di Strasburgo nel caso Contrada.

Perdoni il Lettore la ripetizione, ma a fronte del gap sistemico-strutturale che aveva caratterizzato anche il procedimento e la condanna di C.C. – incardinato e intervenuta per concorso esterno in associazione di tipo mafioso, oltre che per corruzione – nessuno strumento differente dall'incidente d'esecuzione si sarebbe dovuto attivare.

Ad ogni modo, anche in tal caso, tant'è.

Nel Considerato in diritto, la Sezione Sesta scrive che «non si ravvisano ragioni per disattendere l'orientamento espresso dalle Sezioni Unite, alla cui stregua il ricorso deve essere rigettato».

Richiama la sentenza n. 113 del 2011 della Consulta, per cui la riapertura del processo può essere garantita ove la lesione convenzionale sia stata riscontrata nei confronti dello stesso soggetto che abbia vittoriosamente esperito il ricorso alla Corte di Strasburgo, ovvero nel caso in cui la sentenza del giudice europeo possa qualificarsi come “sentenza pilota”.

Considerazione corretta, in linea di principio e dato l'(errato) petitum sottoposto alla sua attenzione.

Ché, poi, la contraddizione è manifesta, atteso il riferimento svolto dal ricorrente all'art. 7 CEDU, alla «connotazione strutturale della violazione riscontrata e (al)la sua portata generale, tale da involgere il principio di legalità e da proiettarsi oltre i limiti soggettivi del giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo». Giusto, ma solo nelle intenzioni. Peccato, dunque, sia stato prestato il fianco a prevedibili censure, corrette – lo si ribadisce – in linea di principio e per l'ineccepibile corrispondenza tra il “chiesto” e il “pronunciato”; sbagliate – non ci si stanca di ripeterlo – per la sostanza e la forma che gli artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU meravigliosamente incarnano.

La Sezione Sesta si è limitata ad affermare che «proprio su tale tema l'arresto delle Sezioni Unite è di segno contrario». E ciò in quanto «la sentenza Contrada, evidentemente riferita a soggetto diverso dall'odierno ricorrente, non ha neppure carattere di sentenza “pilota”, non presentandone i requisiti formali e sostanziali, e comunque non è inquadrabile tra quelle che abbiano rilevanza e portata generale in rapporto all'individuazione di un problema di tipo sistemico, ferma restando, alla stregua dell'insegnamento della Corte costituzionale (Corte Cost. 49 del 2015), la necessità che ai fini della configurabilità di uno strutturale obbligo conformativo possa parlarsi di sentenza che tende ad assumere un valore generale e di principio. Le Sezioni unite hanno a tal fine rilevato che la sentenza della Corte di Strasburgo si è sviluppata attraverso l'esame del caso specifico e ha analizzato l'imputazione elevata a carico dell'imputato, la linea di difesa, le risposte ottenute e i relativi percorsi giustificativi sul tema della definizione giuridica del fatto e della prevedibilità, pronunciandosi in termini individuali, senza specificare se la violazione riguardasse i commi 1 o 2 dell'art. 7 CEDU e se dunque riguardasse l'accertamento in sé della penale responsabilità o il titolo e la connessa punizione, come peraltro avrebbe potuto dedursi da taluni passaggi (…)».

Non è vero; gli Ermellini muovono dallo stesso errato presupposto della sentenza Dell'Utri, laddove, invece, l'art. 7 – interamente considerato – è stato alla base della declaratoria di unfairness nel caso Contrada, non già (semmai) il solo secondo periodo del suo primo paragrafo.

Si riporti anche in questa sede il passaggio motivo della sentenza emessa dalla Corte EDU il 14 aprile 2015:«74. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. 75. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111- 118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154- 162, 7 febbraio 2012). 76. La Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione».

La Corte di Strasburgo ha capito e della sua comprensione ha dato inequivocamente atto: il reato è stato considerato di sicura matrice giurisprudenziale e sempre il reato, prima delle Sezioni Unite Demitry, non era sufficientemente chiaro e prevedibile.

Come già sostenuto, «logica conseguenza ne è, ovviamente, la imprevedibilità della pena, giacché se e solo se il reato di favoreggiamento personale – legislativamente predefinito – fosse stato ritenuto sussistente, Bruno Contrada avrebbe dovuto rispondere, dall'inizio ed essere condannato, alla fine, per questo reato che è certamente altro e diverso rispetto al “concorso esterno in associazione mafiosa”» (Sia consentito il rinvio a A. Caruso, Sezioni Unite: la sentenza della Corte EDU Contrada c. Italia non è una sentenza pilota, in questa Rivista, 24 marzo 2020).

Prosegue la Sezione Sesta con la sentenza n. 11770: «Relativamente alla verifica della portata generale dell'accertamento, le Sezioni unite l'hanno escluso, osservando che il giudizio si è sviluppato sia sul piano oggettivo sia su quello soggettivo dell'imprevedibilità, considerando l'andamento del processo di cognizione, delle difese e dei contenuti motivazionali: è stato in particolare sottolineato che è assente l'indicazione di misure ripristinatorie di carattere generale, universali e impersonali, destinate ad esplicare effetti oltre i limiti di quel giudizio».

Anche di questo si è già detto, poiché anche questo è stato l'(errato) ragionamento tracciato dalle S.U. Genco, seguìto dalla sentenza in esame; ciò, nonostante le medesime Sezioni Unite avessero ricordato quanto stabilito dalla Grande Camera, 13 luglio 2000, caso Scozzari e Giunta c. Italia: «Oltre a tale strumento – cioè la sentenza pilota formalmente e tecnicamente intesa – è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all'esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione».

E non v'è dubbio che la condizione sia da intendersi in senso oggettivo.

A nulla poteva, può né potrà mai valere l'andamento del procedimento di cognizione o il substrato soggettivo e intellettuale del ricorrente: se la norma – quale che ne sia il formante – non preesiste al reato, il reato non può esistere. Per nessuno.

È la logica a imporlo – forse anche la più semplice – contraddetta dalla esistenza mera (ammessa allora solo per apparire politically correct) delle sentenze pilota o simil tali.

Epperò, così (mal) ragionando, esse rischiano di pilotare il nulla, disegnando e cancellando ad oltranza il tracciato di ogni individuo, proprio come il bizzarro “Stregatto” continua a fare con Alice. Ché, poi, Alice sembra avere il volto di Bruno Contrada: emaciato, perché estenuato ma comunque risarcito di un danno irrisarcibile. «Il Risparmio di Tempo non è paragonabile ad alcun'altra forma di risparmio! È una questione di assoluta fiducia, da ambo le parti!».

Così esclamava uno dei “Signori Grigi” al Signor Fusi (vedi M. ENDE, Momo, Milano, 1984, p. p. 65) e in senso analogo si esprime l'art. 31 del Manifesto U.C.P.I.: La soggezione al potere pubblico non può essere temporalmente illimitata: la durata ragionevole del processo deve essere assicurata in forma distinta e autonoma rispetto alla prescrizione del reato.

Sì, perché anche il tempo è un diritto e una libertà fondamentale dell'uomo.

Non solo. A ben riflettere, Alice può avere le sembianze di qualunque “fratello minore” di Bruno Contrada o addirittura – si perdoni l'azzardo – della Corte di Strasburgo; dai suoi referendari si fatica talvolta a essere ricevuti, Essa stessa fatica talaltra a entrare nella testa del singolo perché ogni testa – si sa – è/ha un Tribunale e infine, se e quando ha pur riconosciuto che l'errore è stato compiuto, rischia la decapitazione per mano di una Regina di cuori che tutto vuole azzerare senza esitazione.

Se le rose son bianche, a nulla serve dipingerle di rosso, esso ben presto sbiadirà.

Allo stesso modo, se il reato non esisteva perché non ancora (in senso ampio) codificato – solo il “diritto vivente” e solo le S.U. Demitry avendogli dato vita certa nell'ordinamento giuridico – la declaratoria della sua inesistenza, con conseguente caducazione di ogni effetto processuale, assorbirà chiunque. Dovrà assorbire chiunque. Quali che siano i panni indossati, perché la nuance sarà sempre quella naturale delle rose: il bianco che racchiude in sé tutte le tonalità dello spettro elettromagnetico, comprese quelle che hanno tinto il percorso di Stefano Genco, Vincenzo Inzerillo e dei loro “gemelli diversi”.

Tornando alla sentenza in esame, nel paragrafo 2.4 si legge: «Inoltre è stato rimarcato come la sentenza non esprima un diritto consolidato, riconducibile ad un filone interpretativo uniforme, in assenza di pronunce analoghe sul tema, riguardante il concorso esterno in associazione mafiosa prima del 1994, e in assenza di una univoca e costante impostazione applicativa e interpretativa dei concetti di accessibilità e prevedibilità del diritto penale, quale possibilità per il cittadino di prendere anticipata cognizione del comando normativo e delle conseguenze punitive».

Ebbene, sul primo degli aspetti poc'anzi riportati si può e si deve essere d'accordo, giacché proprio dall'assenza di un diritto consolidato è nato il bailamme giurisprudenziale sul binomio degli artt. 110 e 416-bisc.p. (ben evidenziato dai giudici rimettenti della questione alle S.U. Genco nel § 14.2); donde il carattere risolutivo – ergo: creativo – delle sole S.U. Demitry.

Sul secondo aspetto, viceversa, non v'è assonanza di vedute: l'accessibilità e la prevedibilità – se interpretate nell'unico senso possibile e giuridicamente corretto, cioè, oggettivo – sono l'in se della norma penale, la sua innegabile genesi.

Continua l'Estensore: «E si è dunque osservato che l'inedito rigore della sentenza Contrada si contraddistingue per il metro di apprezzamento della prevedibilità e per il fatto di aver superato i rilievi incentrati sul criterio soggettivo o quello della considerazione sociale, risultando non in sintonia con quanto osservato in circostanze diverse (secondo le pronunce all'uopo richiamate dalle Sezioni unite a pag. 22) (…). In particolare è stato posto in evidenza in rapporto all'analisi contenuta nella sentenza Contrada che non si sarebbe potuto parlare di creazione giurisprudenziale e che peraltro le ragioni di contrasto ravvisabili si sarebbero potute appuntare sulla qualificazione del fatto, non sul discrimine tra la sua liceità e la sua illiceità, non essendo preclusa per il soggetto agente la possibilità di avvedersi della possibile punizione di condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione mafiosa, fermo restando che il dibattito sul tema e la persistenza dell'incertezza avrebbe comunque imposto l'astensione da comportamenti che potevano dare luogo alla contestazione del reato anche in relazione al patrimonio di conoscenze del soggetto».

Tuona il 13esimo articolo, secondo periodo, del Manifesto U.C.P.I.: L'interpretazione della legge è uguale per tutti. Quale che sia il relativo “patrimonio conoscitivo”, se tale va inteso – ed è questo il significato che le S.U. avevano fatto proprio – il background socio-culturale dell'individuo.

Già.

Appare discutibile, altresì, l'ulteriore passaggio: «Ed anche con riguardo al tema della qualificazione del fatto le Sezioni Unite hanno rilevato come la sentenza Contrada non risulti in linea con precedenti affermazioni della Corte di Strasburgo (cfr. pag. 26 segg.), e hanno inoltre richiamato gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in materia di overruling giurisprudenziale, ferma restando comunque la difficoltà di individuare il momento dell'insorgenza di un quadro giurisprudenziale idoneo a garantire la prefigurazione in capo al soggetto agente della punizione penale».

Il che val quanto dire: il patrimonio di conoscenze, specie se si tratta di un soggetto colto come Bruno Contrada, è sufficiente a considerarlo responsabile di un reato che, pur non preesistendo chiaramente ed oggettivamente alla sua condotta, avrebbe comunque potuto e dovuto prevedere. Tuttavia, perdura la difficoltà di individuare il momento a partire dal quale tale reato – definito, dalla Corte EDU e senza timor di smentita, frutto della oscillazione giurisprudenziale italiana – può correttamente far presagire all'individuo l'an (e solo dopo il quantum) della propria punizione penale. La contraddizione in termini è di palmare evidenza, in uno all'errore di valutazione della Corte: il momento a partire dal quale il reato di “concorso esterno” ha iniziato ad esistere è netto: 5 ottobre 1994. Quanto accaduto – e contestato – prima era altro e diverso, (pure l'attuale) art. 521 c.p.p. permettendo.

Si fatica a comprendere appieno l'utilità del prosieguo motivo: «D'altro canto è stato posto in evidenza che il concetto di prevedibilità non è comunque estraneo all'ordinamento nazionale, anche alla luce della verifica dell'ignoranza inevitabile della legge penale, come desumibile dagli insegnamenti della Corte costituzionale».

Chi sostiene il contrario? Anzi, il concetto di prevedibilità è talmente immanente al principio di legalità – Nullum crimen, nulla poena, sine praevia lege poenali (…) – da non poter e dover essere mai messo in discussione. Ed infatti: posto che il reato X non esisteva al tempo in cui A ha posto in essere la sua condotta, A non può essere imputato, tantomeno condannato per X. A come Z e Z come A, perché A e Z sono uguali. Quale che ne sia… l'estrazione sociale, concetto tanto civilmente aberrante quanto penalmente inaccettabile.

Ancora, nel paragrafo 3 si legge: «Con riguardo al terzo motivo, incentrato sulla prospettata questione di legittimità costituzionale, deve rimarcarsi come secondo il richiamato orientamento della Corte costituzionale (sentenza n. 49 del 2015, ampiamente valorizzata dalle Sezioni unite) la prospettazione di uno scostamento della norma interna non possa discendere che da un orientamento realmente espressivo dell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo alla norma convenzionale, costituente norma interposta rispetto al parametro di costituzionalità riveniente dall'art. 117 Cost., che è anche, innanzi tutto, alla base della verifica della possibilità di un'interpretazione conforme».

La sentenza n. 3 del 14 aprile 2015 è realmente espressiva dell'interpretazione… oggettivamente rilevante data dalla Corte di Strasburgo alla violazione convenzionale.

La Q.L.C. si potrebbe formulare con riferimento all'art. 673 c.p.p. nei termini già abbondantemente spiegati e, dato che tanto (troppo) ancora si discute della (sola) seconda parte dell'art. 7 CEDU, si puntualizza che l'additiva dovrebbe involgere l'art. 2, c. 1, c.p.

Vale a dire quanto di più sacro e inviolabile possa esistere nell'universo mondo del diritto penale. La norma sostanziale non è altro che la versione codicistica dell'art. 25, c. 2, Cost.

Salvo si arrivi a sostenere che ne sia, in realtà, una “sorella minore” perciò stesso “meritevole” di esclusione. Se ciò fosse, il passo dalla leggerezza del “Bianconiglio” alla pesantezza di Godot sarebbe brevissimo! Eppure ancora si riflette insistentemente su un dato: se il legislatore non ha avuto la necessità di inserirlo nel diametro linguistico dell'art. 673 c.p.p., l'abolizione del reato equivalendo – finanche presupponendola – alla inesistenza a monte di una fattispecie penale, perché bussare alla porta della Consulta quando la risposta è… in re ipsa?

Tuttavia, la Sezione Sesta rigetta la Q.L.C. limitandosi a ribadire (per l'ennesima volta) «quanto osservato anche dalle Sezioni Unite in merito al fatto che l'incidente di costituzionalità difetta di rilevanza, dovendosi escludere che la sentenza Contrada possa proiettare effetti oltre i limiti di quel giudizio e che possano individuarsi specifici profili di illegittimità costituzionale nel giudicato di condanna nei confronti del ricorrente, in relazione all'art. 7 CEDU».

Se difetta di rilevanza, è solo perché l'efficacia erga omnes di quanto accertato, dichiarato ed oggettivamente impattante per N soggetti, che si trovino nella identica situazione di Bruno Contrada, è scontata. O almeno dovrebbe esserlo. Dunque, vi è certamente un profilo di disparità di trattamento, alla luce dell'art. 3 Cost., ma la Cassazione lo esclude «avuto riguardo al rilievo specifico attribuibile alla sentenza Contrada».

«Così è (se vi pare)».

La Corte di Strasburgo dichiara ricevibile il ricorso presentato dall'ex senatore della D.C. Vincenzo Inzerillo

Visto che quella emessa nel caso Contrada non è una “sentenza pilota”, Vincenzo Inzerillo si è trovato costretto a ricorrere alla Corte di Strasburgo. Come Bruno Contrada, diversamente da Stefano Genco, ma tutti e tre legati dallo stesso destino giudiziario: la condanna per “concorso esterno in associazione di tipo mafioso” relativamente a fatti antecedenti alle S.U. Demitry.

Nell'era delle semplificazioni, dello snellimento (proclamato) dei processi – compresi quelli promossi innanzi ai giudici europei – si discetta di «rilievo specifico attribuibile alla sentenza Contrada» per negare l'evidenza.

La ricevibilità, primo grande step che si antepone al manto blu con le stelline dorate, lascia presagire il risultato sperato, meritato, scontato ma – intra moenia – negato.

Chissà se anche questa è una violazione della “ragionevole durata del processo” e, con essa, della efficacia che di un tempo congruo – non già… irragionevolmente dilatato – si nutre.

Chissà, ancora, se è un caso che l'art. 2 del Manifesto U.C.P.I. reciti: Il diritto penale è uno strumento di controllo sociale che incide fortemente sui beni fondamentali della persona e in primo luogo sui suoi diritti di libertà, così come su onore e reputazione, rapporti di lavoro e di famiglia, e più in generale sugli spazi di interazione sociale dell'individuo.

Dunque è questa l'incredibile potenza del diritto penale. Esso si manifesta quale strumento che, se male accordato e maneggiato, deturpa la dimensione spazio/tempo dell'essere umano.

Neanche Momo riuscirebbe a restituire alle persone le ore, i minuti, i secondi, quegli attimi unici e irripetibili trafugati dai ladri del tempo.

Ché poi, se i “Signori Grigi” avevano già visto “di mal occhio” la vicenda di Bruno Contrada, il giudice europeo non potrà che riconoscere, altresì, la violazione del principio di imparzialità.

D'altronde si sa: il Giudice «non solo deve essere imparziale ma deve anche apparire tale», lo ha insegnato la nostra Corte costituzionale.

Alla Corte di Strasburgo – che già nel caso Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, n. 13778/88 del 25 giugno 1992, il bel principio aveva esaltato – spetta salvaguardare anche questo diritto. Mai e per nessuno perento.

Chi una condanna ingiusta ha subìto ricominci a vivere felice e contento.

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