La qualificazione delle attribuzioni patrimoniali effettuate dai soci, tra versamenti in conto capitale e prestiti

Marco Pellegrino
03 Febbraio 2021

L'erogazione di somme che i soci effettuano alla società partecipata può avvenire a titolo di mutuo, con conseguente obbligo restitutorio in capo alla medesima, oppure di versamento in conto capitale, senza originare un credito esigibile se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'attivo del bilancio di liquidazione.
Massima

L'erogazione di somme che i soci effettuano alla società partecipata può avvenire a titolo di mutuo, con conseguente obbligo restitutorio in capo alla medesima, oppure di versamento in conto capitale, senza originare un credito esigibile se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'attivo del bilancio di liquidazione. La qualificazione dell'apporto dipende dall'esame della volontà negoziale delle parti, dovendosi trarre la prova, cui è onerato l'attore in restituzione, non tanto dalla denominazione adoperata nelle scritture contabili quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui è diretto e dagli interessi che vi sono sottesi.

Il caso

La società e la socia accomandataria opponevano il decreto ingiuntivo ottenuto da altro socio ed avente ad oggetto la condanna della s.a.s. alla restituzione di un finanziamento. La società e la socia accomandataria deducevano che i versamenti effettuati non fossero riconducibili ad un mutuo, con correlato diritto al rimborso, ma che configurassero conferimenti atipici in conto capitale, e come tali non soggetti a rimborso sino all'esito della liquidazione. A fondamento di tale prospettazione gli opponenti allegavano che la società avesse una ristretta base famigliare, siccome composta da marito e moglie, che fosse stata costituita per una specifica operazione immobiliare e che fosse priva di un capitale nominale sufficiente per conseguire lo scopo programmato. Donde, ad avviso della società, si doveva trarre la conclusione che il socio, effettuando i versamenti in rapida successione, intendesse asservirli definitivamente all'attività d'impresa.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

L'indagine sulla struttura finanziaria delle società di capitali ci restituisce un quadro variegato delle possibili forme di apporto da parte dei soci. Tra i due poli tradizionalmente rappresentati, da un lato, dai conferimenti di capitale di rischio, e pertanto irripetibili in quanto assoggettati al vincolo del capitale sociale, e dall'altro dai finanziamenti soci, riconducibili nell'alveo dei contratti di credito ed implicanti l'insorgenza di un vero e proprio credito restitutorio, si collocano soluzioni finanziarie elaborate dalla prassi societaria. Tra queste ultime si annoverano forme di patrimonializzazione “alternative” rispetto al meccanismo tipico del conferimento, e che hanno trovato diffusione specialmente nelle società a ristretta base personale.

Si tratta di versamenti “spontanei” (e cioè sottratti all'obbligo di esecuzione del conferimento in forza delle previsioni dell'atto costitutivo, o di una formale delibera di aumento del capitale a pagamento) ed “aggiuntivi” (rispetto ai conferimenti effettuati) e che presentano delle similitudini con il sopraprezzo. Infatti, il socio può versare un sopraprezzo al momento della sottoscrizione delle azioni oppure trasferire un'entità economica in un momento successivo, ma in entrambi in casi pone irreversibilmente a disposizione della società, incrementandone la dotazione patrimoniale, i mezzi occorrenti per il raggiungimento dello scopo comune.

Tali trasferimenti vengono imputati al patrimonio della società, senza tuttavia essere assoggettati alla disciplina vincolistica del capitale sociale. Si suole definirli “versamenti in conto capitale” (V. De Stasio, Art. 2342 – Conferimenti, in Le società per azioni, P. Abbadessa – G.B. Portale, Milano, 2016, 351) o “conferimenti atipici” (Miola, Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo, Portale, Torino, 2004, 208) oppure ancora “conferimenti di patrimonio” (P. Abbadessa, Il problema dei prestiti soci nelle società di capitali. Una proposta di soluzione, in Giur. comm. 1988, 505), espressione quest'ultima che ha il pregio di mettere in evidenza i tratti salienti della fattispecie, e cioè la destinazione irreversibile dell'erogazione al patrimonio di rischio dell'impresa e la sua collocazione in una specifica voce del netto, con conseguente sottomissione al relativo regime (segnatamente in una riserva assimilabile a quella da sopraprezzo secondo Cass. 24 luglio 2007, n. 16393, in Giur. Comm., 2009, II, 42; sul carattere “targato” e “personalizzato” della posta e sulle relative conseguenze si veda G.B Portale, Appunti in tema di versamenti in conto futuri aumenti di capitale eseguiti da un socio, in Vita not., 1994, 587 e M.S. Spolidoro, Riserve targate, in Società, banche crisi d'impresa, II, Milano, 2014, 1323; per una critica alla formazione di una riserva “targata” si veda Consiglio Nazionale del Notariato, Studio di Impresa n. 99-2011/I, Le modificazioni del capitale nominale senza modificazione del patrimonio netto, in CNN Notizie del 22.06.2011).

Si tratta pertanto di mezzi propri della società che ne accrescono in modo definitivo il patrimonio, e che possono essere utilizzati per l'aumento gratuito del capitale sociale, per il ripianamento delle perdite o per l'acquisto di azioni proprie.

Del resto, non si subita della liceità (anche fiscale: cfr. art. 43 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) di tale prassi, del tutto rispondente ad interessi meritevoli di tutela, essendo di immediata evidenza l'utilità non solo per la società, specialmente ove le siano preclusi il ricorso al mercato dei capitali e la sollecitazione al pubblico risparmio, ma anche per l'intero sistema economico avvantaggiarsi di strumenti di finanziamento volti a permettere un più articolato afflusso di risorse.

Sulla scorta delle elaborazioni svolte dalla dottrina e della giurisprudenza si possono tracciare alcune coordinate fondamentali (sulla disciplina Rubino De Ritis, Gli apporti spontanei in società di capitali, Torino, 2001; Ferro Luzzi, I versamenti in conto capitale, in Giur. Comm, 1981, 895; si segnala per la sintesi anche Cass., 29 luglio 2015, n. 16049, in Notariato, 2016, 1, 51).

Viene anzitutto posto in rilievo il fondamento causale dell'apporto, che trova origine nel rapporto sociale (“causa societatis”) e risponde all'esigenza del soddisfacimento di interessi tipicamente connessi al conseguimento dello scopo comune.

E' generalmente accettata la tassonomia fondata sulla causa in concreto degli apporti (Ferrucci – Ferrentino, L'aumento del capitale sociale e i versamenti dei soci, in Società di capitali, società cooperative e mutue assicuratrici, I, Milano, 2012, 1107) e in questa luce si è soliti distinguere tra “versamenti a fondo perduto” oppure “in conto capitale” (eseguiti per accrescere il patrimonio netto della società) versamenti “a copertura di perdite” (destinati a coprire le perdite d'esercizio) versamenti “in conto futuro aumento di capitale” (effettuati dopo la delibera di aumento del capitale ma prima dell'iscrizione su R.I.) o “in conto aumento di capitale” (eseguiti in vista di un programmato aumento di capitale non ancora deliberato).

Si tratta di trasferimenti che non vengono imputati al capitale (salvo che con apposita successiva delibera assembleare ne venga disposto l'utilizzo per un aumento gratuito del capitale sociale; i versamenti in conto aumento di capitale e in conto futuro aumento di capitale, invece, vengono imputati a capitale al perfezionamento dell'operazione di aumento cui sono associati) e vanno ad accrescere il netto senza aumentare la cifra del capitale nominale (c.d. apporti “fuori capitale”). Possono essere effettuati anche solo da alcuni soci e possono non essere proporzionali alla quota di partecipazione del socio erogante, né ovviamente attribuiscono al medesimo una più elevata partecipazione agli utili (V. De Stasio, Art. 2342 – Conferimenti, cit. 351)

L'erogazione “non da luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residual claimant” (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24861, in Rep. Foro it., 2015, voce Società, n. 410; si veda anche Cass. 13 luglio 2012, n. 12002; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2758 in Giur. comm., 2012, 1213). Secondo una tesi meno restrittiva la riserva formata con detti apporti può essere distribuita nel corso della vita della società in caso di saturazione della riserva legale e con delibera dell'assemblea ordinaria (Cass. 24 luglio 2007, n. 16393, cit.). Solo i versamenti in vista di un aumento di capitale (deliberato o meno) danno diritto alla restituzione se la specifica operazione cui sono correlati non giunge a perfezionamento (Cass. 3 dicembre 2018, n. 31186, in Le Società, 2019, 263; Cass. 27 ottobre 2017, n. 25643, in Le Società, 2017, 1429; Cass., 29 luglio 2015, n. 16049, cit; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314, in Le Società, 1996, 1267).

Ai fini della corretta qualificazione giuridica, la dottrina e la giurisprudenza sono perfettamente allineate nel valorizzare la volontà negoziale, dovendosi trarre un indice inequivocabile “non tanto nella denominazione dell'erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere stato diretto e dagli interessi che vi sono sottesi” (Cass. 8 giugno 2018, n. 15035, in Giust. civ. Massimario 2018; Cass. 23 marzo 2017, n. 7471, in Giust. civ. Massimario 2017; Cass. 29 luglio 2015, n. 16049, cit; Cass. 3 dicembre 2014, n. 25585, in Rep. Foro it., 2014, voce Società, n. 561; Cass. 13 luglio 2012, n. 12003; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2758 cit.; Cass, 30 marzo 2007, n. 7980 in Riv. Not., 2008, 176; Cass, 31 marzo 2006, n. 7692 in Giur. it., 2006, 2080; Trib. Reggio Emilia 23 ottobre 2008, in Banca borsa tit. cred., 2001, 714; App. Milano 31 gennaio 2003, in Giur. it., 2003, 1178; Trib. Milano 17 febbraio 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Verona 15 maggio 1998, in Le Società, 1998, 1195).

Osservazioni

La sentenza in esame si colloca nel solco tracciato dalla prevalente giurisprudenza e ribadisce il principio in esito al quale è onere dell'attore in restituzione provare il titolo della domanda e, nella fattispecie, la riconducibilità del versamento alla fattispecie del mutuo (Cass. 3 dicembre 2014, n. 25585, cit; Cass. 23 marzo 2017, n. 7471, cit.; Cass. 19 marzo 1996, n. 2314 cit.; Trib. Roma 21 maggio 2003 Giur. comm. 2003).

La Corte, inoltre, ha ribadito il proprio consolidato orientamento secondo il quale, al fine di procedere alla corretta qualificazione del trasferimento, e pertanto al fine di ricondurlo all'una piuttosto che all'altra tra le categorie tipiche o atipiche, occorre indagare l'effettiva volontà delle parti e ricostruirla secondo i consueti canoni dell'ermeneutica contrattuale, valorizzando il loro comportamento complessivo.

Infatti, si è più volte affermato che “al fine di stabilire se i versamenti di somme di denaro eseguiti dal socio alla società possano ritenersi effettuati per un titolo che ne giustifichi la restituzione al di fuori dell'ipotesi di liquidazione, occorre accertare, secondo le regole interpretative della volontà negoziale dettate dalla legge, quale sia stata la reale intenzione delle parti tra le quali il rapporto si è instaurato, verificando se tra di esse sia intercorso un rapporto di finanziamento inquadrabile nello schema del mutuo (o in altro titolo idoneo a giustificare la pretesa restitutoria), oppure se i versamenti stessi costituiscono apporti finanziari che si aggiungono a quelli rappresentati dai conferimenti imputabili alla originaria costituzione della società o al successivo aumento di capitale, traducendosi quindi in incrementi del patrimonio netto della società, come tali non costituenti oggetto di un diritto alla restituzione” (Cass. 21 maggio 2002, n. 7427; Cass. 19 luglio 2000, n. 9471).

In tale indagine, sempre secondo il tradizionale insegnamento di legittimità cui la sentenza in esame presta ossequio, non è decisiva l'allocazione nel bilancio del relativo importo (Cass. 3 dicembre 2014 n. 25585 cit.; Cass. 12 luglio 2012, n. 12003 cit.; Cass. 23 febbraio 2012 n. 2758 cit.; Cass. 30 marzo 2007 n. 8980 cit.; Cass. 31 marzo 2006, n. 7692 cit.). Infatti, il bilancio e le altre scritture contabili sono meri strumenti di rappresentazione del fatto di gestione, onde nessun valore possono avere le relative appostazioni sulla natura, efficacia o effetti delle obbligazioni sottese alle poste ivi inserite. Per altro verso è incongruo che la volontà di chi esegue il versamento possa desumersi da un atto della società che lo riceve, quale l'iscrizione in bilancio, tanto è vero che il comportamento cui l'art. 1362 comma 2 c.c. attribuisce rilievo è solo quello cui siano partecipi entrambi i contraenti.

Secondo altre pronunce, in assenza di una chiara manifestazione di volontà, può essere utile la terminologia adottata nel bilancio, poiché questo è soggetto all'approvazione dei soci e le qualificazioni che i versamenti hanno ricevuto possono costituire se non l'unico almeno un valido indice (Cass. 23 marzo 2017, n. 7471, cit; Cass. 13 agosto 2008, n. 21563 in Foro it., 2009, I, 1829; Cass. 30 marzo 2007, n. 7980, cit.; App. Roma 17 agosto 2005, in Riv. Not., 2007, 422).

Conclusioni

Si può dire che assurga a diritto vivente l'affermazione in esito alla quale la corretta qualificazione degli apporti dei soci ponga un tema di interpretazione della volontà delle parti (l'apportante da un lato e la società beneficiaria dall'altro) e che nella relativa indagine si debba prescindere dalle espressioni utilizzate dai contraenti.

Nel caso deciso il Giudice di legittimità, in assenza di documentazione contrattuale e di elemnti dichiarativi resi in occasione dell'erogazione, ha valorizzato gli elementi a sua disposizione, quali la ristretta base famigliare della compagine sociale, la rapida successione dei versamenti, l'inadeguatezza dei mezzi propri rispetto all'operazione programmata (incentrata sull'acquisto di un bene immobile) nonchè l'impossibilità da parte della società di restituire la somma al socio “se non rivendendo il cespite immobiliare, ma rinnegando con questo il proprio unico scopo”. La Corte ha dato altresì rilievo al comportamento precedente e successivo delle parti, concretizzatosi nella destinazione del bene acquistato all'esercizio della professione svolta dal socio apportante.

La Corte infine ha ritenuto non decisive le risultanze delle scritture contabili, cospiranti nella direzione opposta a quella accolta dal giudice distrettuale e confermata dalla Cassazione stessa, avendo riguardo alle ragioni di carattere fiscale sottese all'operazione e ponendo in rilievo i benefici (anche fiscali) che sono discesi per entrambe le parti dalla contabilizzazione delle somme in conto finanziamento soci.

La sentenza in commento ben può iscriversi nell'orientamento, mai sopito nonostante alcuni interventi normativi dell'ultimo decennio, volto a contrastare il fenomeno diffuso della sottocapitalizzazione nominale delle società commerciali, e di correggere l'inclinazione dei soci di reclamare, all'occorrenza come avvenuto nel caso di specie, il credito restitutorio.

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