La tutela di cui all'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015: tra rigidità del criterio dimensionale e dubbi di costituzionalità della norma
16 Aprile 2021
Massima
Il criterio di cui all'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 di determinazione dell'indennità risarcitoria non soddisfa il canone di adeguatezza di cui ai principi costituzionali (art. 3, comma 1, 4, 35 comma 1, e 117, comma 1, Cost.) e sovranazionali (art. 24 della Carta sociale europea), posto che il licenziamento irrogato da un datore privo dei requisiti di cui all'art. 18, commi 8 e 9, Legge n. 300/1970, integra un illecito che deve dar luogo ad un'indennità “adeguata e personalizzata”, ancorché forfettizzata, sulla base di quanto già stabilito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018.
Appare quindi non manifestamente infondata, in rapporto agli articoli 3, comma 1, 4, 35 comma 1, e 44, comma 1, della Costituzione nonché dell'art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui prevede che “ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, [...] l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, [...] è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Il caso
La vicenda oggetto d'analisi concerne un giudizio azionato da una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo dalla scuola privata presso cui aveva prestato servizio dal settembre 2016 al luglio 2018, con inquadramento al V livello CCNL Scuole Private ANINSEI e mansioni di maestra di inglese, inizialmente presso la scuola d'infanzia, poi presso la scuola primaria, gestite dalla società resistente.
Nel dettaglio, la ricorrente assumeva di aver tempestivamente impugnato il licenziamento, che veniva poi revocato dalla convenuta, con contestuale invito alla ripresa dell'attività in precedenza dalla ricorrente espletata.
Assunta la tardività della revoca e, quindi, l'inefficacia della medesima ai sensi del disposto di cui all'art 5, d.lgs. n. 23/2015, la ricorrente insisteva nell'impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato, oltre che nelle rivendicazioni all'uopo formulate.
Sul punto la ricorrente riteneva infatti che il licenziamento fosse privo di reale motivazione, in quanto concernente una non meglio specificata “riorganizzazione aziendale”, priva di ogni verifica di ricollocazione della ricorrente nell'ambito dell'organizzazione aziendale, che non vi fosse stata alcuna soppressione del posto di lavoro cui la medesima era adibita, che la società non avesse subito alcun ridimensionamento aziendale, evidente anche dalla disamina della visura camerale prodotta, che, anzi, le classi ove lavorava la ricorrente fossero aumentate nel tempo e in ciascuna classe fosse stata impiegata un'insegnante di inglese ed infine che la resistente, prima di procedere al recesso, non avesse operato alcun raffronto delle posizioni lavorative fungibili con quella della ricorrente sulla base dei criteri posti dall'art. 5, l. n. 223/1991.
A fronte di ciò, la ricorrente chiedeva di accertarsi l'insussistenza del giustificato motivo oggettivo e/o la violazione del requisito motivazionale e di dichiarare risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, con condanna della resistente al pagamento in suo favore dell'indennità di cui all'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, chiedendo peraltro al Giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale della predetta norma poiché lesiva delle previsioni di cui agli artt. 3, comma 1, 4, 35 comma 1, 117 comma 1 Cost., in relazione all'art. 24 della Carta Sociale Europea.
Il Giudice adito, ritenendola ammissibile, rilevante e non manifestamente infondata, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, con riguardo alle parole “ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della L. 300/1970 …l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1 […] è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”,posta l'evidente disparità di trattamento concernente i profili di tutela invocabili a fronte di un licenziamento economico illegittimo, rispettivamente nelle imprese con più e con meno di 15 dipendenti. La questione
Il caso in esame è particolarmente interessante, in quanto consente di affrontare la delicatissima questione della legittimità costituzionale dell'art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui dispone il criterio di determinazione dell'indennità risarcitoria che, di fatto, non risulta idoneo a soddisfare il test di adeguatezza di cui ai principi costituzionali (artt. 3, comma 1, 4, 35 comma 1, 117 comma 1 Cost.) e sovranazionali (art. 24 della Carta Sociale Europea).
Innanzitutto, giova premettere l'evidente rilevanza della questione, non solo ai fini della decisione del giudizio in cui è stata sollevata, ma per ragioni di chiarezza normativa, data l'essenziale importanza della norma sottoposta all'esame della Corte costituzionale, oltre che della frequenza con cui la stessa viene adoperata in sede di giudizio, nel vaglio della legittimità dei licenziamenti irrogati ad aziende con meno di 15 dipendenti.
Come anticipato, la quaestio iuris verte attorno al fatto che la tutela prevista dall'art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2015, riguardi i dipendenti dei datori che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all'art 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970, quale quel datore di lavoro che “in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo […] occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori” che “nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti” eche “in ogni caso […] occupa più di sessanta dipendenti”.
A questi lavoratori, dipendenti di datori di lavoro la cui impresa non riveste grandi dimensioni, non si applica l'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 e quindi a fronte di un licenziamento ingiustificato trova applicazione unicamente la sanzione costituita da un'indennità risarcitoria.
Come ben noto, la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 aveva dichiarato incostituzionale l'art. 3 comma 1, d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui ancorava l'indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato al solo criterio dell'anzianità di servizio, comprimendo quasi totalmente la discrezionalità riservata dalla legge alla figura del giudice.
Per evidenti ragioni di continuità logica, pare dunque doveroso ritenere che tale incostituzionalità debba estendersi anche all'art. 9, comma 1, del medesimo decreto, posto il richiamo che la norma pone all'art. 3, per cui: “l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1 […] è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
Ne deriva dunque che, in caso di illegittimità del licenziamento per gmo, nelle imprese di piccole dimensioni l'indennità debba essere individuata nello stretto varco risultante tra un minimo di tre ed un massimo di sei mensilità, essendo l'originaria tutela “obbligatoria” di cui all'art. 8, l. n. 604/1966, riservata ai soli dipendenti di datori di lavoro che superino la soglia dimensionale predetta.
Invero, come noto, l'art. 8, l. n. 604/1966 prevede una tutela costituita dalla riassunzione in servizio o, in mancanza dal pagamento di un'indennità variabile tra 2,5 ed un massimo di 14 mensilità, tutela che non viene affatto riprodotta, se non in piccola parte, dall'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, per le imprese minori.
A ciò deve aggiungersi che, nonostante il Legislatore del 2018 abbia innalzato la soglia dell'indennità contemplata nell'art. 3 comma 1, d.lgs. n. 23/2015, l'unico effetto è stato quello di restringere l'intervallo entro cui deve essere determinata l'indennità prevista per i datori sotto-soglia, portandolo ad un range che va da 3 a 6 mensilità, palesemente contrastando con il recentissimo principio affermato sul tema dalla Corte costituzionale, secondo cui la determinazione dell'indennità in caso di licenziamento illegittimo non può essere ancorata al solo criterio dell'anzianità di servizio “inidonea ad esprimere le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore” (Corte costituzionale, n. 150/2020).
Riassumendo, può dunque dirsi che la tutela di cui all'art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2015, riguardi i soli lavoratori dipendenti da datori individuati esclusivamente sulla base del numero dei dipendenti occupati, prevedendo unicamente una soluzione indennitaria, che può essere determinata nello strettissimo intervallo tra le 3 e le 6 mensilità.
In ciò risiede il vulnus della questione oggetto di analisi, posta l'evidente inidoneità (anche alla luce dell'inequivoco tenore letterale della norma) della tutela offerta dall'art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2015 a soddisfare il test di adeguatezza, oltre che di dissuasività nella reazione dell'ordinamento a fronte di un licenziamento ingiustificato. Le soluzioni giuridiche
Nella pronuncia oggetto del presente commento, il Giudice adito, nell'esame della questione sottoposta al suo vaglio, rileva l'evidente violazione dei principi di effettività e di ragionevolezza che la tutela di cui all'art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2015 determina, collidendo tanto con i principi fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale, quanto con importanti disposizioni internazionali in materia.
Nel dettaglio, pare interessante riflettere proprio sulla distinzione fra le tutele che viene adoperata sulla base delle dimensioni occupazionali datoriali – e, dunque, su un elemento che risulta estraneo al rapporto di lavoro – dal momento in cui si è sempre ritenuto che la ratio di tale differenza fosse rinvenibile nel fatto che nelle piccole realtà lavorative, il riassorbimento del prestatore potesse risultare problematico a differenza delle grandi realtà, in cui essendo il rapporto di lavoro maggiormente “spersonalizzato”, il ripristino del medesimo risulterebbe di certo più agevole.
Nonostante tale distinzione, ogni forma di tutela di un licenziamento illegittimo, seppur differente, ha il compito di garantire la “tutela del lavoro in ogni sua forma ed applicazione”, mediante l'applicazione di limiti al potere di recesso datoriale, al fine di correggere il disequilibrio esistente nel contratto di lavoro. E difatti, sebbene il Legislatore, in caso di licenziamento invalido possa “nell'esercizio della sua discrezionalità prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio – monetario” ciò deve avvenire “nel rispetto del principio di ragionevolezza” (Sul punto si veda: Corte costituzionale n. 194/2018).
In particolare, sul tema, il Giudice delle Leggi ha affermato che, sebbene la regola dell'integralità della riparazione e dell'equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non abbia copertura costituzionale, deve essere garantita l'adeguatezza del risarcimento che “ancorché non necessariamente riparatorio dell'intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato” (così testualmente: Corte costituzionale n. 194/2018).
Da ciò si desume chiaramente che la mancata adeguatezza del ristoro, nei termini indicati, violi inevitabilmente non solo l'art. 3, comma 1, l'art. 4 e l'art. 35, comma 1, Cost., ma anche l'art. 24 Carta Sociale Europea, per cui l'indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio inflitto al prestatore licenziato senza un valido motivo.
Svariati sono gli argomenti adducibili a sostegno dell'irragionevolezza della misura di cui all'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 prevista per i lavoratori dipendenti da datori sotto - soglia, quali innanzitutto l'estrema esiguità della tutela (che non può superare le sei mensilità e che non prevede nemmeno l'alternativa della riassunzione) ed il mancato assolvimento della funzione dissuasiva della sanzione. Per ciò che concerne il primo argomento, è evidente come la misura de qua non sia idonea a garantire un'equilibrata compensazione del risarcimento, tantomeno nella prospettiva della non necessaria integrale riparazione del pregiudizio. Come infatti affermato a più riprese dal Giudice delle Leggi, per soddisfare il canone di adeguatezza, la misura dell'indennizzo deve tener conto dell'adeguato contemperamento degli interessi in conflitto, quali appunto la libertà di organizzazione dell'impresa, da un lato, e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato, dall'altro.
Per ciò che invece concerne il secondo dato rilevato, è innegabile l'inconsistenza della portata dissuasiva che assume la sanzione de qua. Come noto, infatti, la Corte costituzionale ha da sempre accostato alla funzione risarcitoria del pregiudizio patito dal dipendente per la commissione di un atto illecito da parte del datore di lavoro anche una funzione dissuasiva, il cui scopo fosse appunto quello di inibire il datore di lavoro dal tenere nuovamente ulteriori condotte dannose.
Da tale principio deriva dunque che, nel bilanciare i contrapposti interessi protetti, non solo è doveroso garantire un adeguato ristoro per il pregiudizio subito dal prestatore di lavoro, ma anche correggere il disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro, dissuadendo il datore di lavoro dall'adottare un licenziamento ingiustificato che gli costerebbe un'esigua indennità.
Tale regula iuris pare altresì confermata anche a livello internazionale dai principio contenuto nell'art. 24 della Carta Sociale Europea, in cui si fa esplicito riferimento al “diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”, sulla base dell'assunto per cui il licenziamento illegittimo deve essere proporzionato rispetto alla perdita sofferta dalla vittima, oltre che sufficientemente dissuasivo per i datori di lavoro e che quindi qualsiasi limite massimo che impedisce che il risarcimento sia commisurato al pregiudizio subito, è proibito. Pertanto, ispirandosi alle regole giuridiche sinora richiamate, il Giudice adito ha ritenuto nella pronuncia in commento che la disposizione di cui all'art. 9 del d.lgs. n. 23/2015 fosse palesemente viziata di incostituzionalità, nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo nelle ipotesi di licenziamento ingiustificato irrogato da un datore di lavoro privo dei requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970.
Tutt'al più, nella pronuncia in commento, il Giudice a quo rileva altresì l'evidente irragionevolezza del rigido criterio del “numero degli occupati”, che palesemente contrasta con i recentissimi arresti della Corte coostituzionale nelle già citate sentenze n. 194/2018 e 150/2020.
Come noto, in tali arresti, il Giudice delle Leggi ha avuto modo di ribadire come il criterio per la determinazione dell'indennizzo costituito dalla sola anzianità di servizio sia rigido e per questo inadeguato ed irragionevole, posta l'evidente omologazione di situazioni che l'appiattimento della valutazione del giudice (relegata al mero dato dell'anzianità di servizio) determina, così profondamente ledendo il principio di uguaglianza formale e sostanziale.
Invero, il sistema di tutele designato dall'art. 9 comma 1, d.lgs. n. 23/2015 prevede una misura indennitaria ricompresa in un range che va tra le 3 e le 6 mensilità e risulta talmente limitato da costituire una forma pressoché uniforme di tutela, in tal modo comprimendo fortemente sia la funzione compensativa che l'efficacia deterrente della tutela indennitaria.
Ciò si pone in forte contrasto con la funzione che tale tutela dovrebbe assolvere, nel rispetto dei principi fondamentali sanciti a livello costituzionale e delle regole costituzionalmente orientate sancite dal Giudice delle Leggi in materia, per cui nell'ottica di un bilanciamento tra interesse costituzionalmente rilevanti, l'esigenza di uniformità di trattamento non può sacrificare in maniera sproporzionata l'apprezzamento delle particolarità del caso concreto, risultando necessario consentire al Giudice di utilizzare in chiave correttiva anche altri criteri parimenti desumibili dal sistema (quali la gravità delle violazioni, il numero degli occupati le dimensioni dell'impresa e il comportamento e le condizioni delle parti).
Di converso, nel sistema di tutele di cui all'art. 9, comma 1, il criterio del numero degli occupati rappresenta l'unico effettivo fattore di determinazione dell'indennità, un fattore che non serve ad adeguare l'indennità, bensì solamente a limitarla, privando il Giudice della possibilità di valorizzare gli altri criteri indicati dal giudice delle Leggi nella sent. n. 194/2018, nonché di tenere conto della gravità della violazione in concreto commessa, palesemente ledendo il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, finendo per sanzionare in modo pressoché identico violazioni non solo produttive di danni diseguali, ma di gravità totalmente differenti.
Alla luce di ciò, il Giudice adito, propone quindi un “accantonamento” del criterio del numero dei dipendenti, specie nell'ambito dell'attuale quadro economico, suggerendo invece una rivalutazione del criterio della dimensione dell'impresa, quale correttivo per adeguare l'indennizzo al caso concreto, utilizzabile anche dal Giudice nella valorizzazione della portata dell'art. 44 Cost., in cui è sancito il principio generale di favore per le piccole imprese, fermo restando però che da questo non può desumersi l'esclusione di un'adeguata tutela del posto di lavoro (cfr: Corte costituzionale n. 143/1998 Osservazioni
In conclusione, è interessante osservare come l'ordinanza di rimessione in commento ponga alla luce l'evidente inidoneità del criterio di determinazione dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, a soddisfare il test di adeguatezza alla stregua dei principi costituzionali (art. 3, comma 1, 4, 35, comma 1, e 117, comma 1, Cost.) e sovranazionali (art. 24 Carta Sociale Europea).
È dunque evidente come il licenziamento ingiustificato intimato da un datore di lavoro privo dei requisiti di cui all'art. 18, commi 8 e 9, l. n. 300/1970 integri un illecito che deve dar luogo ad un'indennità “adeguata e personalizzata”, ancorché forfettizzata, sulla base della stessa logica che regge le sentenze della Corte costituzionale n. 194/2018 e n. 150/2020.
Alla luce di ciò, il Giudice a quo ha ritenuto non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, comma 1, 4, 35, comma 1, 44, comma 1, 117, comma 1, Cost., nonché in relazione all'art. 24 della Carta Sociale Europea, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 con riguardo alle parole “ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300/1970 […] l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'art. 3, comma 1 […] è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”, stante l'essenzialità del potere di valutazione delle peculiarità del caso concreto che al giudice è stato restituito, anche grazie all'operazione condotta dal Giudice delle Leggi con la pronuncia n. 194/2018, quale frutto di un'evoluzione normativa risalente, oltre che di una prassi ben consolidata.
Guida all'approfondimento - Persiani M., Fondamenti di diritto del lavoro, Padova, 2015; - Pessi R., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2018. |