Il recesso della banca dal rapporto di apertura di credito: correttezza e buona fede

28 Maggio 2021

Il recesso dal rapporto di apertura di credito con la richiesta di restituzione dell'importo finanziato e la sospensione di ulteriore credito, da parte della banca, è lecito quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale, né essa sia censurabile alla stregua del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni addotte dalla banca.
Massima

Il recesso dal rapporto di apertura di credito con la richiesta di restituzione dell'importo finanziato e la sospensione di ulteriore credito, da parte della banca, è lecito quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale, né essa sia censurabile alla stregua del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni addotte dalla banca. Grava sulla parte, la quale assume l'illegittimità del recesso per arbitrarietà e contrarietà al principio di buona fede, l'onere di enunciarne le ragioni e di fornire la relativa prova, dovendo il debitore, il quale agisca per far dichiarare arbitrario l'atto di recesso di una banca dal rapporto di affidamento di credito per violazione della buona fede, dedurre e provare che le giustificazioni date dalla banca non risultino ragionevoli.

Il caso

Il ricorso per cassazione è incentrato sulla questione del recesso della banca dal rapporto di apertura di credito e del sindacato giudiziale sull'esercizio di tale facoltà da parte dell'istituto di credito. In particolare, è in discussione la legittimità del recesso operato dalla banca rispetto agli standard di correttezza e buona fede cui sono tenuti i contraenti.

La questione

La disciplina del recesso dal contratto di apertura di credito è prevista dall'art. 1845 c.c., che distingue tra i contratti a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato. Nel primo caso, banca e cliente possono recedere (ad nutum) in qualsiasi momento mediante un preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni. Nel secondo caso (c.d. contratto “a scadenza”), la banca – salvo patto contrario – non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per “giusta causa”; in tale ultima ipotesi, l'effetto del recesso è quello di sospendere immediatamente l'utilizzo del credito (affidamento), ma la banca deve concedere un «termine di almeno 15 giorni» per la restituzione delle somme e dei relativi accessori (c.d. rientro).

Il recesso ha dunque due diversi effetti: la sospensione della disponibilità del fido (efficacia estintiva del recesso) e l'obbligo di rientro da parte del cliente. Secondo la disciplina codicistica, nelle aperture di credito “a scadenza”, l'effetto sospensivo della revoca opera immediatamente, mentre risulta differito l'obbligo di rientro (restituzione delle somme utilizzate e relativi accessori); nei contratti di apertura di credito a tempo indeterminato entrambi gli effetti (sospensione della disponibilità del fido e obbligo di rientro) sono di regola differiti al termine del periodo di preavviso (ma se il recesso è per “giusta causa”, la sospensione dell'utilizzo del credito è immediata).

La disciplina codicistica (art. 1845 c.c.) è derogabile dall'autonomia contrattuale delle parti (recesso convenzionale).

Sono quindi valide, nei contratti a tempo determinato, le deroghe alla necessità della giusta causa per il recesso, così come la tipizzazione di tale requisito (fatti, eventi e situazioni prestabiliti), oppure, nei contratti a tempo indeterminato, la riduzione o l'azzeramento del termine di preavviso (non è comunque unanimemente ammessa la facoltà, da parte dell'autonomia privata, di eliminare in toto il preavviso previsto dall'art. 1845, comma 3, c.c., salva la sussistenza di una giusta causa). In definitiva, la banca si riserva convenzionalmente la libertà di recedere dal rapporto anche in assenza di una giusta causa e senza preavviso, con conseguente sospensione immediata dell'utilizzo del credito concesso, con assegnazione di termini per la restituzione delle somme utilizzate inferiori ai 15 giorni previsti dall'art. 1845, comma 2, c.c.

L'autonomia delle parti trova però limite nel principio di correttezza e buona fede, il quale deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (ex multis Cass., Sez. Un., n. 28056/2008). La Banca non può quindi esercitare il potere di recesso (anche se ad nutum) con modalità improvvise o arbitrarie, dovendo altrimenti rispondere dei danni causati.

Le soluzioni giuridiche

La giurisprudenza di legittimità, il cui orientamento è ribadito dall'ordinanza in commento, ha reiteratamente affermato che il recesso dal contratto di apertura di credito costituisce una facoltà riconosciuta dall'art. 1845 c.c., sicché risulta adeguatamente motivato anche attraverso il mero richiamo a quella norma; è invece la parte che assume l'illegittimità del recesso (ad esempio per arbitrarietà e contrarietà al principio di buona fede) che ha l'onere di enunciarne le ragioni e di fornire la relativa prova nel caso concreto (Cass. n. 6186/2008; Cass. n. 29317/2020; v. anche App. Potenza 14.12.2018).

Qualora un contratto preveda il diritto di recesso “ad nutum” in favore di una delle parti, il giudice del merito non può esimersi – per il semplice fatto che i contraenti hanno previsto espressamente quella clausola in virtù della loro libertà e autonomia contrattuale – dal valutare se l'esercizio di tale facoltà sia stato effettuato nel pieno rispetto delle regole di correttezza e di buona fede cui deve improntarsi il comportamento delle parti del contratto. Come rimarcato dalla decisione in commento, per tutti i diritti e le facoltà previsti dalla legge o dal contratto, la clausola generale della buona fede esige l'esercizio leale del diritto di recesso, che deve essere posto in essere senza che nessuna condotta abusiva, o tale da pregiudicare ingiustificatamente gli interessi dell'altro contraente, venga realizzata, ai sensi degli artt. 1175, 1375 c.c.; tali clausole generali hanno, com'è noto, il loro substrato ultimo nella Carta costituzionale (artt. 2, 3, 41 Cost.); come tali, esse trovano dunque senz'altro applicazione anche nei rapporti bancari.

La mancanza della buona fede in senso oggettivo, espressamente richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c. nella formazione e nell'esecuzione del contratto, può rivelare, infatti, un abuso del diritto, pure contrattualmente stabilito, ossia un esercizio del diritto volto a conseguire fini diversi da quelli per i quali il diritto stesso è stato conferito. Conseguenzialmente, accertato l'abuso, può sorgere il diritto al risarcimento dei danni subiti. Tale sindacato, da parte del giudice di merito, deve essere esercitato in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici.

Tanto premesso, la Corte di cassazione ha fornito utili indicazioni per verificare quando il recesso della banca dal rapporto di affidamento in conto corrente sia legittimo, ovverosia non arbitrario e/o imprevisto:

– in caso di recesso di una banca dal rapporto di credito a tempo determinato in presenza di una ‘giusta causa' tipizzata dalle parti del rapporto contrattuale, il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell'ipotesi tipica di giusta causa ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie (ad. es., in assenza di inadempimenti, indici di insolvenza o sconfinamenti), tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all'assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un'apertura di credito viene normalmente convenuta (Cass. n. 4538/1997: alla stregua del principio secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; Cass. n. 9321/2000; Cass. n. 17291/2016; in argomento v. anche, tra le molte, ABF Napoli n. 3368/2017);

– il debitore il quale agisca per far dichiarare arbitrario l'atto di recesso di una banca dal rapporto di affidamento di credito e, in particolare, per far affermare che il recesso non sia stato rispettoso della regola della “giusta causa” (in quanto prevista dal contratto stipulato dalle parti) ha l'onere di allegare che le giustificazioni date dalla banca non risultano ragionevoli, dimostrando, ad es., la sufficienza della propria garanzia patrimoniale, così come residuata dopo gli atti dispositivi compiuti (Cass. n. 4538/1997; Cass. n. 17291/2016);

– la Banca, evidenzia l'ordinanza della Cassazione, per esercitare il suo diritto di recesso, ovviamente, non deve accertare (e dimostrare) che sussista un vero e proprio stato di insolvenza dei debitori in quanto, in tal modo si richiederebbe ad essa, irragionevolmente, di recuperare il proprio credito quando questo sia divenuto addirittura irrecuperabile; nel dubbio sulla valutazione del patrimonio residuo, ed in mancanza di ulteriori allegazioni di allarme circa la solvibilità dei debitori, il giudice deve quantomeno disporre una CTU estimativa, allo scopo di verificare, sia pure indirettamente, l'affermazione dell'esistenza di indici apprezzabili relativi al comportamento arbitrario della banca.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato, dunque, che la banca deve esercitare il diritto di recesso in conformità ai principi di correttezza e di buona fede (espressione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.). Qualora, invece, il recesso sia esercitato in violazione dei citati principi di correttezza e buona fede, si configura un'ipotesi di “abuso del diritto”, inteso quale limite funzionale all'esercizio dello stesso, da cui scaturisce l'obbligo di risarcire il danno causato dal c.d. “recesso abusivo”. Ai fini della valutazione dell'esercizio del recesso da parte della Banca, si deve verificare se lo stesso rappresenti la naturale conseguenza di una complessiva valutazione del merito creditizio, che gli intermediari sono tenuti a effettuare, nel qual caso è esercitato in modo legittimo; diversamente, quando il recesso è invece frutto di scelte ex abrupto da parte dell'istituto di credito, lo stesso è esercitato in modo irragionevole.

È giustificato il recesso in presenza di condotte, poste in essere dal cliente, idonee ad incrinare la fiducia nei successivi adempimenti ai propri obblighi. In un rapporto come quello di apertura del credito bancario in conto corrente, è proprio il grado di solvibilità del cliente ad orientare legittimamente le scelte della banca circa il mantenimento o la revoca degli accreditamenti concessi, a fronte di comportamenti e circostanze tali da legittimare, secondo le regole degli affari, l'allarme dell'istituto di credito sulla solvibilità del cliente, e, quindi, da giustificare la legittima revoca degli affidamenti. Appare invece censurabile la condotta dell'istituto bancario che, a fronte di fatti solo pretestuosamente allegati o non rispondenti al vero o ai reali interessi della banca, provveda in modo arbitrario e scorretto alla revoca degli affidamenti, recedendo dal rapporto di apertura dì credito.

In definitiva, il recesso dal rapporto di apertura di credito con la richiesta di restituzione dell'importo finanziato e la sospensione di ulteriore credito, da parte della banca, è lecito quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale, né essa sia censurabile alla stregua del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni addotte dall'istituto bancario.

Resta da aggiungere che, trattandosi di violazione della regola della buona fede in executivis, l'integrazione della fattispecie del diritto di recesso e l'esercizio dello stesso sono in sé idonei a por fine al rapporto, mentre l'inadempimento a tale fondamentale canone comporterà unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca, che la regola abbia violato.

Conclusioni

La giurisprudenza di legittimità è ormai ferma nel ritenere che il recesso dal rapporto di apertura di credito, da parte della banca, è legittimo quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale nonché del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni dall'istituto addotte. La Banca non può esercitare il potere di recesso (anche se ad nutum) con modalità improvvise o arbitrarie, dovendo altrimenti rispondere dei danni causati.

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