Insolvenza fraudolenta

Alice Falconi
05 Aprile 2017

L'art. 641 c.p. punisce, con la reclusione fino a due anni e la multa fino a 516 euro, la condotta di colui il quale, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contrae un'obbligazione col proposito di non adempierla, qualora l'obbligazione non sia adempiuta. La punibilità del reato in oggetto è rimessa alla volontà della persona offesa, la quale deve, a tal fine, presentare querela. Il reato si estingue se, prima della condanna, l'obbligazione è adempiuta. La prima indagine che occorre condurre quando si approccia una fattispecie delittuosa è evidentemente quella di identificare il bene giuridico di cui il Legislatore si prefigge la tutela, poiché ...
Inquadramento

L'art. 641c.p. punisce, con la reclusione fino a due anni e la multa fino a 516 euro, la condotta di colui il quale, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contrae un'obbligazione col proposito di non adempierla, qualora l'obbligazione non sia adempiuta.

La punibilità del reato in oggetto è rimessa alla volontà della persona offesa, la quale deve, a tal fine, presentare querela.

Il reato si estingue se, prima della condanna, l'obbligazione è adempiuta.

L'interesse giuridico tutelato dalla norma

La prima indagine che occorre condurre quando si approccia una fattispecie delittuosa è evidentemente quella di identificare il bene giuridico di cui il Legislatore si prefigge la tutela, poiché da ciò spesso discendono i confini applicativi della norma stessa.

Prima di addentrarsi in tale specifico tema, deve osservarsi come l'introduzione del delitto in esame è stata oltremodo travagliata, avendo, le prime proposte legislative, preso avvio già nel 1877, quando dall'ordinamento giuridico veniva cancellato l'arresto per debiti e contestualmente nasceva l'esigenza di punire la cosiddetta insolvenza dolosa.

Per giungere ad una prima formulazione del reato di insolvenza fraudolenta, ci sono voluti più di quarant'anni.

Ebbene, come reso evidente dalla collocazione del delitto in parola nel Titolo XIII, disciplinante i delitti contro il patrimonio, esso tutela l'inviolabilità di quest'ultimo e la buona fede contrattuale, intesa come il rispetto dei vincoli obbligatori.

Sic et simpliciter, si è detto che il delitto in questione mira a sanzionare lo “scrocco”, ovvero la frode consistente, in buona sostanza, nell'avvalersi di consuetudini create dal vivere civile, quale quella di soddisfare il pagamento di determinate prestazioni dopo averne usufruito, al fine di “scroccare”, appunto, una prestazione, impedendo a chi l'ha offerta di pretenderne la restituzione.

I soggetti coinvolti

Il reato di insolvenza fraudolenta si appalesa come un tipico esempio di reato che richiede la cooperazione artificiosa della vittima; contraddistinguendosi, in ciò, dai delitti di aggressione unilaterale, disciplinati nel medesimo titolo.

Il soggetto attivo, trattandosi di un reato comune, può essere chiunque, diversamente che per il soggetto passivo, il quale è qualificato poiché si identifica con il creditore dell'obbligazione non adempiuta.

Il soggetto che non riceve la prestazione e il soggetto al quale si indirizza la condotta di dissimulazione dello stato di insolvenza, possono, a volte, anche non coincidere. In questo caso, il soggetto legittimato a proporre la querela sarà solo il primo.

In evidenza: il soggetto legittimato alla presentazione della querela.

Secondo quanto statuito dal supremo Consesso, nell'ipotesi di inadempimento di una polizza fideiussoria da parte del promittente, il terzo beneficiario che, in virtù di una specifica previsione contrattuale, abbia la possibilità di agire in via diretta contro il promittente, deve considerarsi titolare dell'interesse protetto dalla norma e, di conseguenza, legittimato a proporre querela (Cass. pen., Sez. II, 14 ottobre 2016, n. 50996).

Il presupposto del reato

Come si è detto, l'art. 641 c.p. punisce la condotta del soggetto che, versando in stato di insolvenza e dissimulando le proprie condizioni, contrae un'obbligazione con il proposito di non adempierla.

Appare, dunque, evidente che il presupposto del reato sia lo stato di insolvenza del soggetto attivo e cioè quella incapacità – già conclamata – di soddisfare le proprie obbligazioni.

L'impossibilità di adempiere l'obbligazione assunta deve, dunque, esistere nel momento in cui l'obbligazione viene contratta e persistere per tutta la durata del rapporto contrattuale.

È stato precisato, a riguardo, che lo stato di insolvenza, oggetto della dissimulazione, consiste non soltanto nel mancato pagamento ma anche, e soprattutto, nella condizione di insolvibilità rappresentata dalla mancanza attuale, totale o parziale, della possibilità di pagare che non sia manifesta all'altra parte contraente (Cass. pen., Sez. unite, 9 luglio 1997, n. 285).

Il reato sussiste, in sostanza, se è provata l'esistenza di una situazione che renda impossibile l'assolvimento delle obbligazioni assunte, non essendo a tal fine sufficiente, per escludere tale circostanza, il pagamento sporadico e saltuario di alcuni obblighi.

L'elemento materiale: la triplice condotta dell'autore. La dissimulazione

La condotta che viene sanzionata con la norma in esame è costituita da tre segmenti che concorrono a formare il comportamento illecito, segnatamente la dissimulazione dello stato di insolvenza, l'assunzione dell'obbligazione e l'inadempimento.

In dottrina si discute vivacemente sul se la dissimulazione dello stato di insolvenza debba concretizzarsi in un fatto positivo, oppure possa esternalizzarsi anche attraverso un mero comportamento negativo, limitandosi, l'autore, a tacere la propria impossibilità di adempiere.

La giurisprudenza ha accolto la tesi più estensiva, ritenendo che la dissimulazione possa realizzarsi sia mediante comportamenti attivi, che passivi, rientrando tra questi ultimi anche la reticenza o il silenzio.

È stato, infatti, stabilito che anche il silenzio serbato dall'agente può assumere rilievo quale forma di dissimulazione dello stato di insolvenza, quando quest'ultimo non sia conosciuto dall'altra parte contraente ed il silenzio su di esso sia legato al proposito preordinato di non far fronte ai propri obblighi contrattuali (Cass. pen., 5 giugno 2003, n. 29454).

A tale proposito, il supremo Consesso, nella sua più alta composizione, ha affermato: è proprio il comportamento silente dell'agente quello tipicamente idoneo a mantenere il soggetto passivo in errore, poiché questo non è indotto dal primo, ma è preesistente alla di lui condotta dissimulatoria in quanto provocato da circostante obiettive atte a far sorgere un affidamento sulla solvibilità del debitore (Cass. pen., Sez. unite, 9 luglio 1997, n. 285).

Quest'ultima ipotesi si verifica, con frequenza, in tutte quelle ipotesi in cui il contratto di stipula dell'obbligazione si realizza mediante facta concludentia. L'autore del reato, allora, approfitta e si avvale delle consuetudini in forza delle quale alla stipula dell'obbligazione contrattuale segue, normalmente, l'adempimento da entrambe le parti, per usufruire della prestazione, non adempiendo la propria.

La dissimulazione quale comportamento attivo è stata, invece, ritenuta in quei comportamenti che, pur non assumendo le caratteristiche degli artifici e raggiri, siano idonei ad ottenere la fiducia dell'altro contraente, in modo tale da vincere la normale diligenza dei rapporti contrattuali, così da porre l'altro contraente in condizioni di non accorgersi dello stato di insolvenza in cui versa il soggetto agente.

È stato affermato che la dissimulazione attiene ad un convincimento, precostituito, del creditore di solvibilità del debitore riflettente un dato di conoscenza o di costume che lo qualifica come un affidamento ben riposto (Cass. pen., Sez. unite, 9 luglio 1997, n. 285).

Se, diversamente, la dissimulazione è operata con artifici o raggiri, ricorre il più grave reato di cui all'art. 640 c.p.

Precisamente, nella truffa si mette in scena un comportamento volto a trarre in errore il contraente e carpire il suo consenso.

A riguardo, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha stabilito che il delitto di truffa si distingue da quello di insolvenza fraudolenta perché nella prima la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e condizioni non vere, create artificiosamente per indurre altri in errore, mentre nell'insolvenza fraudolenta la frode è attuata con la dissimulazione del reale stato di insolvenza dell'agente (Cass. pen., Sez. VII, 13 gennaio 2015, n. 16723).

Casistica

Secondo i giudici del supremo Consesso integra il reato di truffa e non quello di insolvenza fraudolenta il comportamento di chi abbia utilizzato una carta di credito ben oltre i limiti di solvenza, nel caso in cui l'autore non si sia limitato a dissimulare il proprio stato di insolvenza ma abbia creato un complesso di condotte frodatorie.

Nel caso di specie, il reo si era spacciato per un agente di commercio presso un istituto bancario, provvedendo ad un iniziale e consistente versamento di denaro, finalizzato al rilascio della carta di credito, che aveva, immediatamente dopo, prelevato, continuando, tuttavia, ad utilizzare la carta di credito per importi rilevanti. Il tutto nella consapevolezza che non era operativo un sistema di sicurezza volto al blocco della carta.

(Cass. pen., 2 maggio 2007, n. 16629)

L'assunzione dell'obbligazione

Oggetto della condotta è l'obbligazione, intesa come quel dovere o vincolo derivante da ogni negozio giuridico bilaterale, con esclusione delle obbligazioni da fatto illecito.

Da ciò discende che solo l'assunzione di obbligazioni reciproche, mediante il consenso prestato da entrambi i contraenti, conseguente all'avvenuta conclusione del contratto, costituisce presupposto dell'insolvenza fraudolenta.

A tale proposito, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che ai fini dell'integrazione del reato in parola, occorre che l'obbligazione contrattuale assunta sia valida ed efficace, non potendo, al contrario, sortire alcun effetto l'assunzione di un obbligo incapace di produrre effetti giuridici.

Tale circostanza si verifica, nello specifico, quando il negozio è nullo, e non meramente annullabile, poiché in quest'ultimo caso il negozio nasce valido ed operante, fintantoché la parte che ne invoca l'annullamento, non lo ottenga, atteso che solo in questo momento cessa di produrre i suoi effetti.

Infine, deve osservarsi come l'obbligazione assunta dall'autore del reato possa avere ad oggetto unicamente una prestazione di dare e non anche quella di fare, ovvero quella consistente nello svolgimento di una specifica attività in favore dell'altro contraente, ciò in quanto l'elemento tipico del reato è proprio la dissimulazione dello stato di insolvenza, circostanza che pare arduo riscontrabile nelle prestazioni che comportano un facere.

L'inadempimento. Elemento costitutivo del reato o condizione obiettiva di punibilità?

In dottrina si è molto dibattuto in ordine alla natura dell'inadempimento. Alcuni autorevoli Autori lo considerano, infatti, un elemento costitutivo del reato, mentre altri ritengono che esso si atteggi più come una condizione obiettiva di punibilità.

In quest'ultimo senso si è espressa anche la giurisprudenza maggioritaria. Secondo tale interpretazione, il delitto non può considerarsi perfezionato fino a quando non sia decorso il termine stabilito per l'adempimento dell'obbligazione, per cui l'omesso adempimento costituisce condizione obiettiva di punibilità (ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 19 novembre 1965, n. 3144).

Non mancano, tuttavia, pronunce di contrario avviso, benché isolate. I giudici di legittimità, in un caso posto al loro esame, hanno infatti stabilito che nel delitto di insolvenza fraudolenta l'inadempimento dell'obbligazione non è condizione obiettiva di punibilità, che consiste in un avvenimento al dì fuori del processo esecutivo del reato, perché l'inadempimento stesso attiene alla condotta dell'agente e costituisce l'ultima fase del suo pregresso comportamento e perciò integra l'elemento materiale del reato (Cass. pen., 13 dicembre 1964).

Rimane fermo il principio per cui con l'inadempimento si perfeziona il reato in esame e in esso si identifica il momento consumativo dell'illecito.

È stato, del resto, precisato che il reato de quo si consuma, anche ai fini della determinazione della competenza territoriale, non nel momento in cui l'obbligazione viene contratta oppure in quello in cui viene a manifestarsi l'insolvenza del debitore ma nell'ultima fase dell'iter criminoso, da individuarsi nel momento dell'inadempimento.

A tale riguardo, per l'esatta individuazione del momento perfezionativo del delitto, dovrà farsi richiamo alle norme civilistiche in tema di obbligazioni contrattuali e, in particolare, al termine previsto per l'adempimento.

Pertanto, è stato affermato che la fattispecie in commento si completa in tutti i suoi elementi nel momento e nel luogo nel quale l'obbligazione dovrebbe essere adempiuta e scade il termine dell'adempimento (Cass., 23 aprile 1985, n. 1203).

A tale proposito occorre fare una precisazione in merito alla condizione di procedibilità ed, in particolare, al momento dal quale far decorrere il termine di novanta giorni per la proposizione della querela. Occorre, infatti, osservare che il termine di proposizione della querela non decorre dalla data in cui si realizza l'inadempimento contrattuale, ma da quello in cui il creditore viene a conoscenza della condotta di dissimulazione realizzata dall'imputato (Cass. pen., Sez. II, 31 maggio 1976, n. 3580).

Si è inoltre specificato che, in caso di dilazione del termine di pagamento o di pagamento rateale, la notizia dell'inadempimento va accertata in relazione alla scadenza di ciascun termine fissato per il pagamento (Cass. pen., 15 dicembre 1955, Di Cagno).

Del resto, ai sensi del secondo comma della norma in esame, solo l'adempimento che interviene prima della sentenza di condanna estingue il reato.

In evidenza. L'adempimento prima della sentenza di condanna

A tal proposito, si è affermato che l'adempimento può avere efficacia estintiva del reato fino al passaggio in giudicato della sentenza e che quindi può effettuarsi anche dopo le sentenze di primo e secondo grado e nelle more del ricorso per Cassazione, in ciò distinguendosi dal risarcimento del danno, idoneo unicamente ad integrare la circostanza attenuante comune di cui all'art. 62, comma 6, c.p. (Cass. pen., Sez. II, 31 marzo 2016, n. 23017).

Sul punto, è stato inoltre precisato che la speciale causa di estinzione del reato, prevista dall'art. 641 cpv c.p., presuppone l'integrale adempimento dell'obbligazione e non può estendersi ad altre cause di estinzione dell'obbligazione stessa, non essendo consentita un'interpretazione estensiva o analogica.

Nel caso posto all'esame della Corte non è stata ritenuta integrativa della causa di estinzione prevista dalla norma in esame, l'intervenuta risoluzione consensuale del contratto, con restituzione della merce ricevuta dall'imputato, in adempimento del medesimo (Cass. pen., n. 4463 del 1984).

L'elemento soggettivo e il discrimen tra l'insolvenza fraudolenta e il mero inadempimento contrattuale

L'individuazione dell'elemento soggettivo del reato si offre a due diverse interpretazioni, a seconda che si segua la tesi secondo cui l'inadempimento è elemento costitutivo del reato oppure condizione obiettiva di punibilità.

I fautori della prima teoria, sostengono, invero, che il dolo del reato ex art. 641 c.p. sia generico e consista nella volontà e coscienza di assumere l'obbligazione col proposito di non adempierla, dissimulando il proprio stato di insolvenza; laddove lo scopo di non eseguire la prestazione non caratterizza il dolo, qualificandolo come specifico, bensì integra un elemento della condotta.

Per chi sostiene, invece, la seconda teoria, il dolo si presenta evidentemente come specifico e il proposito di non adempiere si manifesta come un fine di profitto, che necessariamente deve sussistere sin dall'assunzione delle obbligazione; non avendo rilevanza penale il proposito sorto in un momento successivo (Cass. pen., 4 ottobre 1965).

A mettere d'accordo le diverse tesi, è la ritenuta insufficienza, ai fini dell'integrazione dell'elemento psicologico, del dolo eventuale (Cass. pen., Sez. unite, n. 7738 del 1997).

Il proposito dell'agente di non adempiere l'obbligo deve sussistere nel momento in cui questo prende giuridica consistenza, non rilevando se questo sopravviene e il pagamento non viene effettivamente eseguito, poiché la prova dell'esistenza della volontà di non corrispondere quanto pattuito deve esistere al momento della contrattazione.

Pertanto, deve concludersi che ai fini della sussistenza del reato in parola, la condotta di chi tiene il creditore all'oscuro del proprio stato di insolvenza al momento di contrarre l'obbligazione, assume rilievo solo quando sia legata al proposito di non adempiere la dovuta prestazione.

Diversamente, non si configura alcuna ipotesi criminosa, ma un mero illecito civile, nel mero inadempimento non proceduto da alcuna intenzionale preordinazione (Cass. pen., 11 luglio 2006, n. 34192).

Il discrimine tra la condotta che integra il delitto di insolvenza fraudolenta e il mero inadempimento contrattuale si individua, quindi, proprio nell'elemento psicologico; dovendosi ritenere integrato il mero illecito civile allorquando l'inadempimento contrattuale non sia proceduto da alcuna intenzione preordinata di non adempiere (Cass. pen., Sez. II, 22 maggio 2009, n. 39890).

Tale inferenza probatoria, secondo i giudici di legittimità, può essere desunta da argomenti induttivi seri ed univoci, ricavabili dal contesto dell'azione e dal comportamento successivo all'assunzione dell'obbligazione, ma non esclusivamente dal mero inadempimento, che può rappresentare solo un indizio del dolo (Cass. pen., Sez. II, 21 gennaio 2015, n. 6847).

Così come è stato ritenuto non configurato il reato in esame, nel caso in cui colui che assume un'obbligazione con la riserva mentale di non adempierla, lo fa per causa diversa dallo stato di insolvenza.

Nel caso sottoposto al vaglio della Corte di cassazione, l'imputato non faceva fronte al pagamento delle cambiali asserendo che la scelta di non adempiere trovava giustificazione nella circostanza che l'autovettura acquistata non era funzionante (Cass. pen., Sez. II, 13 dicembre 2011, n. 46903).

In evidenza: il rapporto con il reato di ricorso abusivo al credito.

L'art. 218 della legge fallimentare punisce gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un'attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito … dissimulando il dissesto o lo stato d'insolvenza.

Anche tale limitrofa fattispecie delittuosa, si distinguedal delitto di cui all'art. 641 c.p., per l'elemento psicologico. La differenza si individua, invero, nel momento in cui sorge il proposito di non adempiere l'obbligazione, e cioè nel reato fallimentare l'imprenditore, pur celando volontariamente il proprio dissesto economico, non ha nel momento in cui ricorre al credito il proposito di non adempiere alle obbligazioni che assume, mentre nell'insolvenza fraudolenta, il proposito di non adempiere sussiste fin dal momento in cui l'agente assume l'obbligazione (Cass. pen., Sez. II, 3 marzo 1970, n. 499).

Omesso pagamento del pedaggio autostradale. Una questione risolta alle Sezioni unite

La questione che involge la rilevanza penale dell'omesso pagamento del pedaggio autostradale da parte del conducente è stata affrontata dalla Sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 285 del 1997.

L'occasione è sorta in seguito all'introduzione, nel corpo normativo del codice della strada, della previsione dell'illecito amministrativo di cui all'art. 176, comma 17, d.lgs. 285 del 1992, che sanziona la condotta di chi transiti senza fermarsi in corrispondenza delle stazioni creando pericolo […], ovvero ponga in essere atti al fine di eludere in tutto o in parte il pagamento del pedaggio autostradale, […] salvo che il fatto costituisca reato.

La questione di diritto posta all'esame del supremo Consesso, nella sua più autorevole composizione, riguardava se il comportamento dell'automobilista che si dichiari sprovvisto di denaro configuri il delitto di insolvenza fraudolenta oppure l'illecito amministrativo previsto dal codice della strada.

I giudici di legittimità hanno affermato che l'introduzione dell'illecito amministrativo non ha avuto quale fine quello di depenalizzare l'ipotesi di omesso versamento del pedaggio autostradale, ciò in ragione dell'espressa clausola di riserva.

Il supremo Consesso ha quindi affermato che il reato di insolvenza fraudolenta, in ipotesi di mancato adempimento, da parte dell'automobilista, dell'obbligazione di pagamento del pedaggio autostradale, inerente al negozio di utilizzo della relativa rete, non è escluso né dalla coesistenza di una figura integrante un illecito amministrativo, stante la sua funzione sussidiaria della norma penale, né dalla natura del pedaggio, che ha funzione di corrispettivo e non di tassa.

Una diversa interpretazione, secondo la Corte di cassazione, si presterebbe a destare sospetti di illegittimità costituzionale, tenuto conto che la legge delega al governo per la revisione delle norme concernenti la disciplina della circolazione stradale, è stata conferita per la revisione vigente delle infrazioni amministrative e relative sanzioni e previsione di nuove ipotesi in conseguenza della nuova disciplina, e non anche per depenalizzare comportamenti costituenti reato.

Al principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite si sono uniformate anche le Sezioni semplici, le quali hanno precisato che la previsione dell'art. 176 cod. strada si pone in rapporto di sussidiarietà rispetto al reato di insolvenza fraudolenta, e non di specialità, per cui il delitto non è escluso dalla coesistenza dell'illecito amministrativo ma sarà il giudice a dover valutare – caso per caso – la configurabilità dell'una fattispecie piuttosto che dell'altra (Cass. pen., Sez. II, n. 11734/2008).

Nel caso di specie, i giudici della suprema Corte di cassazione hanno affermato che fondamentale, ai fini della configurazione della fattispecie penale, in luogo di quella amministrativa, sia il fatto stesso dell'accettazione, con il ritiro del tagliando, della prestazione offerta dall'ente gestore dell'autostrada e dell'avere, in questo modo, assunto la relativa obbligazione di pagamento.

È certo, infatti, che così facendo l'automobilista approfitta della fiducia che l'ente gestore generalmente ripone nei conducenti, circa il corretto adempimento dell'obbligazione di pagamento del pedaggio.

In evidenza

In linea con la giurisprudenza che si è formata sulla distinzione tra i reati di insolvenza fraudolenta e truffa, la Cassazione, sentenza 8 settembre 2008, n. 34836 ha ritenuto integrato il secondo e più grave reato, nella condotta dell'automobilista che, in numerose occasioni, riusciva ad evitare di pagare il pedaggio autostradale, accodandosi a vetture munite di telepass nell'apposita corsia riservata, riuscendo a passare anch'egli prima che la sbarra si richiudesse.

La decisione è del tutto condivisibile, atteso che nel caso all'esame della Corte, la condotta del conducente appare improntata ad un atteggiamento psicologico di dolo specifico, rappresentato dalla consapevolezza di compiere un'azione diretta ad eludere il pagamento del pedaggio autostradale, attraverso il compimento di una condotta truffaldina ed astuta, ben travalicante la mera dissimulazione del proprio stato di insolvenza.

Uno sguardo all'art. 641 c.p. con “occhi europei”

Un'interpretazione dell'art. 641 c.p. orientata al rispetto dei principi europei impone di tenere necessariamente conto di quanto espresso dalla Carta europea dei diritti dell'uomo.

Come noto, del resto, a mente dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea, i diritti fondamentali garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, risultanti dalle tradizioni comuni degli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione, in quanto principi generali.

Anche la Corte Costituzionale, con le rinomate sentenze Corte cost. nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007, ha stabilito che le norme della Cedu sono norme interposte per il giudizio di costituzionalità.

Ebbene, tra i più importanti divieti stabiliti dalla Convenzione, rientra quello dell'imprigionamento per debiti, ovvero il principio per cui deve essere abolita la sanzione penale per gli inadempimenti civili, sancendo, in particolare, che nessuno può essere privato della propria libertà personale, per il solo fatto di non essere in grado di rispettare un'obbligazione contrattuale (protocollo n. 4, firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963, alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali).

Secondo questa condivisibile impostazione, pertanto, non tutti i fatti che rechino un danno ad un soggetto meritano la sanzione penale, che dovrebbe venire in ausilio della difesa privata quando questa sia impotente.

Appare allora quanto più necessario porre dei limiti ben definiti all'applicabilità della sanzione penale alle ipotesi riconducibili alla fattispecie di cui all'art. 641 c.p., specie nei casi in cui la condotta dell'autore non si estrinsechi in comportamenti attivi, ma l'autore del comportamento illecito si limiti a tacere il proprio stato di insolvenza.

La rilevanza penale del silenzio deve, dunque, trovare una solida base normativa nell'obbligo giuridico di attivarsi, poiché da qui discende il presupposto giuridico di ogni omissione.

Il Legislatore è solito porre esplicitamente alcuni obblighi di comunicazione, da cui può discendere una responsabilità penale, per la mancata comunicazione di tali circostanze, che assumendo la valenza di norme incriminatrici debbono essere elencate tassativamente.

Ora, deve osservarsi come in linea di principio, tale principio non è normato per l'insolvenza fraudolenta, per cui nessun obbligo di comunicazione è espressamente previsto.

Tuttavia, questo obbligo si può – e si deve – ricavare dai principi generali che regolano la libertà contrattuale. Da questa interpretazione discende che per garantire al soggetto di disporre del proprio patrimonio e di impegnarsi verso altri secondo le proprie determinazioni, sia fatto obbligo all'altro contraente di non tacere circostanze che potrebbero influenzare la volontà della parte.

Ne discende un obbligo di collaborazione tra le parti al momento della stipula dell'obbligazione e dell'adempimento della stessa, capace di connotare di rilevanza penale la condotta negativa del silenzio, che trae quindi fondamento normativo nelle norme civilistiche che disciplinano la materia, segnatamente gli artt. 1366, 1337, 1358, 1460 e 1375 C.c.

Se questo è il quadro normativo cui si deve far riferimento per individuare le condotte meritevoli di una sanzione, un ulteriore sforzo deve essere fatto per non incorrere nel rischio di violare i principi della Cedu, con la conseguente comminazione di pesanti sanzioni economiche per lo Stato Italiano.

Conseguentemente, una lettura dell'art. 641 c.p. che sia rispettosa del diritto sovranazionale dovrà tenere conto dei principi espressi dalla Cedu e, dunque, ritenere meritevoli di sanzione penale solo quei fatti oggettivamente gravi sia sotto il profilo della condotta, che dell'atteggiamento psicologico, dovendo, invece, restare impuniti gli inadempimenti puri e semplici.

Benché pare arduo pensare ad una depenalizzazione della norma in esame, deve auspicarsi che nella prassi applicativa, gli organi inquirenti prima, e quelli giudicanti poi, tengano ben presente i limiti imposti dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e utilizzino gli strumenti offerti dal Legislatore per arginare il rischio di punire penalmente comportamenti integranti meri illeciti amministrativi.

Un timido tentativo, verso una depenalizzazione de facto, è stato effettuato dal Legislatore nel 2015, con l'introduzione della nuova causa di non punibilità, per particolare tenuità del fatto, prevista dall'art. 131-bis c.p., che offre una soluzione per avere maggiore discrezionalità applicativa, all'interno degli stretti limiti imposti dalla normativa vigente.

L'insolvenza fraudolenta è certamente, sia per i limiti edittali, che per la tenue offensività in astratto dell'illecito, un reato che potrebbe senz'altro usufruire – ricorrendone le ulteriori condizioni previste - di tale causa di non punibilità; per cui non resta che attendere che di tale strumento normativo si inizi a fare applicazione nell'aule di giustizia.

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