La seconda puntata del “caso Dan”: la Corte europea insiste sull'effettività della rinnovazione in appello

Lucia Parlato
25 Gennaio 2021

La Corte europea è tornata a occuparsi di una vicenda giudiziaria particolarmente nota, sulla quale si era già espressa. La decisione riguarda, infatti, un giudizio di appello svoltosi per porre rimedio ai vizi riscontrati in passato dalla stessa Corte.
Abstract

La Corte europea è tornata a occuparsi di una vicenda giudiziaria particolarmente nota, sulla quale si era già espressa. La decisione riguarda, infatti, un giudizio di appello svoltosi per porre rimedio ai vizi riscontrati in passato dalla stessa Corte.

Argomentando ora in maniera più ampia, i giudici europei hanno riconosciuto anche stavolta all'unanimità una violazione dell'art. 6 par. 1 CEDU. La pronuncia è stata occasione per ribadire con fermezza la necessità di una nuova audizione dei testimoni “decisivi”, in vista del ribaltamento in secondo grado di una sentenza assolutoria.

Il commento mira a evidenziare i punti salienti della sentenza e le sue possibili ricadute, senza trascurare il percorso articolato che l'ha preceduta.

Premessa. Il “caso Dan” si ripresenta

La sentenza esaminata – della Corte europea dei diritti dell'uomo – salta all'occhio per un aspetto di tutta evidenza. La sua cifra peculiare, che non può passare inosservata, è legata al nome del ricorrente: il sig. Dan (Corte EDU, Dan c. Moldavia, 10 novembre 2020; v. M. S. Mori, A volte ritornano: Dan contro Moldavia e il cortocircuito della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, tra principi consolidati e nuove tentazioni cartolari, in www.giurisprudenzapenale.com, 2020, n. 12; A. Gaito, Ancora alla ricerca di un passaggio a Nord-Ovest… oltre il giudizio d'appello, in www.archiviopenale.it, 31 dicembre 2020; F. Giunchedi, In claris non fit interpretatio. “Dan c. Moldavia 2” impone rinnovazioni effettive, ivi; E. N. La Rocca, Quale immediatezza, ora?, ivi; A. Mangiaracina, Dan v. Moldavia 2: la rinnovazione in appello tra itinerari sperimentati e cedimenti silenziosi, ivi).

La decisione, infatti, si è espressa su una vicenda giudiziaria che non solo era stata già affrontata dai giudici europei, ma aveva avuto una risonanza sul piano domestico persino superiore ad ogni plausibile attesa, condizionando profondamente l'excursus giurisprudenziale e le scelte del legislatore del nostro Paese (Corte EDU, Dan c. Moldavia, 5 luglio 2011; A. Gaito, Verso una crisi evolutiva per il giudizio di appello. L'Europa impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m. impugna l'assoluzione, in www.archiviopenale.it, 2012, n. 2).

La Corte di Strasburgo si è ora pronunciata, più precisamente, con riguardo al giudizio di appello svoltosi in Moldavia proprio per porre rimedio ai vizi riscontrati dalla stessa Corte nove anni prima. Con argomentazioni più articolate che in passato e in presenza di alcune interessanti opinioni concorrenti, la Corte ha riconosciuto anche stavolta all'unanimità una violazione dell'

art. 6 par. 1 CEDU

.

Prima di considerare i contenuti del nuovo provvedimento sul “caso Dan” e le sue prospettabili ricadute a livello interno, occorre passare rapidamente in rassegna, da un canto, gli snodi principali del percorso processuale del quale la Corte di Strasburgo torna a occuparsi; dall'altro, i punti critici del pregresso arresto della Corte europea e le relative ripercussioni sul versante nazionale.

L'originaria vicenda giudiziaria (che torna ora alla ribalta)

Oggetto delle due pronunce della Corte di Strasburgo, intervenute a distanza di diversi anni l'una dall'altra, è un accertamento processuale che può essere opportuno rievocare.

Il Sig. Dan, preside di una scuola superiore, era stato arrestato per aver ricevuto – ad avviso dell'accusa – una tangente da parte di un soggetto, C., che mirava a ottenere l'inserimento del proprio figlio nella scuola medesima.

L'arresto era stato realizzato nel contesto di un'attività investigativa complessa, in cui anzitutto le banconote da consegnare al Sig. Dan erano state trattate con una sostanza particolare e fornite a C. In seguito l'incontro tra i due, durante il quale sarebbe avvenuta la consegna del denaro, era stato monitorato e filmato. Al termine dell'operazione sotto copertura, culminata nell'applicazione della misura restrittiva, sulle mani del preside erano state rinvenute tracce della sostanza che contrassegnava le banconote.

Nel giustificare quest'ultima circostanza, l'arrestato dava due spiegazioni alternative. Da un canto, rammentava di aver stretto la mano di C. per salutarlo. Dall'altro, ricordava di avere sottoscritto il verbale di arresto con una penna prestatagli da uno degli agenti di polizia che avevano partecipato alla preparazione del denaro: ed è così che – secondo quanto confermato da una consulenza tecnica della difesa – le mani si sarebbero contaminate con la sostanza usata per tracciare il contante.

Affetto da una disabilità visiva, essendo privo di un occhio, il Sig. Dan affermava peraltro di non aver notato che C. avesse inserito dei soldi all'interno di un suo fascicolo che era poggiato tra i due interlocutori, sulla panchina dove entrambi si erano seduti, mentre lui preparava su un foglio di carta la lista dei documenti necessari per il trasferimento dell'alunno.

Nel corso del primo grado di giudizio, l'impianto probatorio si era indebolito sotto due profili. In primo luogo, il video realizzato era risultato privo del segmento più significativo, che avrebbe dovuto riprodurre proprio il momento dell'apprensione della somma da parte del preside. In secondo luogo, gli agenti di polizia giudiziaria, esaminati, avevano reso dichiarazioni discordanti.

Le varie deposizioni corrispondevano nell'affermare che, al momento dell'arresto, Dan aveva lasciato cadere o gettato per terra il fascicolo, nel quale erano contenuti i soldi. L'aspetto cruciale sul quale i diversi racconti differivano concerneva, invece, la consegna del denaro. In base al racconto di un primo testimone, essa era avvenuta ad opera di C., nelle mani dell'accusato. Un secondo dichiarante descriveva l'inserimento delle banconote da parte di C. nel fascicolo, in seguito a un cenno dell'accusato stesso. Un terzo, invece, escludeva di essersi accorto della consegna.

In considerazione di queste divergenze e tenendo conto del difetto tecnico del video, il giudice di prime cure aveva assolto l'imputato. L'unico fondamento delle accuse, infatti, ad avviso del tribunale distrettuale di Buiucani, residuava nelle dichiarazioni di C.

Sulla scorta dell'impugnazione proposta dall'accusa, il giudice di secondo grado aveva ribaltato la decisione di prima istanza, condannando il Sig. Dan. La Corte d'appello di Chişinău, infatti, aveva ritenuto congruenti le dichiarazioni rese dai testimoni dinanzi al tribunale, esaminandone i relativi verbali.

Successivamente, nel proporre ricorso alla Corte Suprema moldava, il preside aveva evidenziato le contraddizioni che caratterizzavano le deposizioni testimoniali. Ѐ dinanzi alla dichiarazione d'inammissibilità della doglianza che il Sig. Dan si è rivolto (per la prima volta) alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

La prima pronuncia della Corte europea sul “caso Dan” e il potente propagarsi dei suoi effetti su più livelli

La pronuncia della Corte di Strasburgo che, nel 2011, ha reso noto il “caso Dan” ha riconosciuto all'unanimità la violazione dell'art. 6 par. 1 CEDU, condannando lo Stato moldavo.

La grande risonanza della sentenza è riuscita a conferire massima visibilità al tema, particolarmente spinoso, inerente al capovolgimento di una sentenza di assoluzione, in secondo grado, in assenza di una nuova audizione dei testimoni sentiti in primo grado.

La materia era stata invero già affrontata dalla Corte europea, in varie ipotesi: basta volgere lo sguardo indietro per cogliere importanti segnali in pronunce più risalenti (Corte EDU, Delcourt c. Belgio, 17 gennaio 1970; Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985; Monnell e Morris c. Regno Unito, 2 marzo 1987; Ekbatani c. Svezia, 26 maggio 1988; Popovici c. Moldavia, 27 gennaio 2007; Igual Coll c. Spagna, 10 marzo 2009; Marcos Barrios c. Spagna, 21 settembre 2010; A. Gaito, Vecchio e nuovo a proposito della rinnovazione in appello, in Arch. pen., 2015, p. 3 ss.).

Con la prima decisione sul “caso Dan”, la Corte si è espressa in maniera particolarmente schematica e, rigettata un'eccezione governativa inerente al previo esaurimento dei ricorsi interni, ha attribuito centralità ai profili concernenti la prova testimoniale.

In base a questa presa di posizione, in sintesi, la valutazione relativa all'attendibilità del testimone – costituendo un “compito complesso” – non può essere realizzata tramite la sola lettura delle dichiarazioni già rese. Piuttosto, nel dover sciogliere l'alternativa tra colpevolezza e innocenza dell'imputato, occorre che il giudice di appello possa ascoltare direttamente il dichiarante. Ferme restando limitate eccezioni, dovute a ragioni di impossibilità fisica o giuridica, ossia ad esempio alla morte del testimone o alla tutela del suo diritto di non autoincriminarsi (Corte EDU, Grande Camera, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, 13 dicembre 2011; Craxi c. Italia, 5 dicembre 2002).

Dando forza all'indirizzo prima emerso solo più timidamente, la Corte europea ha inteso applicare al giudizio di secondo grado i principi del “processo equo”. Ne è uscito irrobustito soprattutto il canone dell'“immediatezza” – che presidia il rapporto “diretto” tra giudice ed elaborazione probatoria, destinato da quel momento in poi ad essere maggiormente valorizzato nella sua accezione “soggettiva” propria dell'impianto convenzionale. Tutto questo al netto di una variante dovuta alla necessità, per ciascun sistema processuale interno, di una sorta di bilanciamento complessivo. In ragione della valutazione globale del procedimento penale, cui è chiamata la Corte europea, infatti, tanto più è possibile rimettere in discussione in sede di impugnazione l'accertamento realizzato in prima istanza, sia in fatto che in diritto, quanto più elevato è il livello – in termini di equità – che si esige dal giudizio di appello, dovendosi replicare in tale contesto garanzie altrimenti riservate essenzialmente al primo grado (A. Tamietti, La giurisprudenza in tema di testimoni assenti e le criticità del sistema italiano, in Quest. giust., Speciale, La Corte di Strasburgo, a cura di F. Buffa, G. Civinini, aprile 2019). Del resto, se così non fosse, si giungerebbe al paradosso per cui il secondo grado di giudizio potrebbe vanificare del tutto l'equità processuale del primo.

Il principio affermato in quell'occasione ha rappresentato un banco di prova per la struttura delle impugnazioni in numerosi ordinamenti. Pur essendo origine di notevoli ricadute sul piano nazionale, e non solo con riferimento allo Stato interessato, la pronuncia aveva mancato di indicare misure tanto individuali quanto generali a carico dello Stato convenuto, se non un risarcimento in termini economici.

La svolta originata dal secco input della Corte europea ha innescato effetti “a raggiera” proiettandosi con vigore, oltre che nei vari contesti statuali, anche sulla seguente produzione giurisprudenziale della Corte stessa.

Sul solco della sentenza del 2011, diverse decisioni hanno inteso corredare il “principio Dan” di ulteriori puntualizzazioni (Corte EDU, Manolachi c. Romania, 5 marzo 2013; Flueraş c. Romania, 9 aprile 2013; Hanu c. Romania, 4 giugno 2013; Mischie c. Romania, 16 settembre 2014; Corte EDU, Lazu c. Moldavia, 5 luglio 2016; v. S. Buzzelli, R. Casiraghi, F. Cassibba, P. Concolino, Diritto a un equo processo, in G. Ubertis, F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2016, p. 226 ss.).

In particolare, per quel che qui interessa, talvolta si è inteso sottolineare come l'onere del giudice di seconde cure, di adoperarsi per ottenere un esame diretto dei testimoni, debba prescindere da una corrispondente iniziativa probatoria ad opera delle parti (Corte EDU, Hanu c. Romania, cit.; v. però opinione parzialmente dissenziente del Giudice Lemmens in Corte EDU, Lazu c. Moldavia, cit., sulla irricevibilità di un ricorso ex art. 35 Cedu: v. M. S. Mori, A volte ritornano, cit., p. 4).

Qualche flessione del principio certo vi è stata ed è derivata, ad esempio, da una decisione – anch'essa da rammentare in questa sede – che ha mostrato di riservare al giudice dell'impugnazione la possibilità di circoscrivere la rinnovazione solo ad alcune prove dichiarative, dietro opportuna motivazione. Ma questa lieve resistenza al principio, lungi dall'indebolirne la tenuta, è riuscita soltanto a mitigarne il rigore (Corte EDU, 26 aprile 2016, Kashlev c. Estonia).

Ciò che è certo è che quella pronuncia del 2011 ha lanciato il volano per l'affermazione di un assetto “convenzionalmente orientato” della rinnovazione della prova dichiarativa in appello, incentrandosi sui valori dell'oralità e dell'immediatezza. Ai fini di un'adeguata riparazione delle relative violazioni si è andata affacciando l'espressa indicazione di una riapertura del procedimento riconosciuto iniquo, su iniziativa del ricorrente (Corte EDU, Lorefice c. Italia, 29 giugno 2017; Nitulescu c. Romania, 22 settembre 2015).

Nel contesto del nostro ordinamento, l'aspetto della riapertura del procedimento a livello interno in seguito a una condanna della Corte di Strasburgo, com'è noto, è stato oggetto di un'evoluzione articolata, che ha condotto a una pronuncia additiva della Consulta. Facendo leva sull'impugnazione straordinaria prevista dal sistema, tale pronuncia ha introdotto una “revisione europea”, pur essendo rimasto il tema tuttora bisognoso di risposte ad opera del legislatore (Corte cost., n. 113 del 2011; in tema, B. Lavarini, Il sistema dei rimedi post-iudicatum in adeguamento alle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, Torino, 2019; volendo, L. Parlato, Revisione del processo iniquo: la Corte costituzionale “getta il cuore oltre l'ostacolo”, in Dir. pen. proc., 2011, p. 839 ss.).

Gli ultimi passi del percorso interpretativo hanno coinvolto proprio l'Italia (Corte EDU, Tondo c. Italia, 22 ottobre 2020). E, se un gruppo di decisioni della Corte europea – emanate lo scorso anno – ha avuto il pregio di restituire una sintesi dell'evoluzione avviata dal “caso Dan” (Corte EDU, Chernika c. Ucraina, 12 marzo 2020; Lamatic c. Romania, 1 dicembre 2020; prima, Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda, 16 luglio 2019), non è fuor di luogo affermare che uno specchio di quella evoluzione, a livello nazionale, può essere rappresentato proprio dall'esperienza maturata dal nostro ordinamento.

In seguito alla prima pronuncia della Corte europea sul “caso Dan”, in Italia, si è andato consolidando un orientamento della Suprema Corte, la cui portata innovativa risiedeva in generale nell'affermata necessità di rinnovare le testimonianze determinanti, per poter capovolgere in appello una precedente assoluzione (Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2012, 38085; Cass. pen., sez. V, 24 febbraio 2015, n. 25475).

Questa apertura aveva spianato la via alle indicazioni poi contenute nella “sentenza Dasgupta”, subito trasformatasi in riferimento fondamentale per la valutazione sulla necessità della nuova audizione testimoniale in appello. I capisaldi in essa indicati dalle Sezioni unite sono costituiti anzitutto dai principi della CEDU, secondo l'interpretazione della Corte europea; dall'obbligo giurisdizionale di disporre in secondo grado – anche ex officio – un nuovo esame delle fonti di prova dichiarative decisive, in prospettiva del ribaltamento di un'assoluzione; e, infine, dalla configurabilità di un vizio di motivazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., tarato sul mancato rispetto della regola dell'“al di là di ogni ragionevole dubbio”, anche oltre i parametri di iniquità stabiliti dalla Corte europea (Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 2016, Dasgupta; F. Giunchedi, Ulisse approda a Itaca. Le Sezioni unite impongono la rilevabilità d'ufficio dell'omessa rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, in www.archiviopenale.it, 2016, n. 2; H. Belluta, L. Lupària, Alla ricerca del vero volto della sentenza Dasgupta, in www.dirittopenalecontemporaneo, 2017; v. ora M. S. Mori, A volte ritornano, cit., p. 5). Sullo stesso solco ermeneutico, più avanti, un'ulteriore decisione della Corte di cassazione nel suo più ampio consesso aveva provveduto a riproporre analoghe soluzioni in un ambito dotato di proprie spiccate specificità, ossia con riguardo all'impugnazione della sentenza pronunciata nel giudizio abbreviato (Cass. pen., sez. un., 19 gennaio 2017, Patalano). Ad allargare indirettamente il raggio d'azione dell'“effetto Dan” era intervenuta ancora una pronuncia delle Sezioni unite che – partendo dal presupposto per il quale l'esame dibattimentale del perito e del consulente tecnico costituisce “prova dichiarativa” – laddove tale esame risulti decisivo, aveva riconosciuto l'obbligo del giudice di appello di procedere alla rinnovazione probatoria. Non potendo – secondo quest'ultima pronuncia – detto giudice accingersi a riformare la sentenza di assoluzione, sulla base di un semplice diverso apprezzamento della deposizione resa in primo grado (Cass. pen., sez. Un., 2 aprile 2019, n. 14426, in www.giurisprudenzapenale.com, 5 aprile 2019).

Frattanto che scorreva questo rapido crescendo interpretativo, tale da ingigantire l'impatto casistico dell'istituto ex art. 603 c.p.p., intervenivano nuove significative sollecitazioni, di diversa provenienza.

Altri impulsi, infatti, sono andati confluendo anch'essi verso un incremento della portata applicativa della rinnovazione dibattimentale in appello.

La prima condanna della Corte europea rivolta all'Italia, in materia, esprimendosi sul “caso Lorefice” ha inteso fare chiarezza su un punto. Ha recisamente escluso che il giudice – nel ribaltare in secondo grado un'assoluzione – possa dirsi esonerato dal dovere di sentire direttamente le principali fonti di prova dichiarative a carico per il sol fatto di aver reso una motivazione “rafforzata” sul punto (Corte EDU, Lorefice c. Italia, cit.; v. G. Biondi, Tanto tuonò che piovve”! La prima condanna dell'Italia da parte della Corte EDU in tema di overturning sfavorevole in appello: una sentenza (quasi) annunciata, in Cass. pen., 2017, p. 4557 ss.).

A ciò si è aggiunta una presa di posizione del legislatore che, facendo proprio e assimilando il “principio Dan” anche oltre l'indispensabile, con la c.d. riforma Orlando ha inserito all'interno dell'art. 603 c.p.p. il comma 3-bis: norma che ha reso doverosa la rinnovazione in appello delle deposizioni decisive, in vista del ribaltamento in peius di una sentenza di proscioglimento (l. 23 giugno 2017, n. 103).

Al contempo, si è andata affacciando una questione speculare rispetto a quella esaminata dalla Corte europea: si è proposto l'interrogativo concernente il ribaltamento in melius di una sentenza di condanna in primo grado. Dopo alcuni arresti giurisprudenziali (Cass. pen., sez. II, 23 luglio 2014, Pipino, in Arch. pen., 2015, n. 1; volendo, L. Parlato, Ribaltamento della sentenza in appello: occorre rinnovare la prova anche per la riforma di una condanna?, in www.archiviopenale.it, 2015, n. 1), il problema è stato affrontato dalle Sezioni unite con la “sentenza Troise”, che non ha avuto però occasione di toccare il vero punto nevralgico, relativo all'audizione della persona offesa (Cass. pen., sez. un., 21 dicembre 2017, Troise; in proposito, tra i molti, H. Belluta, L. Lupària, La rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale fra legge e giurisprudenza: punti fermi…e non, in www.sistemapenale.it, 20 novembre 2019).

La reviviscenza del “caso Dan” in Moldavia

Mentre la sentenza Dan c. Moldavia del 2011 propagava i suoi riflessi sulla giurisprudenza “europea” e nei diversi contesti nazionali, il ricorrente vittorioso a Strasburgo si era attivato per la riapertura del procedimento penale a suo carico, ottenendola. L'accoglimento della richiesta di annullamento delle decisioni a lui sfavorevoli ha condotto a un nuovo esame dell'impugnazione proposta dall'accusa avverso la decisione assolutoria pronunciata in primo grado. Il giudizio di appello che ne è derivato è sfociato, tuttavia, ancora una volta in una condanna.

In tale giudizio è stata rinnovata l'audizione del Sig. Dan, nonché di alcuni dei sette originari testimoni, ossia tre agenti di polizia giudiziaria che – nel confermare quanto affermato in precedenza - hanno aggiunto dei particolari. Le dichiarazioni dei restanti testimoni sentiti nel 2006, divenute irripetibili, sono state invece semplicemente oggetto di lettura. Tra esse, rientrava la principale deposizione a carico, resa da C., frattanto deceduto. Quanto al mancato riascolto degli altri testimoni, non sono state specificate le ragioni. Mentre, un'ulteriore lacuna istruttoria è derivata dall'impossibilità di esaminare la videoregistrazione realizzata contestualmente all'operazione investigativa, andata perduta negli anni intercorsi.

Dinanzi a questa seconda condanna in appello, il Sig. Dan ha inutilmente proposto ricorso alla Corte Suprema di Giustizia per violazioni di diritto, incentrando la doglianza essenzialmente su tre circostanze: vale a dire, il ruolo di agente provocatore che sarebbe stato assunto da C., l'incompletezza della riedizione probatoria rispetto alle fonti dichiarative, nonché l'omessa visione del filmato attestante il clou della attività investigativa.

… e il suo ritorno a Strasburgo

Dopo il rigetto del ricorso alla Corte Suprema di Giustizia moldava, basato soprattutto sul difetto di obiezioni delle parti, in relazione alla carente rinnovazione istruttoria, il Sig. Dan si è nuovamente rivolto alla Corte europea. Con la sentenza in commento, del 2020, la Corte ha un'altra volta condannato la Moldavia e, nel riscontrare la violazione dell'art. 6 par. 1 CEDU, ha riconosciuto al ricorrente un equo indennizzo.

La recente decisione ha preso le mosse dal principio espresso da quella del 2011, passando in rassegna quanto affermato nel frattempo per i casi “Al-Khawaja e Tahery” e “Schatschaschwili” rispetto all'assenza di testimoni in giudizio (Corte EDU, Grande Camera, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, 15 dicembre 2011; Grande Camera, Schatschaschwili c. Germania, 15 dicembre 2015).

Al centro della pronuncia della Corte di Strasburgo si è collocata una disamina del giudizio interno, connotata da una spiccata attenzione per i dettagli della vicenda. Il vaglio sulla violazione lamentata dal ricorrente si è basato essenzialmente su un nucleo di ragioni così riassumibili. Le argomentazioni più robuste si sono raccolte attorno al ravvisato obbligo del giudice di appello, di adoperarsi attraverso misure positive per un nuovo ascolto dei testimoni assenti. Il riconoscimento di tale obbligo ha mantenuto la sua forza, nell'itinerario valutativo della Corte, nonostante la constatata mancanza di obiezioni da parte dell'accusato – nel corso del “recuperato” secondo grado di giudizio interno – rispetto alla semplice lettura delle “vecchie” dichiarazioni testimoniali ritenute decisive.

Soprattutto, ad avviso della Corte europea non risulta che i giudici nazionali si siano attivati al massimo per assicurare l'ulteriore audizione di un testimone in particolare, M., che aveva offerto in passato una deposizione determinante a carico del Sig. Dan. Né parimenti risulta la sussistenza di elementi compensativi capaci di bilanciare l'omessa audizione sia di M., assente, sia di C., frattanto deceduto.

Ad aver assunto un peso, ai fini della decisione, sono state inoltre le contraddizioni emerse nel racconto dei tre testimoni risentiti nel “nuovo” giudizio di appello, che avevano mostrato di rammentare – a distanza di sette anni – particolari precedentemente taciuti. Contraddizioni che non avevano trovato il dovuto riscontro motivazionale nella sentenza di condanna, quanto alle ragioni di una ravvisata maggiore credibilità di una tra le deposizioni.

Ancora, non è stato privo di rilievo, per la Corte di Strasburgo, il fatto che la decisione dei giudici interni si sia fondata sulla videoregistrazione a suo tempo realizzata durante l'operazione investigativa, pur essendo il filmato oramai non più disponibile e ad ogni modo – anche all'epoca del primo accertamento penale – monco nella sua parte più significativa.

Le due linee portanti della decisione “Dan bis”

Sullo sfondo della decisione muovono concetti ben scolpiti in orientamenti consolidati della Corte di Strasburgo. Nel ritornare sulla vicenda, la Corte finisce per destreggiarsi tra temi che costituiscono pietre miliari della sua produzione giurisprudenziale, dovendoli raccordare con il “principio Dan”, transitato esso stesso tra i canoni più frequentemente reclamati.

Le tematiche di importanza significativa, chiamate in causa nella nuova “sentenza Dan” – sul piano dei principi oramai fissati dalla Corte europea – sono soprattutto due.

Anzitutto assume centrale rilievo, nell'ambito della decisione, il riferimento all'“immediatezza”. Pur non essendo espressamente riconosciuto dall'art. 6 Cedu, il principio ha acquisito pieno riconoscimento nella prassi della Corte europea: partendo dal problema del mutamento nella composizione dell'organo giurisdizionale (R. Casiraghi, Art. 6 CEDU, in G. Ubertis, F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo, cit., p. 225 ss.), per proiettarsi sul campo particolarmente battuto concernente il giudizio di appello e, in particolare, il capovolgimento in senso sfavorevole di un'assoluzione in primo grado. Del resto, nel contesto delle varie accezioni che il principio di immediatezza può assumere, un punto fermo è che il contatto diretto tra giudice e prova, privo di superflue mediazioni, debba affermarsi anche in sede di controllo in secondo grado della sentenza assolutoria (A. Gaito, E.N. La Rocca, Il diritto al controllo nel merito tra immediatezza e ragionevole dubbio, in F. Giunchedi (a cura di), Rapporti tra fonti europee e dialogo tra le corti, Pisa, 2017, p. 410).

In questo senso, da ultimo confluiscono indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia. Dinanzi alla necessità di rinnovare l'escussione testimoniale dopo un cambiamento all'interno del collegio giudicante – contemplata dalla normativa nazionale – i giudici di Lussemburgo hanno mostrato una certa cedevolezza persino quanto alle istanze di tutela della “vittima vulnerabile”, che suggerirebbero di porre quest'ultima al riparo dal ripetersi di audizioni (Corte giust., 29 luglio 2019, Gambino e altro, in relazione agli artt. 16 e 18 della Direttiva 2012/29/UE). Gli stessi equilibri delicati si sono riproposti, sempre di recente, nella giurisprudenza della Corte di cassazione relativa all'art. 190-bis c.p.p., incline a mettere da parte, sia pure dietro un dovuto apprezzamento, la cautela per il “vulnerabile”, sempre di fronte alle pressanti esigenze di rinnovazione della prova dichiarativa in secondo grado (Cass. pen., sez. un., 5 ottobre 2016, Dasgupta, cit., par. 8.6; Cass. pen., sez. III, 25 giugno 2019, n. 50774).

Ancora, con riguardo all'“immediatezza”, il punto cruciale della pronuncia è, tuttavia, quello che riguarda la risultante inerzia dell'accusato dinanzi a una ripetizione solo parziale delle prove dichiarative. In questo senso, con una spinta in avanti rispetto al consueto modello applicativo del principio, la Corte tende a superare il confine dell'immediatezza intesa in senso esclusivamente “soggettivo” (H. Belluta, L. Lupària, La rinnovazione dell'istruzione dibattimentale fra legge e giurisprudenza. Punti fermi, in www.sistemapenale.it, 20 novembre 2019; A. Mangiaracina, Dan v. Moldavia 2, cit., p. 6), corrispondente al consueto approccio della Corte europea attento essenzialmente alle garanzie individuali. L'aspetto evoca dibattiti sviluppatisi in maniera più articolata quanto al principio del contraddittorio, nell'intento di distinguerne una portata “soggettiva” da una “oggettiva”, sia a partire dalla riforma del “giusto processo” che (con l. n. 63 del 2001) ha riscritto numerose norme del nostro codice di rito, sia anteriormente (Corte cost., 10 ottobre 1979, n. 125, in Giur. cost., 1979, p. 852 ss.; . E. Amodio, Garanzie oggettive per la pubblica accusa? A proposito di indagini difensive e giudizio abbreviato nel quadro costituzionale, in Cass. pen., 2010, p. 20 ss.; V. Grevi, Ancora su contraddittorio e investigazioni difensive nel giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2010, p. 1287 ss.).

Inoltre, al tema dell'immediatezza si accompagna quello relativo alla prova “unica” o “determinante”, che è oggetto di una fitta elaborazione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, soprattutto quanto al recupero dibattimentale di dichiarazioni rese in fasi anteriori del procedimento, senza un pieno rispetto del principio del contraddittorio. Non volendosi qui approfondire il complesso excursus interpretativo sviluppatosi attorno a questo nodo tematico, basti evocarne l'esito forse più fruibile come riferimento da parte dei giudici nazionali, racchiuso in una nota sentenza (Corte EDU, Grande Camera, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, cit.). L'impianto di quest'ultima consente, infatti, di ricavare tre criteri essenziali, al cui ricorrere (anche singolarmente) la deposizione già resa da parte di un testimone, risultato poi assente in sede dibattimentale, può essere considerata, appunto, “unica” o “determinante” (rappresentando, come è chiaro, la seconda tra le due qualità la più disagevole da riconoscere). Sono criteri che si articolano rispettivamente attorno alla sussistenza di “buone ragioni” per la mancata audizione del testimone stesso e per l'utilizzo delle sue precedenti dichiarazioni; all'unicità o decisività di tali dichiarazioni ai fini della condanna; alla presenza di elementi di bilanciamento in grado da garantire comunque, nel complesso, l'equità processuale.

… e le loro ricadute nell'ottica dell'acclarata iniquità processuale

I due temi imponenti ora richiamati si ripropongono, in seno alla pronuncia del 2020 sul “caso Dan”, determinando a loro volta ricadute di rilievo rispetto alla specifica valutazione di equità processuale, soprattutto sul piano riguardante l'obbligo motivazionale.

Le carenze argomentative della condanna ad opera dei giudici moldavi, a detta della Corte, involgono vari profili. Interessano le problematiche relative alla videoregistrazione, cui si è già fatto cenno, ma soprattutto sia i testimoni non risentiti, sia quelli riascoltati.

Da un lato, quanto alla parziale rinnovazione dell'istruzione probatoria, la parte motiva della sentenza avrebbe dovuto soffermarsi maggiormente sulle versioni rivisitate offerte dai componenti delle forze dell'ordine che sono stati risentiti. Nel loro contributo probatorio – da valutare di per sé con prudenza per il peculiare ruolo dei dichiaranti – sono comparsi elementi nuovi, introdotti soltanto nell'audizione più recente e a distanza di parecchio tempo. Tali elementi si sono aggiunti ai contenuti del racconto originario, oggetto di una generica conferma, senza che l'ambiguità della sovrapposizione sia stata specificamente apprezzata e risolta nel motivare il provvedimento. Dall'altro lato, quanto all'assenza di alcuni testimoni “decisivi”, la Corte europea ha posto l'accento sulla mancata indicazione di “buone ragioni” che giustificassero il deficit probatorio. Il problema è emerso in particolar modo per il testimone M., artefice delle dichiarazioni chiamate a corroborare l'antica deposizione del principale testimone a carico, C., divenuta irripetibile a causa del decesso di quest'ultimo (A. Mangiaracina, Dan v. Moldavia 2, cit., p. 11).

Quello inerente alla motivazione è, peraltro, un profilo che spicca nel contesto delle opinioni concorrenti relative alla pronuncia in esame. Ѐ importante non far passare inosservato un assunto, espresso dai giudici Ròosma e Jelié, posto che le opinioni separate – concorrenti e dissenzienti che siano – contribuiscono allo sviluppo della giurisprudenza europea (P. Pinto de Albuquerque, D. Cardamone, Efficacia della dissenting opinion, in La Corte di Strasburgo, cit.), rappresentando una potenziale origine di nuovi orientamenti, o quantomeno di nuovi filoni di dibattito. Nell'ottica di una valorizzazione della motivazione (soprattutto sui punti più critici dell'accertamento giudiziario), quelle opinioni sono giunte quasi a suggerire che quest'ultima, qualora sia “rafforzata”, possa più in generale arrivare a fungere da “antidoto” rispetto a ipotesi altrimenti destinate a ricadere nella sfera dell'iniquità. Non è mancato, al riguardo, chi ha già intravisto, in maniera lungimirante, la possibilità che queste osservazioni presagiscano battute di arresto, in un'evoluzione giurisprudenziale sin qui sempre più costante nel richiedere la rinnovazione istruttoria ai fini di un overturning sfavorevole in appello (A. Mangiaracina, Dan v. Moldavia 2, cit., p. 13).

Più specificamente, un altro aspetto critico riguarda il mancato impiego, da parte dei giudici, di ogni sforzo per ottenere il riascolto dei testimoni, dopo un numero cospicuo di anni. Sforzo che, in altre occasioni la Corte ha richiesto fosse corrispondente allo svolgimento di ricerche attive tramite tutti gli strumenti disponibili, anche di assistenza giudiziaria internazionale (A. Tamietti, La giurisprudenza in tema di testimoni assenti, cit., p. 12).

Mentre un ultimo passaggio da sottolineare concerne l'assenza di elementi compensativi, in grado di riequilibrare l'intera vicenda giudiziaria in termini di “equità processuale”. Elementi che, per essere funzionali a una siffatta compensazione avrebbero dovuto essere qualificati da una proporzione diretta con il valore della prova “viziata” (Corte EDU, Chernika c. Ucraina, cit.). La loro esistenza non è stata vagliata in sede motivazionale nel processo “Dan bis”. Ed essa sembra ad ogni modo da escludere, non potendosi ricavare semplicemente dalla circostanza dell'avvenuto svolgimento di un'audizione dei testimoni, a suo tempo, in primo grado (A. Mangiaracina, Dan v. Moldavia 2, cit., p. 11 s.).

Cosa ci lascia il secondo “caso Dan” in tempi “ordinari” e “di emergenza”

Dinanzi al riproporsi del “caso Dan” e del suo epilogo con la seconda condanna dello Stato convenuto, occorre ponderarne il significato e i riflessi su più livelli.

A fronte di un'innegabile ridondanza della decisione, è lecito osservare che non sarà l'originalità dell'esito raggiunto a far “passare alla storia” la sentenza “Dan 2”, dopo che lo ha già fatto esemplarmente la “Dan 1”. La decisione, infatti, trae abbondante linfa da un oramai ricco bacino di pronunce sul tema, tra cui spicca per il suo impatto proprio quella che porta il nome dello stesso ricorrente.

Il corredo giurisprudenziale in tema di ribaltamento in appello di una sentenza assolutoria è già sufficientemente consolidato ed è, semmai, il caso simmetrico di ribaltamento in melius a riservare questioni tuttora da esplorare: vie ancora inedite potrebbero schiudersi non tanto in base all'art. 6 Cedu, quanto invece sulla scorta degli obblighi procedurali insistentemente ravvisati dalla Corte europea in relazione alla tutela dei diritti fondamentali di cui agli artt. 2 e 3 Cedu (in argomento, A. Marandola, Reati violenti e Corte europea dei diritti dell'uomo: sancito il diritto alla vita e il “diritto alle indagini”, in www.sistemapenale.it, 22 settembre 2020).

Non sono particolarmente significative, in definitiva, le novità che la pronuncia porta con sé, se non sul piano sistematico. La Corte europea ha confermato di promuovere la strada della riapertura del processo interno giudicato iniquo, ma soprattutto ha palesato di non accontentarsi di misure “apparenti” e di facciata. Al contrario, in conseguenza di una violazione convenzionale acclarata, richiede risposte “effettive”.

Rispetto alla prima “sentenza Dan”, con la seconda sembra allora che i giudici europei abbiano inteso mostrare maggiore fermezza. La linea di azione – come indicato esplicitamente nella pronuncia del 2020 – è quella che corre lungo le logiche dei diritti “pratici ed effettivi” garantiti dalla Cedu (Corte EDU, Dan c. Moldavia, 10 novembre 2020, par. 47; cfr., Corte EDU, Airey c. Irlanda, 9 ottobre 1979, par. 24). Per il suo tenore la decisione, oltre a rappresentare l'esito di un autonomo “caso” – quale formalmente è – può svelare una singolare vocazione strumentale, costituendo in realtà il risvolto conclusivo del “caso” precedente. Come una sorta di “ultima puntata”, sulla falsariga dell'art. 46 Cedu tende a dare forza a quanto deciso nel 2011, nella consapevolezza che l'esecuzione della sentenza della Corte può spesso rappresentare il punto debole del percorso avviato con il ricorso.

L'attenzione della Corte europea per il dettaglio, rispetto all'elaborazione della prova orale, costituisce certo un monito per i giudici interni. Offrendo ora riferimenti più precisi e concreti svolge una “politica preventiva” rispetto al possibile proliferare di “fratelli minori”, già potenzialmente numerosi.

Ѐ risoluta, infatti, la Corte nel ribadire il “principio Dan”, nonostante – al momento del “secondo secondo grado” – fosse trascorso molto tempo non solo dal fatto, ma anche dal giudizio di prime cure. La Corte di Strasburgo si è mostrata “esigente”, reputando non bastevole né un impegno al di sotto di “tutti gli sforzi ragionevoli”, al fine di ottenere una “nuova” presenza del testimone; né un “nuovo” esame in cui al testimone si chieda solo di confermare o meno le sue dichiarazioni precedenti. Il giudice europeo ha colto l'occasione per manifestare il suo rigore su questi aspetti, con una duplice consapevolezza: della circostanza che l'ulteriore audizione di un dichiarante, a distanza di tanti anni dal fatto, non può che promettere risultati deludenti; ma anche del fatto che la modestia di tali risultati non può aprioristicamente tradursi in esiti sfavorevoli per l'accusato (M. S. Mori, A volte ritornano, cit., p. 8).

Volgendo lo sguardo verso il contesto italiano, non deve sfuggire come la pronuncia risulti quasi coeva rispetto a un'altra che ha riguardato proprio il nostro Paese, ossia la sentenza “Tondo”, sempre del 2020 (Corte EDU, Tondo c. Italia, cit.), che ha riscontrato la stessa violazione dell'art. 6 par. 1 CEDU ravvisata per il “caso Dan 2”. Anche stavolta, il ragionamento è passato per il fronte tematico della “prova decisiva” e per la verifica di misure compensative in grado di riportare l'asticella del procedimento, nel suo complesso, entro i ranghi dell'equità.

Considerato che il “caso Tondo” si riferiva a un processo celebrato in un'epoca antecedente alla riforma dell'art. 603 c.p.p., cui si è già accennato, v'è da chiedersi che ne sarà adesso di altri processi parimenti svoltisi nella medesima area temporale, affetti quindi dalle stesse “pecche”. Il quesito non è nuovo per il nostro ordinamento, essendosi proposto quantomeno in via ipotetica sin dal “caso Dorigo”, noto per aver originato la già richiamata pronuncia della Consulta del 2011 che ha reso praticabile la “revisione europea”. Quel caso riguardava, infatti, una vicenda processuale svoltasi antecedentemente alla riforma c.d. del giusto processo, del 2001 e, pertanto, era capace di creare “speranze” per altre condanne coeve, dovute agli stessi vizi “strutturali”. La problematica, tuttavia, ha preso consistenza solo in seguito, per riguardare più concretamente le sorti di “fratelli minori”, destinatari di lesioni corrispondenti a quelle subite da ricorrenti vittoriosi davanti alla Corte di Strasburgo: in particolare, a partire dalle risposte positive derivanti dal “caso Scoppola”, tramite peculiari percorsi (Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, Ercolano; Corte cost., 3 luglio 2013, n. 210; v. E. Lamarque, F. Viganò, Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola, in www.penalecontemporaneo.it., 31 marzo 2014), per arrivare sino alle proiezioni sfavorevoli del citato “caso Lorefice” e agli esiti sinora parimenti sconfortanti per i “fratelli minori di Contrada” (Cass. pen., sez. I, 23 ottobre 2018, n. 56163; Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2019, Genco). Si tratta però di una materia assai ampia, alla quale in questa sede si è potuto riservare solo un cenno approssimativo, indistintamente riferito ad aspetti di carattere sia processuale che sostanziale.

Prima di continuare a considerare la prospettiva italiana, può essere utile spostare di nuovo l'attenzione verso il quadrante sovranazionale. Ѐ significativo rimarcare ancora come la Corte europea abbia sollevato l'accusato dal farsi “parte diligente” e proporre eccezioni sul mancato riascolto dei testimoni. La circostanza, emersa in altri termini in precedenti pronunce, riguarda qui non in generale la richiesta di rinnovazione istruttoria in appello, ma puntuali obiezioni. Il tema può coinvolgere, in una certa misura, il canone del previo esperimento delle vie di ricorso interne, il quale – nel condizionare la ricevibilità del ricorso alla Corte di Strasburgo – com'è noto non si riferisce esclusivamente a iniziative dell'accusato qualificabili come impugnazioni (Corte EDU, Sottani c. Italia, 24 febbraio 2005, su iniziative della persona offesa; prima, Corte EDU, Grande Camera, Cardot c. Francia, 19 marzo 1991, par. 34). In questo senso, si potrebbe riconoscere alla decisione l'effetto di attenuare qualche asperità di quel canone, espressione del principio di “sussidiarietà”, nel concedere alla logica convenzionale incursioni maggiori in una dimensione “oggettiva” e non solo “soggettiva” delle garanzie processuali.

Riprendendo ad adottare un'ottica interna, l'assunto della Corte europea che esonera l'accusato da iniziative processuali può rivelare una valenza calzante anche rispetto a un acceso dibattito in corso. Il monito ribadito dalla Corte può rivestire oggi, a fortiori, un senso simbolico ancor più che innovativo, risuonando con note di singolare attualità. Ѐ peculiare il momento storico nel quale giungiamo a leggere la pronuncia sul “caso Dan bis”. Essa ci trova, infatti, intenti a fare i conti con la necessità di “tagli”, ad opera del legislatore, sul pieno rispetto dei principi di oralità e di immediatezza, specialmente in appello. Scelte giocoforza dettate non tanto dalle consuete esigenze di economia processuale, quanto, invece, dalla corrente situazione di emergenza sanitaria.

Le ultime battute di un sofferto itinerario di riforma, imposto dalle urgenze della pandemia, coincidono con la l. 24 dicembre 2020, n. 176, di conversione dei decreti c.d. “ristori” e “ristori bis” (d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, e d.l. 9 novembre 2020, n. 149; A. Mangiaracina, Impugnazioni e pandemia: l'esilio dell'oralità e la “smaterializzazione” della camera di consiglio, di prossima pubblicazione in Dir. pen. proc, 2021, n. 2). Nel succedersi di fonti, si è finita per affermare – attraverso l'art. 23 bis della legge citata – una soluzione tale da lasciare alle parti la possibilità di chiedere la celebrazione del giudizio di appello, innestando in questo caso una deviazione rispetto alla regola, che è ora quella della trattazione cartolare dell'impugnazione. Il sistema così introdotto conosce un'ulteriore eccezione, risultante dall'inciso “fuori dai casi di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale”, che fa salva la suddetta celebrazione del giudizio di appello anche nelle ipotesi in cui si applichi l'art. 603 c.p.p.

Le prime impressioni dinanzi all'incrociarsi della riforma del 2020 con la sentenza “Dan bis” e, in generale, con la giurisprudenza della Corte europea in materia, non possono essere nitide. In controtendenza con quanto emerge dalla pronuncia in esame, il rispetto delle garanzie processuali viene in larga parte affidato a un contegno “attivo” dell'accusato, chiamato ad adoperarsi se lo ritiene. La sua inerzia, qui, rischia di coprire ogni possibile deficit dell'equità processuale, in caso di overturning sfavorevole della sentenza di primo grado, laddove non vi siano corrispondenti (e doverosi) poteri d'ufficio. Vero è che resta fermo, grazie all'inciso richiamato, uno scorcio ulteriore di oralità e immediatezza, ma ci si deve domandare nel complesso se in questo assetto, sia pure temporaneo, rimanga effettivamente prospettabile l'emersione di una violazione dell'art. 6 CEDU, nel secondo grado di giudizio.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario