È reato l'uso della violenza per educare i figli

Michol Fiorendi
10 Maggio 2021

L'uso sistematico di metodi violenti verso le figlie minori integra gli estremi del più grave reato di maltrattamenti in famiglia
Massima

L'uso sistematico della violenza, come abituale trattamento del minore, anche se sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell'ambito della fattispecie di abuso di mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti. È stato anzi precisato che l'elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può individuarsi nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall'agente, poiché l'uso della violenza per fini correttivi o educativi non è mai consentito.

Il caso

La Corte d'appello territoriale, con sentenza in parziale riforma di quella emessa dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale del luogo, riduce la pena dei genitori imputati a 10 mesi e 20 giorni di reclusione, confermando il resto della sentenza di primo grado che li aveva dichiarati colpevoli del reato di maltrattamenti verso le due figlie minorenni, rispettivamente di 12 e 3 anni.

I giudici della corte constatano che il procedimento nasceva dalle confidenze della più grande delle due sorelle ad un'insegnante, alla quale aveva rivelato di essere picchiata da due anni dai genitori che, impegnati per lavoro e gravati da problemi economici e di salute (la madre) e dipendenza dall'alcol (il padre), le imponevano di occuparsi della sorellina al ritorno da scuola, di riordinare e fare le pulizie di casa, lasciandole così poco tempo da dedicare allo studio e alle uscite con le amiche. Picchiavano anche la sorellina che, spaventata, era sempre più dipendente da lei.

Attivato il servizio socio assistenziale, era stato disposto l'allontanamento delle bambine dall'abitazione familiare e, all'esito della perizia psicodiagnostica, attestante la capacità di testimoniare della sorella maggiore, ne erano state assunte le dichiarazioni, e i giudici di merito ritenendola attendibile, hanno acquisito un quadro probatorio idoneo e completo per la contestazione del reato di maltrattamenti in famiglia.

E seppur, da un lato, la Corte d'appello riscontra la tendenza della minore a enfatizzare i contenuti dei propri racconti, dall'altro, la giustifica e reputa attendibile la sua testimonianza.

La Suprema Corte dichiara inammissibili i ricorsi presentati dai genitori, allineandosi alla sentenza della Corte d'appello, e confermando così l'inadeguatezza e l'incapacità dei genitori di gestire la situazione educativo-familiare, oltre che la loro responsabilità per il reato di maltrattamenti.

La questione

Può l'animus corrigendi del genitore, che si manifesta nell'uso sistematico di metodi violenti verso le figlie minori, rientrare nella fattispecie dell'abuso dei mezzi di correzione ovvero concretizza necessariamente gli estremi del più grave reato del delitto di maltrattamenti in famiglia?

Le soluzioni giuridiche

Il reato di maltrattamenti contro i familiari e conviventi (art. 572 c.p.) ha come ratio legis la tutela della salute e dell'integrità psico-fisica dei soggetti appartenenti all'universo familiare o para-familiare.

Il nostro ordinamento tutela la famiglia quale centro di relazioni caratterizzate da status e rapporti giuridici comuni ai soggetti che la costituiscono; sul piano penale essa viene garantita poiché indispensabile alla compagine statuale, la quale riconosce in quest'ultima una fonte di moralità, onestà, educazione, energia e lavoro (cit. Antolisei).

Esistono norme fondamentali che regolano i rapporti di famiglia in materia penale che, nel corso degli anni, hanno subito variazioni e riscritture; una di queste è l'indispensabile art. 572 c.p. relativo ai cosiddetti “maltrattamenti in famiglia”.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 571 c.p., maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni.

La dottrina, sul punto, si è posta in modo differente, dividendosi in due grandi tronconi: da una parte la collocazione della norma è stata ritenuta poco corretta poiché il reato in questione si intende realizzato mediante il componimento di atti che determinano la lesione della libertà e dell'incolumità individuale, con la conseguenza che, come afferma Pisapia, sarebbe maggiormente opportuna la sua collocazione nell'ambito dei delitti contro la persona.

Dall'altra, questa collocazione è stata considerata impropria in quanto non rispecchia il reale campo tutelato dalla norma che, certamente, deve essere esteso alla tutela dell'integrità fisica e morale di tutte quelle vittime che, sebbene non costituiscano la famiglia in senso tradizionale, siano soggette alla supremazia dell'agente (Mantovani).

Anche la giurisprudenza della Corte di cassazione si è confrontata più volte su questo delicato tema.

Per fare un breve excursus tra le sentenze più recenti e interessanti della Suprema Corte, ricordiamo la n. 761 del 2019 con la quale la Cassazione stabilisce che la maternità del delitto di maltrattamento in famiglia è integrata da una serie di atti lesivi dell'integrità fisica o del decoro della vittima, nei confronti della quale viene così attivata una condotta di sopraffazione sistematica, così da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza, dovendosi proprio l'elemento psichico concretizzarsi nella volontà dell'agente di avvilire e sopraffare la vittima e non rilevando che siano riscontrabili nella condotta dell'agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo.

Con la sentenza n. 50304 del 2018 la giurisprudenza di legittimità effettuava un'ulteriore precisazione, ritenendo configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche contro la persona non convivente o non più convivente con l'agente, quando quest'ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione.

La convivenza, infatti, non è un presupposto di tale reato e i vincoli di reciproco rispetto vanno osservati anche dopo la separazione personale, a maggior ragione se si deve adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell'educazione, nell'istruzione e nell'assistenza morale dei figli minori.

Con la sentenza n. 27088/2017, vediamo che per l'integrazione dell'illecito del delitto di cui all'art. 572 c.p., come evidenziano anche altre numerose pronunce, è necessaria una condotta di vessazione continuativa che, pur potendo essere inframmezzata da periodi di calma, deve costituire fonte di un disagio continuo e incompatibile con le normali condizioni di vita, poiché altrimenti deve escludersi l'abitualità del comportamento, implicita nella struttura normativa della fattispecie, ed i singoli fatti che ledono o mettono in pericolo l'incolumità personale, la libertà o l'onore di una persona della famiglia conservano la propria autonomia di reati contro la persona.

È da sottolineare come il Codice Rocco, rispetto al precedente Codice Zanardelli, apporta delle novità sulla collocazione della norma esaminata: Se è vero, infatti, che essa viene nuovamente inserita tra i reati contro la famiglia, sussistono, però, delle sostanziali modifiche riguardanti i soggetti passivi, tra i quali, come detto, vengono annoverate le persone sottoposte all'autorità dell'agente o al medesimo affidati per ragioni di cura, vigilanza, educazione, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte.

Nel 2012 con la legge 172, ratifica della cd. Convenzione di Lanzarote, il legislatore è intervenuto sull'art. 572 c.p. correggendo la norma con l'intento di perseguire più aspramente determinate condotte che, alla luce dei fatti di cronaca, sollevano particolare allarme sociale, considerato il contesto entro cui avvengono e la posizione di svantaggio della vittima. La novella, tuttavia, ha lasciato completamente invariati sia la natura abituale del delitto, sia la sua struttura.

Osservazioni

Come detto, il reato di maltrattamento in famiglia è previsto e punito dall'art. 572 c.p. con il fine di tutelare la salute e l'integrità psico-fisica di soggetti che appartengono a un contesto familiare o para-familiare.

Oggi, come detto, il reato noto come maltrattamenti in famiglia si configura ogni qual volta un soggetto maltratta una persona appartenente alla sua famiglia o comunque con lui convivente o una persona sottoposta alla sua autorità o che gli è stata affidata per ragioni di educazione. Istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l'esercizio di una professione o di un'arte.

A tal fine, si considerano delle persone di famiglia non solo, come avveniva un tempo, il coniuge, i consanguinei, gli affini, gli adottati e gli adottandi. Il concetto è esteso infatti anche al convivente more uxorio e a tutti coloro che sono in qualche modo legati da un rapporto di parentela con il maltrattante e ai domestici con questo conviventi.

Con riferimento ai soggetti che oggi possono essere vittima del reato in analisi può dirsi che, come la giurisprudenza di legittimità (cfr. sent. Cass. n. 31121/2014) ha avuto modo di precisare «sussiste il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. tutte le volte che la relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà».

Venendo alla portata del termine maltrattamenti, secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidate può identificarsi come “maltrattante” qualsiasi complesso di atti prevaricatori, vessatori e oppressivi reiterati nel tempo, tali da produrre nella vittima un'apprezzabile sofferenza fisica o morale, o anche da pregiudicare il pieno e soddisfacente sviluppo della personalità stessa.

A questo proposito, fece molto clamore, qualche anno fa, la sentenza della Corte di cassazione Cass. pen., n. 36503/2011 che confermò la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti di una madre e di un nonno che, per eccesso di protezione e attenzioni, avevano di fatto impedito un armonico sviluppo psico-fisico del figlio/nipote.

Da tutto quanto sopra detto, possiamo ulteriormente schematizzare le caratteristiche del reato di maltrattamenti in famiglia.

Si tratta di un reato proprio, poichè lo stesso non può essere commesso da chiunque, ma può essere integrato solo da coloro che si trovano in una determinata posizione rispetto alla vittima.

È un reato abituale, in quanto le condotte poste in essere dal soggetto attivo possono essere irrilevanti giuridicamente, se singolarmente considerate, ma divengono illecite a seguito del loro protrarsi nel tempo.

Infine, per la configurazione dei maltrattamenti in famiglia, è richiesto il dolo generico, ovverosia la coscienza-volontà di ingenerare nella vittima, con il proprio comportamento, una serie di conseguenze negative.

La pena base per il reato di maltrattamenti in famiglia è quella della reclusione da due a sei anni.

Un aspetto peculiare del reato di maltrattamenti è quello che vede come protagonista la scuola: numerosi fatti di cronaca hanno messo in luce come uno dei luoghi dove il minore ripone maggiore fiducia, rappresentando il posto più vicino alla realtà domestica, possa diventare, paradossalmente, teatro di angoscia.

La Suprema Corte, con la sentenza Cass. pen. n. 40959/2017, stabilisce che nell'ipotesi in cui l'insegnante utilizzi ripetutamente violenza contro l'alunno non risponde del reato di cui all'art. 571 c.p. (abusi di mezzi di correzione) ma del reato, di tutt'altra portata, di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli.

La Cassazione ha abbracciato, pertanto, un orientamento consolidato dal quale il seguenti principio: «il termine correzione va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. In ogni caso, non può ritenersi tale l'uso della violenza finalizzato a scopi educativi: ciò sia per il primato che l''ordinamento attribuisce alla dignità della persona, ormai soggetto titolare dei diritti, e non più come in passato semplice oggetto di protezione da parte degli adulti, sia perchè non può perseguirsi quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori della pace, di tolleranza, di convivenza, utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice (Cass. 4904/1993)».

Riferimenti

Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, Milano, 1957;

Cassani, La nuova disciplina dei maltrattamenti contro familiari e conviventi. Spunti di riflessione, in Archivio penale, 2013;

Coppi, Maltrattamento in famiglia o verso i fanciulli, (voce) in Enciclopedia del diritto, volume XXV, Varese, 1975;

Mantovani, Riflessioni sul reato di maltrattamenti in famiglia, in Studio in onore di Antolisei, II, Milano, 1965;

Pisapia, Delitti contro la famiglia, Torino, 1953;

Pagliaro, Principi di diritto penale, parte speciale, Milano, 2003