Patto di famiglia

Maria Chiara Vanacore
Maria Chiara Vanacore
26 Aprile 2021

Il patto di famiglia è un contratto con il quale un imprenditore trasferisce l'azienda e/o il titolare di partecipazioni trasferisce le medesime ad uno o più dei suoi discendenti al fine di realizzare un “passaggio generazionale”. L'istituto, come delineato dagli artt. 768-bis - 768-octies c.c., può risultare ad una prima lettura un istituto completo nei suoi aspetti costitutivi, eppure, a molti anni dalla sua introduzione, si presentano all'interprete profili ancora oscuri e incerti relativi in particolare alla causa e all'oggetto di partecipazioni societarie.
Introduzione

Il patto di famiglia è un contratto con il quale un imprenditore trasferisce l'azienda e/o il titolare di partecipazioni trasferisce le medesime ad uno o più dei suoi discendenti al fine di realizzare un “passaggio generazionale”. L'istituto come delineato dagli artt. 768-bis - 768-octies c.c. può risultare ad una prima lettura un istituto completo nei suoi aspetti costitutivi. Sono descritti infatti la nozione e la forma, i soggetti partecipanti, l'oggetto, l'organismo di conciliazione per le eventuali controversie, la fisiologia e la patologia del relativo rapporto. Eppure, a molti anni dalla sua introduzione, si presentano all'interprete profili ancora oscuri e incerti relativi in particolare alla causa e all'oggetto di partecipazioni societarie.

La nozione e la ratio dell'istituto

Il patto di famiglia è il contratto, stipulato con la forma dell'atto pubblico, con il quale un imprenditore (c.d. disponente) trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più suoi discendenti (c.d. assegnatari) con l'obbligo, a carico di questi ultimi di liquidare i legittimari (c.d. non assegnatari) con una somma di danaro o beni in natura pari al valore della legittima loro spettante.

La ratio dell'istituto è quella di prevedere uno strumento giuridico alternativo alla donazione idoneo ad assecondare il desiderio dell'imprenditore di “passare la mano” al discendente da lui ritenuto più idoneo, in modo sicuro e stabile, superando i possibili conflitti che normalmente si verificano al suo decesso, senza però “mortificare” le istanze di solidarietà familiare che sono alla base della tutela della posizione dei suoi legittimari e che costituiscono un valore costituzionalmente rilevante ex artt. 29 e 42 Cost. (G. Oppo, Patto di famiglia e diritti di famiglia, in Riv.dir.civ., 2006, 4, II, 439).

La tutela dei diritti dei legittimari poteva essere affidata al carattere imperativo della legge come proposto da P. Schlesinger (Interessi dell'impresa e interessi familiari nella vicenda successoria, in AA.VV. La trasmissione familiare della ricchezza, Padova,1995, 137 e ss.) e come previsto nella novella della legge n. 80/2005 che all'art. 563, comma 1 c.c., impedisce l'esercizio dell'azione di restituzione nei confronti dell'avente causa dal donatario, se sono trascorsi comunque venti anni dalla trascrizione della donazione lesiva della legittima.

Si è ritenuto invece opportuno adottare il sistema consensuale e consentire alle parti interessate, (imprenditore, discendente prescelto e legittimari non assegnatari) di pervenire ad un accordo che, anticipando in vita il trasferimento dell'azienda e delle partecipazioni sociali, durasse in modo stabile e definitivo, anche dopo l'apertura della successione del disponente ed evitasse l'alto costo anche sociale dei conflitti parentali in ordine al governo dell'attività produttiva.

La soluzione prescelta è sicuramente condivisibile perché esalta il potere dell'autonomia privata dei contraenti che possono modellare a loro piacimento la struttura dell'accordo, potendovi ad es. inserire condizioni e termini da verificarsi anche dopo il decesso dell'imprenditore.

La legge, nonostante il carattere consensuale dell'accordo, si è riservata alcuni effetti (c.d. effetti legali) derivanti dal contratto concluso: quelli immediati, di natura reale (passaggio della titolarità dell'azienda e/o delle partecipazioni societarie dal disponente al beneficiario) o obbligatoria (la nascita del dovere a carico dell'assegnatario di liquidare i legittimari non assegnatari con danaro o con beni in natura corrispondenti al valore della legittima spettante a questi ultimi) e quelli differiti al momento della morte del disponente (imputazione dei beni ricevuti sia dall'assegnatario che dai non assegnatari con il patto di famiglia alla loro quota di legittima e soprattutto l'esclusione dei beni assegnati con il patto di famiglia dall'azione di riduzione e collazione).

Si è raggiunto così lo scopo di attuare il passaggio generazionale assicurando in tal modo all'imprenditore la possibilità che l'attività produttiva continui oltre la sua vita affidandone la gestione nelle mani di un discendente da lui prescelto ed ai prossimi congiunti di avere quanto spettante loro a titolo di legittima.

Il contratto e i soggetti partecipanti

In ordine alla struttura del patto di famiglia in dottrina vi sono due orientamenti: da una parte (c.d. tesi estensiva) si ritiene che esso sia un contratto necessariamente plurilaterale, cioè a parteciparvi devono essere non solo il disponente e l'assegnatario prescelto, ma anche coloro che sarebbero legittimari se al momento della conclusione del patto si aprisse la successione dell'imprenditore. Questa interpretazione poggia sulla lettera dell'art. 768-quater, comma 1, c.c. ed è ispirata al criterio del necessario coinvolgimento di tutti i parenti prossimi al disponente per rendere l'accordo più stabile e vincolante nei confronti di tutti i suoi legittimari.

L'altra tesi (c.d. restrittiva) seguita in tempi più recenti (A. Busani, Il patto di famiglia, Milano, 2019, 184 e ss.) ritiene invece che il patto di famiglia abbia una struttura bilaterale, che si formi cioè con il solo consenso del disponente e del discendente assegnatario, che può anche non essere legittimario (ad es. nipote, in quanto figlio del figlio vivente dell'imprenditore). La condivisione di tale opinione consente sul piano pratico la possibilità di evitare che un qualsiasi legittimario del disponente possa per motivi economici o personali nei confronti del legittimario prediletto o verso il disponente (ad es. il coniuge che sta per separarsi o si è già separato dall'imprenditore o il primogenito che non accetta di essere sostituito) esercitare il diritto di veto e così impedire la formazione del patto di famiglia, e sul piano sistematico la possibilità di evincere dall' art. 768-quater, comma 3, c.c. che la liquidazione ai legittimari non assegnatari possa avvenire anche con successivo contratto che sia espressamente collegato al primo.

Resta tuttavia la lettera dell'art. 768-quater, comma 1, c.c. che testualmente stabilisce che “devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore”.

In proposito, nell'ambito della tesi della bilateralità del contratto costitutivo del patto vi sono alcuni autori (ad es. C. Caccavale, Divieto dei patti successori ed attualità degli interessi tutelati, in Patti di famiglia per l'impresa, Milano, 2006, 44) che ritengono di poter superare l' impasse della lettera della disposizione citata richiamandosi al sistema previsto dall' art.1113, comma 3, c.c. in cui si dispone la chiamata ad intervenire dei creditori iscritti sul compendio immobiliare da dividere e di coloro che vi hanno acquistato diritti “perché la divisione abbia effetto nei loro confronti”.

Così anche nel patto di famiglia, il disponente o il discendente assegnatario può invitare a partecipare alla conclusione del contratto i legittimari in pectore dell'imprenditore se conosciuti ed esistenti al momento del patto. In difetto di partecipazione, il patto sarà comunque opponibile anche a coloro che non vi hanno partecipato, nonostante l'invito.

Si ritiene pertanto che basti la convocazione (non la partecipazione) per l'opponibilità degli effetti del patto concluso, sia con riguardo a quelli valutativi (determinazione della quota di legittima ai legittimari non assegnatari secondo i valori stabiliti per i beni assegnati al momento del patto), che a quelli d'inerenza successoria (esclusione dell'azione di riduzione e collazione).

La tesi della opponibilità degli effetti legali del patto (esenzione dall'azione di riduzione e collazione) non convince altra parte della dottrina (A. Checchini, Patto di famiglia e principio di relatività del contratto, in Riv. dir. civ., 2007, n. 3, 297) secondo cui il patto non può produrre effetti nei confronti di chi non vi abbia partecipato, sulla base del principio della relatività degli effetti del contratto (art. 1372 c.c.).

I non invitati potranno sempre aderire al patto concluso e chiedere agli altri legittimari, beneficiari del contratto, la liquidazione della loro legittima secondo il valore stabilito nell'accordo al momento della sua conclusione. Se l'adesione è fatta successivamente all'apertura della successione del disponente, la liquidazione dovrà comprendere anche gli interessi legali nel frattempo maturati (art. 768-sexies c.c.)

Una recente opinione (A. Busani, op. cit.,203 ss.) ha ritenuto che l'espressione “devono partecipare” riferita ai legittimari non assegnatari dovesse essere interpretata come “devono essere convocati al fine di partecipare” e quindi distingue tra quelli che, sebbene conosciuti, non siano stati convocati e che mantengono nella futura successione del disponente la possibilità di esercitare le azioni di riduzione e di collazione e quelli, che, cogniti o non, convocati o intervenuti di propria volontà, partecipano al patto, concordano la quantificazione del valore della loro legittima, ma perdono il potere di agire in riduzione e collazione al decesso dell'imprenditore.

A coloro che convocati, scelgono di non partecipare, il patto concluso sarà loro opponibile nella futura successione del disponente con la conseguente perdita dell'azione di riduzione e collazione, rimanendo soltanto creditori della liquidazione ex art. 768-quater, comma 2 c.c.

Costoro, infatti, sono stati messi in grado di partecipare tramite l'invito, non vi hanno aderito e quindi devono subire gli effetti legali previsti, di carattere positivo (la liquidazione secondo i valori stabiliti nel patto) e negativo (la disattivazione dell'azione di riduzione e collazione). Il sistema della convocazione consente la opponibilità degli effetti del patto concluso e quindi evita la violazione dell'art. 1372 c.c. sull'efficacia del contratto tra le parti, come accade nella situazione prevista dall' art. 1113 comma 3 c.c., in tema di divisione di beni immobili.

Rimane da chiarire chi siano gli “altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto” di cui all' art 768-sexies, comma 1 c.c.: la teoria c.d. estensiva ritiene che siano quelli che non esistevano in vita al momento del patto, c.d. legittimari sopravvenuti (ad es. il soggetto che diviene coniuge o unito civile del disponente dopo il patto o il figlio riconosciuto o adottato dal disponente sempre dopo il patto) o che, pur esistendo, non erano conosciuti (ad es. per ragioni di assenza o scomparsa), e quindi in entrambi i casi non potevano parteciparvi né ovviamente essere convocati. A questi legittimari è dovuta la tutela prevista dall' art. 768-sexies, comma 1 c.c., consistente nella liquidazione con gli interessi legali maturati dal patto.

Restrittiva invece viene definita l'opposta teoria (F. Gazzoni, Appunti e spunti in tema di patti di famiglia, in Riv. dir. civ., 2006, n. 4-5, 223) per la quale i legittimari previsti nell' art. 768-sexies, comma 1, c.c., sono solo quelli non esistenti in vita al momento del patto o che non avevano ancora acquistata la qualifica di legittimari, a seguito di eventi successivi al patto: solo a questi è riservata la liquidazione aumentata dell'art. 768-sexies.comma 1 c.c.

Quelli esistenti al momento della stipula del patto, che dovevano parteciparvi, ma non vi hanno aderito, rendono invalido o inefficace il patto stesso, in considerazione della struttura plurilaterale o trilaterale del patto, e quindi conservano al momento dell'apertura della successione dell'imprenditore le normali azioni di riduzione e collazione contro le disposizioni testamentarie o donazioni lesive della loro legittima.

Riteniamo che la teoria estensiva sia più rispondente alla ratio del patto di famiglia, inteso a conservare anche ai fini sociali il bene produttivo dopo il cambio generazionale in modo stabile e definitivo tramite la disapplicazione dell'azione di riduzione e collazione.

La causa

Il patto di famiglia è un atto inter vivos ma con effetti protesi a regolare la successione dell'imprenditore, nel momento in cui potrebbero operare le azioni di riduzione e di collazione con i loro complessi meccanismi di riunione fittizia dei beni relitti e donati, di valutazione del compendio ereditario, di imputazione ex se e infine dell'obbligo collatizio, potenzialmente idonei a creare quella conflittualità tra i diretti discendenti che inesorabilmente avrebbe ricadute sulla produttività e sulla clientela dell'azienda.

Si tratta in ogni caso di un atto dispositivo potenzialmente idoneo a creare un pregiudizio alle ragioni dei creditori dell'imprenditore cedente.

In evidenza: natura dispositiva del contratto

La natura sicuramente dispositiva del contratto è sostenuta nella sentenza (Sez. spec. Impresa del Tribunale di Torino del 20 febbraio 2015) in cui si afferma che il conferimento nel patto di famiglia di quote sociali nel caso in cui determini pregiudizio alle ragioni dei creditori del cedente può essere impugnato, in presenza degli altri presupposti previsti dalla legge, con l'azione revocatoria ex art. 2901 c.c.

Alcuni autori (C. Caccavale, op. cit., 48; A. Palazzo, Il Patto di famiglia tra tradizione e rinnovamento del diritto privato, in Riv. dir. civ., 2007, n. 3, II, 263) che condividono la tesi della bilateralità del patto ritengono che trattasi di una donazione modale nel senso che lo scopo liberale del disponente nel trasferire il bene produttivo sarebbe limitato dall'obbligo (modus donativo) previsto dalla legge in capo al discendente assegnatario di provvedere alla liquidazione dei legittimari non assegnatari sulla base del valore pattuito.

In tal caso i legittimari non assegnatari sarebbero terzi creditori nei confronti dell'assegnatario che diventa così loro debitore. L'obiezione che si muove a tale opinione è che la liquidazione non è un modus, cioè un elemento accessorio della fattispecie, ma è parte essenziale, strettamente collegata al trasferimento del bene produttivo. Se la ratio del patto è nell'aver contemperato, ponendoli sullo stesso piano, sia l'interesse dell'impresa e quindi dell'iniziativa economica utile al mercato, sia quello della tutela dei diritti riservati ai legittimari, non potrà aversi subordinazione tra un bene principale e quello accessorio.

D'altra parte se si trattasse di donazione modale, l'art. 793, comma 2, c.c. prescrive che il“donatario è tenuto all'adempimento dell'onere entro i limiti della cosa donata” mentre nessuna disposizione del patto di famiglia vieta che le parti interessate possano concordare il valore della liquidazione in misura superiore al valore del bene ricevuto dal discendente assegnatario (A. Ferrari, Il patto di famiglia, aspetti civilistici e fiscali, Milano, 2012, 36).

Altri Autori (ex pluribus G. Amadio, Patto di famiglia e funzione divisionale, in Riv. notariato, 2006, n. 4, 867) ritengono che il patto persegua una funzione divisionale sia per la collocazione topografica dell'istituto nel codice civile, posto subito dopo la disciplina della divisione ereditaria, sia per la funzione distributiva o di apporzionamento; il disponente inizierebbe a dividere i suoi beni tra i prossimi congiunti, attribuendo ad uno il bene produttivo e ad altri il valore della legittima tramite l'obbligo imposto all'assegnatario di liquidarne il valore ai legittimari non assegnatari.

In evidenza: la funzione divisionale

La tesi divisionale è stata condivisa dal Giudice Tutelare del Tribunale di Reggio Emilia che nel provvedimento del 19 luglio 2012 ha ritenuto che il patto da stipulare abbia natura di divisione anticipata di parte dei beni del disponente e che pertanto competente a rilasciare l'autorizzazione all'incapace (nel caso un interdetto) quale legittimario non assegnatario fosse il Tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell'art. 375 c.c.

Secondo altra opinione (U. La Porta, Il patto di famiglia, Torino, 2007, 37 ss.) il patto di famiglia potrebbe essere costruito come una ipotesi legale di contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.) e quindi avere una causa onerosa in quanto l'obbligo della liquidazione sarebbe il corrispettivo che il discendente assegnatario deve dare al disponente in cambio del bene produttivo da lui ricevuto.

Su indicazione del disponente (stipulante), l'assegnatario (promittente) si obbligherebbe a liquidare il valore della legittima ai legittimari (terzi) del disponente, soddisfacendo l'interesse di quest'ultimo a pianificare la sua successione.

Per conseguire però l'effetto favorevole (la liquidazione) i legittimari non assegnatari devono aderire al patto concluso tra il disponente e il discendente assegnatario, pur rimanendo terzi.

Questa costruzione troverebbe un timido referente normativo nella espressione “terzi” contenuta nel titolo dell'art. 768-sexies, c.c.

Si obietta tuttavia che non vi è alcun effetto favorevole in quanto se è vero che i legittimari non assegnatari conseguono la legittima in valori monetari concordati al momento del patto, rinunciano a riceverla in natura e soprattutto perdono la possibilità di esercitare al momento dell'apertura della successione del disponente l'azione di riduzione e collazione.

Non si può invocare l'art. 1411 c.c, che dispone che deve trattarsi di effetti realmente favorevoli per il terzo, perché in difetto ricorre il divieto di impegnare il patrimonio del terzo (art. 1372 c.c.).

Bisogna dar conto, infine, della tesi (G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra bilanciamento dei principi e valutazione comparativa degli interessi, in Colloqui in ricordo di M.Giorgianni, Napoli 2007, 1166 e ss.; I. Riva, Patto di famiglia, in Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. Di Nova, Bologna, 2021, 22 e ss.) che causa dell'istituto in esame sia una liberalità non donativa, rientrante nella variegata categoria di liberalità diverse dalla donazione, previste dall' art. 809 c.c. in cui l'arricchimento è il risultato del collegamento di negozi strutturalmente diversi, onerosi e gratuiti. Ciò in considerazione dei diversi profili liberali e distributivi del patto che non possono essere ricondotti ad una funzione unica (donativa o divisoria).

In conclusione, potremmo affermare che la causa del patto è difficilmente sussumibile nei profili funzionali tipici dei singoli contratti previsti dal codice civile. Trattasi di una causa nuova, tipica e complessa per i vari aspetti che la caratterizzano. Infatti in ordine al rapporto tra disponente ed assegnatario la causa è sicuramente gratuita perché il primo non riceve alcun corrispettivo al trasferimento del bene produttivo in favore del secondo ed è anche liberale perché c'è nel disponente la volontà di arricchire il discendente prescelto, assegnandogli un bene produttivo che può superare il valore della legittima e impegnare la disponibile.

È anche divisionale perché risponde ad una iniziale distribuzione dei beni da parte dell'imprenditore verso i suoi familiari. É inoltre successoria perché l'intento del disponente è di conseguire l'unità e la stabilità dei beni assegnati al discendente prescelto nel tempo successivo al suo decesso. Dal lato dei partecipanti non assegnatari la causa è solutoria dell'obbligo della liquidazione parametrata sul valore della legittima dovuta agli ex art. 536 c.c. a seguito di una finta apertura di successione del disponente al momento della conclusione del patto di famiglia.

L'oggetto: le partecipazioni societarie

Poiché negli artt. 768-bis e 768-quater c.c. si legge solo l'espressione “partecipazioni societarie” senza alcuna specifica qualificazione, si è posto il problema circa la caratteristica che debba avere la quota sociale per essere oggetto del patto. Gli autori impegnati sul tema si sono divisi in due schiere contrapposte: da una parte, coloro (A. Busani, op.cit., 332 ss. e I. Riva, op.cit., 82) che ritengono che qualsiasi partecipazione societaria e in ogni tipo di società può essere un valido oggetto del patto di famiglia. Tale opinione è detta estensiva: gli argomenti a suo sostegno sono:

  • l'assenza di ogni indicazione nella legge;
  • l'eventualità che una partecipazione al capitale sociale pur di consistenza inizialmente irrilevante possa diventare decisiva delle sorti della società a seguito di patti sociali all'interno della compagine sociale o tramite patti parasociali relativi alla gestione sociale;
  • l'opportunità di assicurare la certezza del diritto nella pratica professionale, eliminando ogni dubbio in ordine alla validità dell'oggetto del patto di famiglia.

Di contro, per la tesi detta restrittiva, vi sono gli autori (F. Volpe, Patto di famiglia, artt. 768-bis e 768 octies, in Il Codice Civile Commentario, Milano 2012, 60 e ss.; G. Petrelli, La nuova disciplina del Patto di Famiglia, in Riv. notariato n. 2, Milano 2006, 415) che ritengono che in conformità alla ratio del patto di famiglia, che consiste nell'assicurare in modo stabile e definitivo il passaggio dell'impresa alla morte dell'imprenditore nelle mani fidate del discendente prescelto, l'oggetto del trasferimento deve riguardare il potere di gestione della società partecipata dalle quote del disponente. Solo la continuità dell'attività imprenditoriale, sia esercitata in forma individuale sia in struttura societaria, può costituire il metro di riferimento per una valutazione dell'oggetto del patto di famiglia. I referenti normativi sono, relativamente al trasferimento dell'azienda, l'indicazione della qualifica imprenditoriale che si rinviene nell' art. 768-bis c.c. (“l'imprenditore” è il soggetto trasferente); nell' art. 768-quater comma 1, c.c. (“la successione nel patrimonio dell'imprenditore”); nell' art. 768-sexies, comma 1, c.c., (“all'apertura della successione dell'imprenditore”). Se in tali disposizioni si qualifica il disponente come imprenditore, vuol significare che l'oggetto da trasferire non può essere che la sua attività imprenditoriale.

Sono pertanto trasferibili la partecipazione ad una società semplice in cui il potere di amministrazione, in modo disgiuntivo, appartiene istituzionalmente al singolo socio (art. 2257 c.c.). Ove il singolo socio fosse sprovvisto di tale potere, perché escluso da una clausola del contratto costitutivo o da una successiva modifica, allora il patto di famiglia deve essere preceduto da una convenzione di modifica che ripristini l'amministrazione disgiunta di tutti i soci.

Anche la quota di una s.n.c. può essere oggetto del patto di famiglia, in quanto alla s.n.c. si applicano direttamente le norme della società semplice (art. 2293 c.c.).

Allo stesso modo può essere trasferita con il patto la quota del socio accomandatario, se gli è stato conferito il potere di amministrare la società (art. 2318,comma 2 c.c.) anche se non quello di rappresentanza, concesso ad altri soci accomandatari amministratori. Il contenuto del potere del socio accomandatario è quello dell'amministrazione disgiuntiva, previsto dall' art.2257 c.c. per il socio di società semplice, le cui norme si applicano alla s.a.s. se compatibili con la specifica disciplina di quest'ultima società. Anche il trasferimento della quota del socio accomandante può essere oggetto di un patto di famiglia se al socio è stata rilasciata la “procura speciale per singoli affari”, oppure se i patti sociali gli conferiscono la facoltà di “dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni e compiere atti di ispezioni e di sorveglianza” (art. 2320 commi 1 e 2 c.c.). Attraverso l'esercizio di tali facoltà il socio accomandante partecipa al governo della società.

Per la s.p.a. può essere oggetto del patto di famiglia una partecipazione al capitale sociale che attribuisca al socio il potere di orientare comunque l'attività sociale. A tal fine è necessario che la quota sia di controllo per consentire al titolare di disporre della maggioranza dei voti nell'assemblea ordinaria o comunque tale da esercitare un'influenza dominante (c.d. quota di riferimento) in un'altra società, anche in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa (art. 2359 c.c.) e così gestire la società controllante e quella controllata.

Per la s.r.l. la quota di partecipazione deve attribuire al titolare la maggioranza dei voti nelle “decisioni dei soci” (art. 2479 c.c.) in quanto in tali riunioni si approva il bilancio, si distribuiscono gli utili, si modifica l'atto costitutivo e si nominano gli amministratori, se tale ultima facoltà è prevista nell'atto costitutivo. É necessario quindi che il titolare della partecipazione abbia il potere di gestire la società in modo diretto o indiretto. Anche una quota di minoranza può essere oggetto di un valido patto di famiglia, se al titolare vengono attribuiti i particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili (art. 2468 comma 3 c.c.). In tal modo il titolare della quota esercita la facoltà di partecipare alla gestione della società.

La quota di partecipazione del socio accomandatario di una s.a.p.a. può essere oggetto del patto, perché di diritto esso è amministratore (art. 2455 comma 2 c.c.) e quindi istituzionalmente gestisce la società, anche se non ha la maggioranza delle azioni. Tale quota è particolarmente diffusa nell'ambiente imprenditoriale italiano perché il potere di gestione è raccolto in poche mani, normalmente legati da vincoli familiari, interessati alla stabilità del passaggio generazionale.

La tesi restrittiva ha avuto una conferma sul piano fiscale: le esenzioni dall'imposta di successione e donazione, previste dall' art. 3, comma 4-ter d.lgs. 31 ottobre 1990 n. 346 (introdotto dal comma 78 dell'art. 1 legge Finanziaria 2007) spettano solo a quelle quote sociali conferite in patto di famiglia che abbiano acquisito o integrato il controllo ex art. 2359 comma 1 c.c. La innovazione legislativa indicata è stata oggetto dello Studio n. 17-2020/T del C.N.N., approvato dalla Commissione Studi Tributari il 10 luglio 2020, in cui vengono esaminate le diverse problematiche che l'esenzione dall'imposta di successione e donazione comporta.

In evidenza: profili fiscali

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta recentemente, analizzando l'aspetto fiscale dell'istituto in due ordinanze. Nella prima sentenza, emessa in data 19/12/2018 n. 32823, la S.C. statuisce che il patto di famiglia è assoggettato all'imposta sulle donazioni in ordine sia al trasferimento del bene produttivo dal disponente al discendente che al versamento della somma compensativa della quota di legittima dall'assegnatario ai legittimari non assegnatari.

Quest'ultimo rapporto è da tassare in base all'aliquota ed alla franchigia relative non al rapporto tra disponente ed assegnatario e nemmeno a quello tra disponente e legittimario, bensì a quello tra assegnatario e legittimario non assegnatario (se fratelli, aliquota del 6% e franchigia di €100.000).

Nella seconda, del 24 dicembre 2020 n. 29506, la Cassazione ha seguito un orientamento diverso, statuendo che alla liquidazione operata dal beneficiario del bene produttivo in favore del legittimario non assegnatario sia applicabile l'art. 58 comma 1 d.lgs. n. 346/90, considerando tale liquidazione come donazione dal disponente al legittimario non assegnatario, con conseguente attribuzione dell'aliquota e della franchigia previste in relazione al corrispondente rapporto di parentela o di coniugio tra il disponente-donante e il legittimario-donatario (aliquota del 4% e franchigia di €1.000.000).

Ancora più recentemente, la Cassazione con la sentenza n. 6591 del 10 marzo 2021 ha confermato la tesi secondo cui rientra nella previsione del precitato comma 4-ter dell'art.3 d.lgs. 346/!990 comportante l'esenzione dall'imposta di donazione, il trasferimento nel patto di famiglia delle partecipazioni sociali che possano permettere il controllo ai sensi dell'art. 2359 comma 1 c.c. delle società indicate nell'art. 73 comma 1 lettera a) d.P.R. n. 917/1986. Nella specie si trattava di un imprenditore, il quale donava tramite il patto di famiglia, separatamente ed in parti quasi eguali (il 24,5% ai primi due e il 25% al terzo) il 74% della partecipazione azionaria nella sua società ai suoi tre figli che subito dopo convenivano un patto parasociale, accessorio al patto di famiglia, in cui si impegnavano tra l'altro ad adottare all'unanimità qualsiasi decisione relativa alla gestione della società. La S.C. decideva che il patto di famiglia tra il padre e i tre figli non è esente dall'imposta di donazione ai sensi dell'art. 3 comma 4-ter d.lgs. 346/1990 perché mancava il requisito del controllo societario ex art. 2359 comma 1 c.c. in testa ad un beneficiario: nessun figlio donatario infatti distintamente lo possedeva. Se la partecipazione azionaria fosse stata donata ai tre figli in comune e pro indiviso e si fosse nominato un rappresentante comune ai sensi dell'art. 2347 c.c. che avesse esercitato il controllo al posto dei comproprietari, il beneficio della esenzione sarebbe stato riconosciuto. Ritiene poi la Cassazione che la conclusione del patto parasociale con i vincoli indicati in modo tale da consentire l'apparenza di un controllo societario da parte dei partecipanti non è idoneo a integrare le condizioni del trattamento agevolativo perché esse devono sussistere al momento della stipula del patto di famiglia e non dopo. D'altra parte, conclude la S.C. le norme fiscali che comportano esenzioni di imposta in deroga al regime impositivo ordinario sono di stretta interpretazione e quindi non possono essere applicate per analogia ex art. 14 delle preleggi (la sentenza ha ricevuto un primo commento da A. Busani sul quotidiano il Sole24ORE del 19 marzo 2021).

Riferimenti

Normativi:

  • Artt. 768-bis - 768-octies c.c.

Giurisprudenziali

  • Cass. Civ., n. 6591/2021
  • Cass. Civ., n. 29506/2020
  • Tribunale di Torino, Sez. Specializzata, 20 febbraio 2015
Sommario