Sull'abuso del processo esecutivo

Giuseppe Lauropoli
17 Giugno 2021

Una volta qualificato l'abuso del processo come un utilizzo distorto dello stesso e in violazione del generale principio di solidarietà, diventa evidente come tale ipotesi non possa essere relegata al solo caso di frazionamento del credito, ma si presti a trovare applicazione in molti altri casi. E' il caso, per l'appunto, dell'esecuzione intrapresa per la riscossione di crediti di modestissima entità, oggetto della pronuncia in commento.
Massima

Se il debitore ha l'obbligo di adempiere puntualmente la propria obbligazione (imposto dall'art. 1176 c.c.), il creditore ha quello non meno cogente (imposto dall'art. 1175 c.c.) di collaborare col creditore per facilitarne l'adempimento; di non aggravare inutilmente la sua posizione; di tollerare quei minimi scostamenti nell'esecuzione della prestazione dovuta che siano insuscettibili di arrecargli un apprezzabile sacrificio. Il creditore il quale, violando tali precetti, introduca un giudizio vuoi di cognizione, vuoi di esecuzione, il quale altro scopo non abbia che far lievitare il credito attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, compie un abuso del processo, il quale comporta l'inammissibilità della domanda sia in sede di cognizione, sia in sede di esecuzione, sia in sede di impugnazione.

Il caso

La questione che veniva sottoposta all'esame della Cassazione nella pronuncia in commento può riassumersi come segue.

Un soggetto vantava un credito, a titolo di spese di lite liquidate con sentenza del Giudice di pace di Roma, di 60 euro (oltre accessori) nei confronti di Roma Capitale.

Il creditore provvedeva dunque alla notifica del titolo all'ente locale, il quale entro il termine di centoventi giorni dalla notifica del titolo provvedeva ad emettere mandato di pagamento in favore del creditore per un importo di euro 82,62.

Il creditore, tuttavia, non riscuoteva tale credito e, a distanza di molti mesi dalla emissione del mandato di pagamento, avviava azione esecutiva per la riscossione di un credito complessivo di euro 622,32, il cui pagamento aveva intimato con atto di precetto.

Contro tale esecuzione proponeva opposizione l'ente esecutato e la stessa veniva definita, nel merito, con pronuncia di pieno accoglimento della opposizione da parte del Giudice di pace.

Tale pronuncia veniva appellata, ma il Tribunale respingeva l'appello, ritenendo l'insussistenza del diritto dell'esecutante a procedere ad esecuzione forzata.

Veniva dunque proposto ricorso per cassazione, rilevando, nella sostanza, come il pagamento proposto da Roma Capitale fosse stato del tutto legittimamente rifiutato, atteso che lo stesso doveva ritenersi soltanto come parziale, avendo omesso l'ente locale di includere nella somma proposta a tacitazione del credito un importo di euro 5,30 relativo ad esborsi successivi al deposito della sentenza ma comunque certamente spettanti.

La questione

Diverse le questioni di interesse nella pronuncia in commento, dal momento che la stessa viene a trattare un caso piuttosto ricorrente nella prassi delle esecuzioni forzate.

Una prima questione che sembra profilarsi è quella concernente l'esatta identificazione del credito nascente da un titolo esecutivo giudiziale: tale credito comprende solo le somme liquidate nel titolo, ovvero anche le spese che la parte abbia sostenuto successivamente al deposito dello stesso (si pensi alle spese per il rilascio di copia del titolo e per la notifica dello stesso)?

L'altra questione che pare sottesa alla pronuncia resa dai giudici di legittimità, concerne l'eventuale sussistenza di limiti alla possibilità, per il creditore, di rifiutare un adempimento parziale, allorché la differenza fra il pagamento proposto e il credito effettivamente spettante sia di importo davvero minimo.

Ma tali questioni, a ben vedere, restano sullo sfondo della pronuncia in questione, atteso che le stesse vengono, per così dire, assorbite, dalla più ampia tematica dell'abuso del processo esecutivo.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso del creditore viene dichiarato inammissibile dalla Corte, innanzi tutto, sotto il profilo della carenza di specificità dello stesso, evidenziando come dall'atto introduttivo non si evinca la modalità attraverso la quale la parte creditrice ha determinato in 622,32 euro la somma precettata, a fronte di un originario credito, sancito da titolo giudiziale, di 60 euro (oltre accessori).

Ma, sotto un secondo profilo, si ritiene lo stesso inammissibile anche con riguardo al ravvisato abuso del processo esecutivo.

La pronuncia passa così in rassegna i presupposti sulla base dei quali possa configurarsi un abuso del processo esecutivo, individuandoli in un requisito oggettivo (costituito dall'aver utilizzato lo strumento processuale «per fini diversi ed ulteriori da quelli suoi propri, ed illegittimi») ed in un requisito soggettivo (costituito dalla violazione dei generali doveri di correttezza e buona fede, sanciti dagli artt. 1175 e 1375 c.c.).

In particolare, la Corte evidenzia come il principio di buona fede imponga «al creditore di accettare l'adempimento anche inesatto, se lo scostamento rispetto a quanto dovuto sia minimo, ed insuscettibile di arrecare un apprezzabile pregiudizio all'interesse del creditore».

Ciò posto in linea generale - e dopo aver ricordato che l'abuso del processo esecutivo oltre ad essere stato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità in numerose pronunce, ha da ultimo ricevuto un riconoscimento anche normativo, ad opera dell'art. 2, comma 2-quinquies, lett. d), della l. 89/2001 – la Cassazione osserva come non possa che integrare una condotta abusiva l'aver rifiutato il pagamento parziale per la mancanza di un importo di cinque euro, salvo poi pretendere, mediante atto di precetto, una somma pari a circa dieci volte l'importo originariamente spettante.

Ne deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con condanna della parte istante alla rifusione delle spese di lite e al pagamento di un importo ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., essendo ravvisabili profili di mala fede, o quanto meno di colpa grave, nell'attività processuale intentata dal ricorrente.

Osservazioni

Un tema, quello dell'abuso del processo esecutivo, di indubbio interesse.

Tanto più, come si accennava poc'anzi, che nella prassi di molti uffici giudiziari è abbastanza frequente incorrere in procedure esecutive avviate per un credito originario solo di pochi euro.

La sentenza in commento, ad una prima lettura, potrebbe destare qualche perplessità.

Ad avviso di chi scrive, invece, deve ritenersi condivisibile nelle sue conclusioni, iscrivendosi peraltro in un indirizzo interpretativo, intrapreso dalla giurisprudenza di legittimità ormai da alcuni anni, che può considerarsi consolidato.

E così, in prima battuta, ci si potrebbe chiedere: una volta che sia accertato l'inesatto adempimento del debitore, non avendo lo stesso corrisposto un sia pur modesto importo di circa cinque euro, come si può negare all'avente diritto la possibilità di attivarsi per recuperare tale somma?

La domanda è legittima, ma forse sconta un errore di prospettiva, solo che si ponga mente al fatto che per recuperare un tale importo di modestissima entità si finisce per attivare un procedimento che al suo esito, tenendo conto delle spese di precetto e di esecuzione, produrrà un esborso per il debitore molto superiore alla somma originariamente non versata (nel caso esaminato dalla Cassazione, a fronte di una somma impagata di circa 5 euro, il creditore avrebbe ricevuto l'assegnazione, all'esito del processo esecutivo, di circa mille euro).

E' dunque inevitabile che un meccanismo così congegnato, specie ove si abbia a che fare con un debitore che per la sua complessa struttura e per la sua articolata organizzazione abbia difficoltà a dare tempestivo ed esatto seguito ai pagamenti dovuti (è il caso di molti enti pubblici, ma non solo), si presti a forme di abuso finalizzate non tanto a recuperare somme obiettivamente spettanti (ad esempio i cinque euro oggetto della pronuncia che si annota), ma a conseguire un lucro che, nella ordinaria fisiologia dei rapporti fra debitore e creditore, apparirebbe obiettivamente ingiustificato.

La giurisprudenza di legittimità riconosce l'esistenza di un abuso del processo ogni qual volta lo strumento processuale venga utilizzato per finalità contrastanti con i principi generali di correttezza e buona fede e con l'inderogabile dovere di solidarietà sancito dall'art. 2 Cost. (si vedano, sul punto, Cass. civ., n. 13791/2008 e, poco prima, Cass. civ., sez. un., n. 23726/2007).

L'indirizzo giurisprudenziale espresso dalla due sentenze sopra citate si concentra, in particolare, sulla ipotesi di frazionamento del credito nel processo di cognizione.

Ma ad analoghe conclusioni giunge la Cassazione anche con riguardo alla ipotesi di frazionamento del credito realizzata nel processo esecutivo (Cass civ., n. 12246/2011).

Una volta qualificato, però, l'abuso del processo come un utilizzo distorto dello stesso e in violazione del generale principio di solidarietà costituzionalmente garantito, diventa evidente come tale ipotesi non possa essere relegata al solo caso di frazionamento del credito, ma si presti a trovare una ragionevole applicazione in molti altri casi.

E' il caso, per l'appunto, dell'esecuzione intrapresa per la riscossione di crediti di modestissima entità: caso oggetto della pronuncia in commento, ma sul quale la Cassazione già aveva avuto modo in precedenza di pronunciarsi con una sentenza che aveva suscitato vivaci reazioni, dal momento che nella stessa si finiva per affermare l'insussistenza del diritto a procedere ad esecuzione per crediti di modestissimo valore sul presupposto di una ravvisata carenza di interesse ad agire in via esecutiva (si veda Cass. civ., n. 4228/2015, recentemente confermata da Cass. civ., n. 24691/2020; quest'ultima, a ben vedere, costituisce in qualche modo un elemento di congiunzione fra la pronuncia del 2015 e quella del 2021 ora in commento).

Ma le ipotesi in cui può configurarsi un abuso dello strumento processuale sono potenzialmente illimitate, ogni qual volta venga in rilievo, come esposto in precedenza, un uso distorto del processo esecutivo, con evidenti ricadute sui principi del giusto processo e della sua ragionevole durata.

Certo, non mancano i motivi di perplessità: si tratta pur sempre di un istituto che, proprio per l'astratta applicabilità ad un numero illimitato e molto eterogeneo di casi, potrebbe prestarsi ad applicazioni eccessive e non giustificate.

Del resto, per restare all'ipotesi, affrontata nella sentenza in commento, di azione esecutiva intrapresa per la riscossione di un credito di modesta entità, ci si potrebbe del tutto legittimamente chiedere: qual è la misura del credito che deve ritenersi così modesta da non giustificare una autonoma azione esecutiva?

Ma forse anche una tale domanda è mal posta, perché l'abusività della condotta tenuta dal creditore che abbia intrapreso la procedura esecutiva va valutata alla stregua di una serie di parametri che possono manifestare l'intenzione dello stesso di conseguire un ingiustificato vantaggio e non certo sulla sola base della esigua entità del credito azionato in via esecutiva.

Altra questione che risulta non sempre di agevole soluzione è quella che concerne l'individuazione delle conseguenze da attribuire alla riscontrata condotta abusiva: ove l'attività esecutiva si connoti come un abuso dello strumento processuale, tale circostanza conduce alla caducazione della stessa procedura, oppure ha effetti limitati alla riduzione delle spese esecutive spettanti al creditore per l'attività intrapresa ?

Sul punto, la pronuncia della Cassazione n. 12246/2011, in precedenza citata, affermava che dal «riscontrato abuso delle strumento processuale non può tuttavia conseguire la sanzione dell'inammissibilità dei ricorsi, posto che non è l'accesso in sé allo strumento che è illegittimo ma le modalità con cui è avvenuto», con l'effetto che il riscontrato abuso «comporta l'eliminazione per quanto possibile degli effetti distorsivi dell'abuso» in particolare con riferimento alla quantificazione delle spese di precetto ed esecuzione.

In altre pronunce, tuttavia, il riscontrato abuso conduce alla radicale caducazione della procedura esecutiva, dal momento che viene ritenuta come del tutto ingiustificata la sua introduzione (è il caso della sentenza in commento).

Forse, volendo spostare lo sguardo verso una soluzione normativa delle criticità che la giurisprudenza in commento si sforza di affrontare in via interpretativa, si potrebbe immaginare di adeguare l'impianto normativo che regolamenta le attività prodromiche all'inizio dell'esecuzione forzata alle attuali condizioni economiche e tecnologiche: si potrebbe ipotizzare, così, l'obbligo per la parte che agisca per la riscossione del proprio credito fondato su titolo giudiziale di notificare, unitamente al titolo, una nota che indichi l'esatto importo da accreditare sul conto corrente del creditore (una disposizione normativa di questo genere, per la verità, già esiste, sia pur con ambito applicativo limitato soltanto ad alcuni crediti vantati nei confronti di enti previdenziali: si tratta dell'art. 38, comma 1, lett. c), del d.l. 98/2011, convertito con modificazioni in l. 111/2011): si eviterebbero in radice, in tal modo, i rischi di inesatto adempimento dovuto alla mancata corresponsione di somme di modesta entità.

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