Responsabilità professionale dell'avvocato e cause di medical malpractice
26 Ottobre 2021
Massima
“In tema di responsabilità professionale dell'avvocato, l'avvocato non è tenuto a risarcire il cliente nonostante la colpa professionale, quando la causa in tema di responsabilità medica non avrebbe avuto un probabile esito favorevole; il professionista resta invece obbligato al pagamento delle spese legali della Compagnia di assicurazioni evocata in giudizio in manleva”. Il caso
Nel caso di specie, un avvocato veniva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale competente, dal proprio ex cliente; quest'ultimo chiedeva il risarcimento del danno derivante dal presunto negligente svolgimento dell'incarico professionale espletato in una causa di malpractice sanitaria di cui era rimasto, asseritamente, vittima.
In particolare, a seguito degli esiti invalidanti di un intervento chirurgico per la riduzione di una frattura del femore sinistro presso l'Ospedale cittadino, il paziente aveva incaricato l'avvocato di instaurare una causa contro la struttura ospedaliera ed il medico responsabile. In seguito all'esito negativo della causa, l'uomo addebitava al proprio legale gravi negligenze nell'adempimento del mandato, affermando che egli avesse omesso di citare in giudizio il medico che lo aveva operato e avesse, altresì, indirizzato la domanda nei confronti dalla soppressa Usl di zona. A causa di ciò, secondo la tesi del cliente, era derivata la soccombenza. L'uomo citava, dunque, in giudizio il proprio avvocato, chiedendo il risarcimento del danno derivante dalla sua condotta professionale, asseritamente negligente. Nel corso del giudizio di primo grado veniva chiamata in manleva dal professionista convenuto la propria Compagnia di assicurazione per la responsabilità civile professionale.
Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo che non esistessero elementi per affermare che la causa per responsabilità medica avesse avuto qualsivoglia probabilità di successo. Tale decisione veniva confermata dalla Corte d'Appello, poiché, pur integrando colpa professionale l'aver proposto la domanda nei confronti dell'ente soppresso, non erano emersi elementi che consentissero una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole della controversia; oltretutto, la consulenza tecnica disposta dal giudice di merito aveva escluso la sussistenza del nesso causale tra la condotta dei sanitari e l'evento dannoso. La Corte d'Appello compensava, infine, le spese tra appellante e appellato in ragione della complessità della controversia, ma condannava l'appellato a rifondere le spese sostenute dalla Compagnia assicurativa chiamata in garanzia, in considerazione della palese infondatezza della reiterata domanda di manleva, stante la prescrizione del diritto azionato. La causa giungeva in Cassazione. La questione
Nella sentenza qui esaminata, la Suprema Corte si pronuncia sul tema della responsabilità professionale dell'avvocato e delle possibili conseguenze derivanti da un contenzioso portato a termine senza successo. In particolare, il quesito cui si vuole rispondere è il seguente: il cliente che assuma che il proprio avvocato non sia stato diligente nell'espletamento dell'incarico ha diritto al risarcimento del danno, considerato che la causa in cui l'avvocato ha prestato patrocinio non aveva alcuna chance di esito positivo?
Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte ritiene infondate le doglianze del ricorrente, giudicandole assolutamente generiche e non provate. Nel caso di specie, il ricorrente sosteneva che la Corte d'Appello avesse omesso di valutare sia le gravi invalidità derivati dall'intervento chirurgico, sia che la CTU medico-legale eseguita nel giudizio di primo grado - che verteva sulla contestata responsabilità sanitaria - contenesse vizi logici tali da consentire valutazioni e conclusioni diverse.
Essendo la responsabilità della struttura ospedaliera di natura contrattuale, spetterebbe ad essa, in qualità di debitore della prestazione, la prova di aver correttamente adempiuto, ovvero la prova di non aver potuto adempiere per causa a sé non imputabile. In forza di quanto sopra, la Corte d'Appello avrebbe, dunque, dovuto ritenere le suddette argomentazioni idonee a dimostrare la sussistenza di valide chance di successo dell'azione risarcitoria, malamente gestita dall'avvocato, prendendo atto della sola esistenza del contratto con la struttura sanitaria e del danno esitato.
Per quanto riguarda il tema della diligenza professionale, la Corte Suprema argomenta, in primo luogo, che la causa di medical-malpractice (ove l'avvocato aveva espletato le sue funzioni di patrocinatore) non avesse chance di accoglimento. A tal proposito, vengono richiamati i propri precedenti in tema di inadempimento delle obbligazioni di diligenza nella professionale sanitaria, affermando che il danno consta non già nella lesione dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell'interesse del creditore), ma discende dalla lesione del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicchè, laddove sia dedotta la responsabilità contrattuale della struttura per l'inadempimento della prestazione unitamente alla lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato (onere nel caso di specie, non assolto) provare il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare la causa imprevedibile e inevitabile, ovvero il corretto adempimento, ovvero la non imputabilità dell'inadempimento.
Anche in tema di spese processuali, la Suprema Corte si conforma alla propria costante giurisprudenza, affermando che l'infondatezza palese della domanda di garanzia proposta dal convento nei confronti del terzo chiamato comporta l'applicabilità del principio di soccombenza reciproca (Cass., n. 8363/2010, 6514/2004), considerando il professionista obbligato al pagamento delle spese legali della Compagnia di assicurazioni infondatamente evocata nel giudizio in garanzia e manleva. Osservazioni
La decisione de quo si pone in linea con i precedenti giurisprudenziali più prossimi in materia, secondo cui nell'ipotesi di azione di responsabilità nei confronti dell'avvocato, ai fini dell'individuazione del nesso di condizionamento fra inadempimento del professionista e danno, non è necessaria, come nella giurisprudenza più risalente, la certezza morale dell'esito favorevole della lite, essendo sufficiente l'elevata probabilità di un'eventuale, diversa, evoluzione della controversia. Com'è noto, al fine di poter correttamente formulare un giudizio di responsabilità professionale in capo all'avvocato, è necessario verificare la contestuale presenza dei tre elementi che caratterizzano la fattispecie: a) una condotta dolosa o colposa posta in essere in esecuzione del mandato conferito; b) un pregiudizio che, dalla sua condotta, sia derivato al cliente; c) il nesso di derivazione causale tra il primo ed il secondo elemento.
Secondo giurisprudenza consolidata, infatti, la responsabilità dell'avvocato non si fonda sul presupposto della colpa, ma sulla valutazione positiva che, alla proposizione di una diversa azione o al diligente compimento di determinate attività, sarebbero seguiti effetti vantaggiosi per l'assistito, atteso che l'accertamento di un comportamento negligente in capo al difensore non può, in ogni caso, comportare in via automatica un giudizio di responsabilità dello stesso. (cfr. ex multis Cass. Civ. 15759/2001, Trib. Milano, 28 ottobre 2005). Più precisamente, anche l'eventuale responsabilità omissiva del difensore implica “una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente svolta dal difensore” (cfr. Cass. Civ., sez II, 7 agosto 2002 n. 11901). Quanto sopra implica una verifica a posteriori per accertare se, “ove vi fosse stata una corretta esecuzione del mandato, il cliente avrebbe avuto serie e concrete probabilità di accoglimento” (Trib. Milano, 25 marzo 1996, in Resp. Civ. Prev., 1997, pag. 1170 e sgg).
Sul punto, occorre osservare che in passato era richiesta la dimostrazione che, in caso di comportamento diligente del legale, la vittoria in giudizio si sarebbe ottenuta con ragionevole certezza (cfr. Cass. Civ., sez III, 18 aprile 2007, n. 9238; Cass. Civ., sez. II, 9 giugno 2004 n. 10996; Cass. Civ., sez II, 7 agosto 2002 n. 11901; Cass. Civ., 27 gennaio 1999, n. 722; Trib. Milano, 25 marzo 1996). Statuivano, infatti, i Giudici di legittimità, che “l'affermazione di responsabilità di un legale implica l'indagine sul sicuro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto essere proposta o diligentemente coltivata e perciò la "certezza morale" che gli effetti di una diversa attività del professionista sarebbero stati vantaggiosi per il cliente” (Cass. Civ., sez III, 18 aprile 2007 n. 9238). Altresì, nella medesima pronuncia, la Cassazione osserva che “in tema di responsabilità del legale incombe al cliente, il quale assume di aver subito un danno, l'onere di provare la difettosa o inadeguata prestazione professionale, l'esistenza del danno e il rapporto di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno […] Il cliente che assume di aver subito un danno in conseguenza dell'omissione di una attività professionale ha l'onere di provare, inoltre, che l'attività omessa avrebbe potuto, con ogni probabilità, determinare una decisione diversa e più favorevole della controversia” (Cass. Civ., sez III, 18 aprile 2007 n. 9238).
La più recente giurisprudenza conferma solo parzialmente il suddetto assunto (si vedano sul punto Cass., 5 febbraio 2013, n. 2638), affermando che la responsabilità del legale non può sussistere per il solo fatto del suo ipotetico non corretto adempimento, ma è necessaria “la verifica se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla sua condotta professionale, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone”. Ne consegue che, anche una volta accertata l'eventuale condotta negligente del difensore, in ogni caso, per essere affermato un giudizio di responsabilità professionale, occorre necessariamente superare positivamente il sindacato del giudice in merito alla sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta negligente e l'evento dannoso verificatosi a carico del cliente, secondo criteri probabilistici. La giurisprudenza, peraltro, ha ormai da tempo chiarito che, in materia di responsabilità professionale, il cliente è tenuto a provare non solo di aver subito un danno, ma anche che questo è stato causato dalla difettosa attività professionale.
Una recente pronuncia, statuisce, sul punto, che «l'affermazione di responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale implica una valutazione prognostica positiva - non necessariamente la certezza - circa il probabile esito favorevole del risultato della sua attività se la stessa fosse stata correttamente e diligentemente svolta; con la conseguenza che solo la mancanza di elementi probatori, atti a giustificare una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito dell'attività del prestatore d'opera, induce ad escludere l'affermazione della responsabilità del legale, in quanto, la responsabilità dell'esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se, qualora l'avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone» (Cass. 17414/2019). Alla luce della giurisprudenza più recente, quindi, il criterio della “ragionevole certezza” o “certezza morale” dell'esito favorevole della lite, quale condizione per l'accertamento della responsabilità professionale dell'avvocato, parrebbe essersi affievolito, sino ad attestarsi su una, più modesta, “valutazione prognostica favorevole”, lasciando, in tal modo, spazio ad un maggior numero di, possibili, esiti soccombenti nei giudizi promossi nei confronti dei legali dai propri ex clienti.
Infine, per quanto attiene alla condanna del legale al pagamento delle spese legali della Compagnia, la Suprema Corte conferma il proprio costante orientamento, in forza del quale la palese infondatezza della domanda di garanzia proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato comporta l'applicabilità del principio di soccombenza nel rapporto processuale instauratosi tra di loro, anche quando l'attore sia, a sua volta, soccombente nei confronti del convenuto chiamante, atteso che quest'ultimo sarebbe stato soccombente nei confronti del terzo chiamato, anche in caso di esito diverso della causa principale (cfr. Cass., n. 8363/2010, 6514/2004, n. 12301/2005). |