Sull'estensione analogica dell'art. 384, comma 1, c.p.

27 Maggio 2021

Il contributo commenta la sentenza delle Sezioni Unite n. 10381/2020, che ha stabilito l'estensibilità per analogia al convivente more uxorio della scusante prevista dall'art. 384, comma 1, c.p. La questione, già sottoposta più volte al vaglio della Corte Costituzionale, era stata ritenuta infondata o inammissibile, pur riconoscendo come la posizione del convivente di fatto, anche se non necessariamente corrispondente a quella del coniuge legittimo, meritasse...
Abstract

Il contributo commenta la sentenza delle Sezioni Unite n. 10381/2020, che ha stabilito l'estensibilità per analogia al convivente more uxorio della scusante prevista dall'art. 384, comma 1, c.p. La questione, già sottoposta più volte al vaglio della Corte Costituzionale, era stata ritenuta infondata o inammissibile, pur riconoscendo come la posizione del convivente di fatto, anche se non necessariamente corrispondente a quella del coniuge legittimo, meritasse una tutela ai fini dell'art. 384, comma 1, c.p. Le Sezioni Unite sanciscono l'estensione analogica, assumendo che l'art. 384, comma 1, c.p. non rappresenti una causa di non punibilità, bensì una scusante. In quanto tale, non costituisce una norma eccezionale ricompresa nella preclusione disposta dall'art. 14 preleggi. Il commento è criticamente adesivo.

La questione controversa

La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite si prospettava con lineare semplicità, ma era di soluzione tutt'altro che semplice. Si trattava di decidere se l'art. 384, comma1, c.p., che prevede – com'è noto – la non punibilità per una serie di reati contro l'amministrazione della giustizia commessi da un soggetto «costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore», fosse applicabile anche al convivente more uxorio. Sul tema si era infatti profilato un contrasto giurisprudenziale (puntualmente ricostruito dalla sentenza delle Sezioni Unite) che viene ora risolto in favore dell'orientamento minoritario, ritenendo la disposizione «applicabile analogicamente» al convivente more uxorio.

Ricorre dunque un dichiarato caso di analogia, che costituisce – come tradizionalmente si insegna - un procedimento di integrazione dell'ordinamento esperito dal giudice quando, in difetto di una «precisa disposizione» applicabile, per risolvere il caso si debba ricorrere «a disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe» (art. 12, comma 2, preleggi). Preclusa per le norme penali incriminatrici (la cui applicazione ultra vires è tutt'altro che ignota, ma è sempre pudicamente presentata come interpretazione ‘estensiva'), è viceversa consentita, in linea di principio, per le norme penali favorevoli, con la pesante riserva che non si tratti di leggi «che fanno eccezione a regole penali o ad altre leggi» (art. 14 preleggi).

La posizione della Corte Costituzionale

Come dà atto la perspicua motivazione, la questione era stata più volte, e da diversi angoli visuali, sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale; con esito costantemente negativo. Pur ammettendo che la convivenza more uxorio possa esprimere esigenze di tutela non dissimili da quelle riconosciute al matrimonio, la Corte Costituzionale ha sempre respinto le eccezioni di volta in volta sollevate.

Allorché veniva invocata la sostanziale parificazione tra convivenza di fatto e vincolo matrimoniale, la Corte (sentenza n. 237/1986) obiettava che il rapporto di fatto è privo «delle caratteristiche di certezza e di stabilità, proprie della famiglia legittima». Se si considerava invece l'esigenza di evitare una discriminazione irragionevole in danno di un rapporto consolidato cui pure doveva essere riconosciuta rilevanza costituzionale in quanto formazione sociale ove si esprimono «intrinseche manifestazioni solidaristiche», si obiettava che la prospettiva di tutela «trascende – e proprio per l'esigenza di una complessa chiarezza normativa – i ristretti termini del caso, rivolto al mero intento di parificare il binomio coniuge/convivente in presenza dei reati richiamati dall'art. 384 c.p.». In sostanza, la parificazione ‘frammentaria' avrebbe introdotto nel sistema un elemento di incoerenza, rispetto alla variegata serie di istituti processuali rispetto ai quali assume rilevanza la qualità di prossimo congiunto. Una «regolamentazione esaustiva», necessariamente ispirata a soluzioni «di natura discrezionale», non avrebbe potuto essere adottata dalla Corte «senza invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel razionale esercizio di un potere che il solo legislatore è chiamato ad esercitare».

Per verità, l'atteggiamento della Corte sembrava assumere un carattere elusivo. In effetti, una volta riconosciuto che la convivenza di fatto, in quanto formazione sociale rilevante ex art. 2 Cost., esprime una solidarietà intrinseca del tutto assimilabile a quella del vincolo matrimoniale, in rapporto alla situazione tipica dell'art. 384, comma 1, c.p., è arduo comprendere come e perché una eventuale pronuncia additiva della Corte costituzionale in quell'ambito definito potesse determinare nel sistema distonie o lacune di qualche sorta.

Peraltro la Corte, nuovamente investita della questione (sentenza n. 8/1996), pur insistendo nel ribadire che l'equiparazione del convivente di fatto al coniuge nell'ambito dell'art. 384, comma 1, c.p. aprirebbe «il problema dell'equiparazione in tutti gli altri numerosi casi di previsioni legislative […], che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più diversi campi del diritto, all'esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo familiare», sposta il tiro anche su una obiezione di ben diversa natura. L'art. 384, comma 1, c.p. sarebbe infatti una delle cause di non punibilità, che «costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali», fondate su «un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primieramente al legislatore». Sulla stessa, identica linea argomentativa si schiera, infine, la sentenza n. 140/2009, che sembra frustrare definitivamente ogni ulteriore tentativo di risolvere la questione sul terreno della legittimità costituzionale.

(Segue). Cause di non punibilità e divieto di analogia

Le Sezioni Unite hanno quindi ricevuto una questione che risultava in apparenza, tanto "pregiudicata" da non lasciare adito a pertugi. Infatti, per quanto può interessare direttamente il giudice chiamato a definire i termini di applicazione della disposizione, il filo argomentativo svolto dalla Corte Costituzionale risultava breve, ma sufficiente per un cappio: se l'art. 384, comma 1, c.p. prevede una causa di non punibilità, non v'è dubbio che si profila all'orizzonte una norma che «strutturalmente» (come nota la sentenza n. 8/1996) fa eccezione una norma generale, quella incriminatrice, derogata per l'appunto in funzione di una valutazione di opportunità. Si tratta – ritiene la sentenza n. 140/2009, riportandosi alla sentenza n. 8/1996 - «di mettere a confronto l'esigenza della repressione di delitti contro l'amministrazione della giustizia […], da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall'altro», peraltro in rapporto a situazioni non del tutto coincidenti: «posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve […] coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici».

In buona sostanza, la Corte costituzionale finisce col ricondurre l'art. 384, comma 1, c.p. nell'orbita dell'art. 14 preleggi, dalla quale avrebbe certo potuto sottrarla, se avesse ritenuto fondata l'eccezione di incostituzionalità, ma nella quale essa resta vincolata una volta il giudice debba farne applicazione ad un caso concreto. Una causa di non punibilità è intrinsecamente inestensibile per analogia, perché, derogando alla regola generale della punibilità sancita dalla norma incriminatrice, è eccezionale in rapporto ai casi che contempla; mentre, per converso, il caso ch'essa non contempla non può, per definizione, costituire una lacuna nell'ordinamento, essendo, in realtà, immediatamente soggetto alla disciplina della norma generale.

L'escamotage delle Sezioni Unite

Il piano di ribaltamento proposto dalle Sezioni Unite è costituito da una qualificazione radicalmente diversa dell'esclusione di pena sancito dall'art. 384, comma 1 c.p.: non una causa di non punibilità, ma una scusante speciale, e cioè una causa di esclusione della colpevolezza.

Richiamando implicitamente, ma univocamente, la concezione normativa della colpevolezza, le Sezioni Unite identificano le scusanti «nelle ipotesi in cui l'agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l'ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo». In questo senso, l'art. 384, comma 1, c.p. «non si basa su considerazioni di mera opportunità», «ma tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta ‘alterato', tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico».

La qualificazione così delineata non si riduce ad un dato formale. Essa consente, infatti, di «escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall'art. 14 preleggi – che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost., comma 1, sotto il profilo della necessaria valutazione delle possibilità per il soggetto di poter agire diversamente».

Questioni problematiche

I punti problematici della decisione adottata sono evidentemente due, il primo consiste nella qualificazione dell'art. 384, comma 1, c.p. in termini di scusante; una volta risposto positivamente al quesito, il secondo consiste nel verificare l'ammissibilità di un'estensione analogica.

Per quanto concerne la qualificazione, è noto che la distinzione tra cause di giustificazione, scusanti e cause di non punibilità non è sempre agevole, né tracciabile con la sicura precisione di un rasoio. In linea di larga massima, si può dire che le cause di giustificazione corrispondono a regole di condotta rivolte all'agente, alternative a quelle imposte dal precetto penale e basate sulla prevalenza di un interesse, ritenute in astratto (come nel caso dell'esercizio di un diritto), o riscontrata in concreto (come nel caso della difesa legittima), rispetto all'interesse tutelato dalla norma incriminatrice. Le scusanti rappresentano, invece, regole di giudizio che il giudice è chiamato ad applicare al caso concreto quando il processo di motivazione si sia svolto in presenza di fattori, normativamente definiti, ritenuti capaci di alterarne la formazione o lo sviluppo, sul piano intellettuale o su quello volitivo, a seconda del tipo di scusante. Si tratta, in buona sostanza, di fattori espressivi dell'inesigibilità in concreto di un comportamento osservante.

Le cause di non punibilità si riferiscono, invece, alle ipotesi in cui l'esclusione della sanzione penale procede da valutazioni esterne al reato ed alla colpevolezza del suo autore, basate sul bisogno concreto di pena o sulla opportunità della sua inflizione. L'art. 649 c.p. ne è un esempio paradigmatico: il furto in danno del coniuge convivente è dichiarato non punibile non già per la prevalenza di un indefinito interesse di natura ‘familiare' sull'interesse al possesso dei propri beni, né tanto meno per una qualche considerazione del processo motivazionale, ma soltanto perché l'autonomia organizzativa della compagine familiare sconsiglia processi di criminalizzazione correlati alla gestione del patrimonio: a definire: limiti eventualmente infranti è sufficiente il ricorso alla legge civile.

Il "conflitto di coscienza"

Nel caso dell'art. 384, comma 1, c.p. non si tratta certo di risolvere un conflitto tra interessi contrapposti, bensì di attribuire rilevanza a un conflitto di coscienza. La falsa testimonianza del padre per sottrarre il figlio alla condanna può riferirsi alla più risibile delle bagattelle come al più orrendo dei crimini: ciò che rileva non è la posta in gioco per l'ordinamento, ma la posta in gioco per il padre, e cioè il conflitto di coscienza che la situazione gli prospetta.

La tenzone si riduce allora all'alternativa tra causa di non punibilità e scusante; ma è quest'ultima a dover prevalere. In effetti, occorre notare come il primo asse della disposizione ruoti intorno all'esigenza di salvare sé medesimo. Quando il delitto contro l'amministrazione consiste in condotte variamente atteggiate come omissive od elusive di dichiarazioni idonee ad incriminare chi le rende, o volte a modificare uno stato di fatto pregiudizievole per le sorti processuali dell'agente, il fondamento della non punibilità si basa sull'esigenza di salvaguardare il nemo tenetur se detegere. Il principio secondo cui nessuno è tenuto a cooperare alla propria condanna (per lo meno – secondo la giurisprudenza della CEDU (17.12.1996, n. 19187/91, Saunders c. Regno Unito - rispetto alle prove che dipendono dalla sua volontà), trae a sua volta il proprio fondamento dall'esigenza di garantire la libertà morale dell'individuo, senza il cui rispetto lo stesso diritto di difesa risulterebbe vanificato. Imporre all'imputato di risolvere il conflitto tra la propria salvezza e l'efficienza della procedura repressiva, assicurando la seconda a scapito della prima, significherebbe, né più né meno, che legittimare la tortura. Dopo la sua formale abolizione, del resto, essa trovò in numerosi ordinamenti una diuturna forma di sopravvivenza nel dovere imposto all'imputato, e presidiato da sanzione penale, di dichiarare il vero al proprio inquisitore.

Ricondotta nel contesto di un conflitto di coscienza, è allora evidente che la non punibilità sancita dall'art. 384, comma 1, c.p. riconosce una situazione di inesigibilità della condotta osservante, e ruota dunque nell'orbita della colpevolezza. Ma se tale è il fondamento in rapporto alla posizione della persona direttamente coinvolta, identico dovrà risultare rispetto ai suoi prossimi congiunti, ai quali viene riconosciuta una condivisione piena del conflitto di coscienza, in forza dei vincoli di solidarietà che li uniscono a chi versa in pericolo di nocumento.

L'estensione analogica della scusante

Si tratta tuttavia di stabilire se, ed a quali condizioni, una scusante possa essere estesa per analogia oltre i limiti da essa normativamente definiti. L'aggancio all'inesigibilità come limite alla «normalità» della motivazione, rischia, infatti, di risultare esiziale. È superfluo richiamare in proposito la diatriba insorta in Germania circa un secolo fa (e successivamente ripresa anche in Italia), circa il riconoscimento di una sorta di clausola generale di inesigibilità della condotta osservante ogni qual volta non possa ragionevolmente pretendersi che il soggetto adegui la propria condotta al precetto normativo. Una scusante tanto estesa ridurrebbe l'efficacia precettiva della norma incriminatrice all'azzardo del caso per caso, dato che il canone di valutazione non è né tracciato, né tracciabile.

Un inconveniente analogo rischia peraltro di verificarsi ogni qualvolta si prospetti l'estensione analogica di una qualche specifica scusante: dell'art. 384, comma 1, c.p. si potrebbe, ad esempio, postulare un'ulteriore estensione per vincoli di diuturna e fraterna amicizia, o in nome di una intensa comunione spirituale di natura religiosa, politica, o in presenza di un inestinguibile debito di riconoscenza per l'assistenza ricevuta in un drammatico frangente. I possibili conflitti di coscienza possono assumere i connotati più diversi, e presentarsi con intensità e forza motivante del tutto simili a quelli di una convivenza more uxorio.

Colpevolezza come rimproverabilità

In proposito, giova sgombrare preliminarmente il campo da una nota di "psicologismo"' che si infiltra nella pur perspicua motivazione delle Sezioni Unite, là dove si identifica «la ragione della non punibilità» «nella particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto», in quanto l'ordinamento prenderebbe in considerazione «i riflessi psicologici esistenziali che il soggetto si trova a vivere». In questo senso, l'art. 384, comma 1, c.p. tipizzerebbe «una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta 'alterato', tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico».

Si tratta di un'impostazione ispirata alle "correzioni" che Frank (cui – come è noto – si deve la prima elaborazione del concetto normativo di colpevolezza) apportò alla originaria rilevanza delle circostanze concomitanti concernenti il processo motivazionale. Nella prima versione esse accompagnavano in termini obiettivi la condotta dell'agente, ma – si replicò – per assumere rilevanza sul piano della colpevolezza, esse dovevano poter assumere una valenza anche personale e, quindi, soggettiva. La suggestione dell'argomento indusse allora Frank a sostituire il criterio della «normalità» delle circostanze concomitanti con quello dell'«influenza» ch'esse avrebbero dovuto assumere sulla psiche dell'agente.

Si retrocedeva così verso schemi di imputazione psicologica sostanzialmente privi di senso in termini di giudizio di rimproverabilità: nell'appropriazione del cassiere ben pagato che sottrae somme da destinare al gioco, il rimprovero di colpevolezza si incrementa non già perché la motivazione sia stata influenzata dall'essere benestante, ma perché il reato è stato commesso nonostante tale condizione personale. In seguito, del resto, lo stesso Frank recuperò un concetto di «normale motivazione» correlata alla «signoria del fatto», e cioè alla «posizione dell'agente nel mondo circostante»: in sostanza la situazione personale nella quale si è trovato ad agire.

L'idea della colpevolezza come rimproverabilità anima anche la riflessione sulle componenti del fatto tipico, in cui vengono individuati elementi obiettivi di colpevolezza che, pur se espressi in termini obiettivi nel contesto di una fattispecie incriminatrice, non concorrono a delineare né il confine tra il lecito e l'illecito, né un profilo dell'offesa, ma solo esprimono un diverso grado di colpevolezza dell'agente (come, ad esempio, l'«immediatamente dopo il parto», intorno a cui ruota il titolo privilegiato di infanticidio ex art. 578 c.p.).

L'ambito nel quale gli elementi obiettivi di colpevolezza occupano uno spazio privilegiato è tuttavia rappresentato proprio dalle scusanti, nelle quali i limiti dell'inesigibilità (che pure è il loro fondamento), non possono essere dedotti da scavi psicologici o indagini interiori dall'incerto statuto e dalla scarsa plausibilità, ma assumono invece connotati obiettivi. Per dar corso all'applicazione dell'art. 384, comma 1, c.p. non si tratta di stabilire se e quanto l'agente sia stato motivato dalla situazione di necessità. Ciò che conta e rileva è innanzitutto la sussistenza dei presupposti necessitanti: la necessità di salvare un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore. La necessità delinea un nesso di strumentalità tra la condotta tenuta e lo scopo indicato, mentre la costrizione, che collega la situazione necessitante al reato commesso, si identifica con l'assenza di una qualche alternativa ragionevole per evitare il nocumento; essa non postula certo l'identificazione di moventi interiori indotti da un impulso ‘cogente' (da accertarsi poi con quali strumenti e da definirsi secondo quali parametri di intensità?). Il modello della «normale» motivazione è alterato per la presenza stessa di questa situazione personale, accertata nei limiti della sua evidenza obiettiva.

In questo contesto la qualità di prossimo congiunto assume la portata di elemento 'catalizzatore' dell'inesigibilità; la quale, in linea astratta e di principio, potrebbe riguardare una schiera eterogenea di soggetti, ma si precisa normativamente in quel solo rapporto definito.

In sostanza, la regola di giudizio si sviluppa secondo un semplice schema presuntivo. Dalla situazione necessitante, nota e definita, l'induzione di inesigibilità è sorretta dalla qualità di prossimo congiunto, in quanto sintomatica di un'adesione solidaristica alla posizione del soggetto a rischio di nocumento. Mentre sarebbe inconcepibile estendere analogicamente i presupposti necessitanti (ad es., postulando l'applicazione della scusante anche per nocumenti alla riservatezza o addirittura al patrimonio), nulla sembra opporsi all'estensione analogica dell'elemento obiettivo di colpevolezza con cui si esprime il canone di inesigibilità. Nel primo caso si finirebbe infatti col dar vita ad una scusante atipica, ispirata all'indefinito criterio dell'inesigibilità, mentre nel secondo ci si limita a recepire l'indicazione sintomatica, assumendola come criterio di identificazione di situazioni corrispondenti, a condizione – come notano le Sezioni Unite - che «la situazione di ‘convivenza' risulti in base ad elementi di prova rigorosi».

In conclusione

Si potrebbe tuttavia continuare ad obiettare l'assenza di lacune da colmare, e quindi il venire meno del presupposto dell'integrazione analogica: l'ipotesi regolata dall'art. 384, comma 1, c.p. non continua forse a fare eccezione alla regola generale circa la punibilità dei reati ad essa indicati?

Le Sezioni Unite escludono – come si è detto – la valenza eccezionale della norma, «perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. comma 1». Si potrebbe tuttavia replicare che i principi generali si traducono in norme positive, e sono queste che intrattengono i rapporti da regola ad eccezione. Il punto tuttavia è: dove sta la regola e dove sta l'eccezione?

Se fosse punibile il fatto di chi, avendo commesso un reato, rende false informazioni all'Autorità giudiziaria, non ricorrerebbe forse una grave eccezione a regole di diritto di varia fonte che traducono in norma positiva il principio nemo tenetur se detegere? In questa prospettiva eda questo punto di vista l'art. 384, comma 1, c.p. èdirettamente ed immediatamente espressivo della regola generale. Ma se è così, quel che vale per il diretto interessato non può non valere anche per i soggetti che a lui si affiancano in un contesto di parificazione normativa, in nome del vincolo solidaristico che li unisce.

La strada dell'analogia è dunque senza ostacoli, e bene hanno fatto le Sezioni Unite a percorrerla. Con meno sforzi argomentativi e con maggior sicurezza normativa avrebbe potuto a suo tempo attingere un omologo risultato la Corte costituzionale, con una normale sentenza additiva. Peccato per chi a suo tempo ha dovuto pagare lo scotto del diniego; buon per noi, invece, che abbiamo potuto assistere ad una partita così inusuale e così stimolante.

Guida all'approfondimento

A. BARATTA, Antinomie giuridiche e conflitti di coscienzaContributo alla filosofia e alla critica del diritto penale, Milano 1963;

G. VASSALLI, Analogia nel diritto penale, in Dig. disc. pen., I, Torino 1987, p. 158 s.;

G. FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova 1990;

E. MEZZETTI, «Necessitas non habet legem?» - Sui confini tra “impossibile” ed “inesigibile” nella struttura dello stato di necessità, Torino 2000;

F. VIGANÒ, Stato di necessità e conflitti di doveri – Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano 2000;

E. VENAFRO, Scusanti, Torino 2002;

A. NISCO, Neokantismo e scienza del diritto penale – Sull'involuzione autoritaria del pensiero penalistico tedesco nel primo Novecento, Torino 2019;

T. PADOVANI, Gli elementi obiettivi di colpevolezza, in Arch. Pen. 2021, fasc. 1.

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