L'abuso dei mezzi di correzione e disciplina, di cui all'art. 571 c.p., vive un momento di crisi nell'esegesi giurisprudenziale. Sebbene la massima tralatizia richieda, affinché vi sia un abuso del metodo educativo, che la condotta costituisca una esasperazione di uno strumento correttivo lecito, si susseguono in giurisprudenza applicazioni controverse della figura criminosa, nella misura in cui vengono fatte rientrare nell'alveo di tipicità della norma incriminatrice in esame le punizioni...
Abstract
L'abuso dei mezzi di correzione e disciplina, di cui all'art. 571 c.p., vive un momento di crisi nell'esegesi giurisprudenziale. Sebbene la massima tralatizia richieda, affinché vi sia un abuso del metodo educativo, che la condotta costituisca una esasperazione di uno strumento correttivo lecito, si susseguono in giurisprudenza applicazioni controverse della figura criminosa, nella misura in cui vengono fatte rientrare nell'alveo di tipicità della norma incriminatrice in esame le punizioni, impartite dall'insegnante a carico degli alunni, che consistano nella “restituzione del male arrecato”.
L'Autore propone un commento ad una recente sentenza della Corte di cassazione, in cui è propugnato l'orientamento ermeneutico da ultimo segnalato, e ne evidenzia i profili problematici.
Il caso e la questione giuridica sottesa
Con la sentenza n. 37642, depositata il 18 ottobre 2021, la Corte della nomofilachia si pronuncia sul caso di una insegnante che, per rimproverare un alunno del primo anno di scuola primaria, responsabile di aver reiteratamente sputato in terra e verso i compagni durante l'ora di educazione motoria, gli aveva imposto di ricevere a propria volta gli sputi dei compagni come forma di punizione.
In particolare, la Corte di appello di Venezia, confermando il giudizio di primo grado, aveva ritenuto configurato il delitto di cui all'art. 571 c.p.
Rigettando il ricorso proposto dal difensore dell'imputata, la Corte di cassazione ha ritenuto corretti il ragionamento e l'applicazione dei principi di diritto svolti dal giudice del gravame, poiché «integra il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell'insegnante che faccia ricorso a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi».
Nel confermare le argomentazioni giuridiche del giudice di appello, la Corte ha richiamato un proprio precedente (Cass. pen, sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954, in C.E.D. Cass.,n. 266434), col quale si sanciva la rispondenza alla norma incriminatrice della condotta di un'insegnante che aveva sottoposto i bambini a lei affidati a violenze fisiche (schiaffi, tiramento di capelli), violenze psicologiche (minacciarli dell'arrivo del diavolo), condotte umilianti (costringerli a cantare o mangiare; imporre loro di tenere la lingua fuori dalla bocca).
Cenni sul delitto di abuso dei mezzi di correzione e disciplina: la nozione di abuso e i principali sbocchi fattuali della fattispecie
Si rileva preliminarmente che la norma incriminatrice applicata (art. 571 c.p.) punisce chiunque «abusa dei mezzi di correzione o di disciplina» in danno di una persona con la quale si siano instaurati i rapporti di subordinazione e/o affidamento specificamente menzionati dalla norma: autorità, educazione, istruzione, cura, vigilanza, custodia, esercizio di una professione o di un'arte.
La punibilità non scaturisce in via automatica ma si palesa soltanto quando l'abuso abbia avuto riverberi sulla integrità psicofisica del soggetto passivo, cagionando il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente; nel caso di lesioni o morte, si applicano le più gravi sanzioni previste dal secondo comma della disposizione. Giova rammentare, in ordine al concetto di malattia, che esso appare più ampio di quello concernente l'imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d'ansia all'insonnia, al disagio psicologico, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento, anche sul piano alimentare (Cass. pen, sez. VI, 22 gennaio 2020, n. 7969, Rv. 278352; Cass. pen, sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 18289; Cass. pen, sez. VI, 7 febbraio 2005, n. 16491, Rv. 231452).
Il cuore pulsante della fattispecie in parola è fuor di dubbio costituito dalla locuzione abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, espressione che ha innescato un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale, a cagione della scarsa chiarezza del disposto normativo.
Si è sostenuto che l'abuso del mezzo correttivo presuppone la legittimità dell'uso dello strumento adoperato; il soggetto agente deve cioè servirsi di un mezzo correttivo lecito per l'ordinamento, che tuttavia trasmodi nell'abuso in ragione della arbitrarietà o intempestività della sua applicazione o dell'eccesso nella misura o, infine, della sproporzione rispetto al bisogno educativo o disciplinare del soggetto passivo, senza tuttavia attingere a forme di violenza né fisica né psicologica. Nel caso in cui vengano utilizzati mezzi illeciti, e non mezzi leciti adoperati fuori dal perimetro di adeguatezza e proporzione, occorrerà rintracciare nell'ordinamento fattispecie incriminatrici diverse eventualmente applicabili al fatto storico.
La difficoltà sorge dalla necessità di individuare quali siano i mezzi correttivi eventualmente ritenuti leciti dall'ordinamento; in effetti, la norma incriminatrice, e in particolare l'elemento strutturale costituito dai mezzi di correzione e disciplina, innesca il richiamo a norme giuridiche e regole sociali in grado di implementarne il tessuto positivo e chiarirne il perimetro applicativo.
Il terreno elettivo della fattispecie criminosa in parola è costituito, nella prassi giudiziaria, dalle sanzioni inflitte dall'insegnante negli ambienti scolastici e dalle reazioni punitive del genitore nei confronti del figlio minore. Occorre comprendere allora quand'è che la condotta dell'insegnante o del genitore configuri il delitto di cui all'art. 571 c.p.
L'adozione di metodi educativi nei confronti della prole da parte del genitore pare essere avallata dal sistema giuridico nella parte in cui - artt. 30 Cost. e 147 c.c. - imputa al secondo il dovere di istruire e di educare i figli.
Trattasi tuttavia di un caso in cui l'ordinamento si limita ad assegnare il potere correttivo ma omette di disciplinarne modalità e limiti. Il quomodo non può che essere ricavato dalla attenta analisi dell'evoluzione dei costumi sociali.
Originariamente, oltre al rimprovero di modica entità, di per sé irrilevante per l'ordinamento penale almeno nella logica dell'offensività, si faceva rientrare nella nozione di mezzo correttivo anche la violenza, quest'ultima certamente sussumibile nell'alveo tipico di molteplici fattispecie penali (in primis, gli artt. 581,582,610,612 c.p.).
Da queste premesse scaturì l'annoso dibattito circa la distinzione tra l'abuso (evidentemente reiterato) dei mezzi correttivi e il delitto di maltrattamenti. Si riteneva infatti che entrambi implicitamente annoverassero, sul piano oggettivo, l'elemento strutturale della violenza fisica o psicologica e che pertanto occorresse sondare, a fini discretivi, lo scopo dell'agente: nell'ipotesi di finalità correttiva, l'autore sarebbe andato incontro alla sanzione penale prevista dall'art. 571 c.p. qualora avesse adottato forme aggressive sproporzionate; nel caso di scopo vessatorio, sarebbe stata applicata la più grave fattispecie di maltrattamenti.
Questo orientamento è stato superato in ragione dell'evoluzione del comune sentire circa le modalità educative cui i genitori avrebbero dovuto ispirarsi nel più moderno sistema culturale, novero dal quale la morale dominante ritiene ormai espungibile la violenza di ogni tipo.
Con la storica sentenza Cambria (Cass. sez. VI, 18 marzo 1996, dep. 16 maggio, n. 496), si è infatti stabilito che la verifica dei presupposti del delitto ex art. 571 c.p. transita dapprima per il vaglio della ammissibilità delle metodiche adottate sul piano oggettivo, e solo successivamente per quello avente ad oggetto lo scopo del soggetto agente.
Ed è proprio sotto il profilo della struttura oggettiva, che la Corte di legittimità ha escluso la violenza dalle componenti materiali della fattispecie, così sostenendosi, ad esempio, che la violenza reiterata nei confronti dei figli è sempre idonea ad integrare il delitto di maltrattamenti exart. 572 c.p., non potendo mai configurare il delitto di cui all'art. 571 c.p.
L'orientamento è stato ripreso, da ultimo, da una recente pronunzia di legittimità (Cass. pen, sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 11777), nella quale il tema è stato trattato in maniera analitica. Sul piano dei principi di diritto, è stato ribadito che l'abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ex art. 571 c.p. consiste nell'uso non appropriato di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi o educativi in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore nonché dalla scienza pedagogica, da ritenersi appropriati quando ricorrano due presupposti:
a) la necessità dell'intervento correttivo in conseguenza dell'inosservanza da parte del soggetto passivo dei doveri di comportamento su di lui gravanti;
b) la proporzione tra tale violazione e l'intervento correttivo adottato sotto il profilo dell'interesse del destinatario su cui esso incide e della compressione che ne determina.
È stato quindi precisato che qualsiasi forma di violenza, sia essa fisica che psicologica, non costituisce mezzo di correzione o di disciplina, neanche se posta in essere a scopo educativo: l'uso di metodi violenti non è mai ammesso dall'ordinamento e, non essendone consentito un uso, non può mai venire in rilievo un “abuso”, ovverosia un uso al di fuori di limiti consentiti (Cass. sez. VI, 23 novembre 2012, n. 45467, in Cass. pen., 2012, p. 99; Cass. sez. VI, 3 maggio 2005, Agugliaro, in Dir. e giust., 2005, p. 65; Cass. sez. VI, 7 febbraio 2005, Carigliano, in Riv. pen., 2005, 964).
Non può infatti ritenersi che costituiscano mezzi educativi tutti quei mezzi, di qualunque specie, che vengano usati a tale fine, ma soltanto quelli per loro natura a ciò deputati. Il ricorso ad un mezzo oggettivamente non consentito, anche se utilizzato con scopo emendativo, non rientra nella previsione dell'art. 571 c.p., ma integra, a seconda degli effetti che produce, altre ipotesi incriminatici. L'abuso di cui all'art. 571 c.p. implica, infatti, il tradimento della importante e delicata funzione educativa e presuppone l'uso consentito e legittimo di mezzi correttivi, con l'effetto che l'esercizio del potere di correzione fuori dei casi consentiti o con mezzi di per sé illeciti o contrari allo scopo fa venire meno la stessa materialità del reato in questione e va inquadrato in altro paradigma criminoso (Cass. pen, sez. VI, 22 settembre 2005,n. 39927, in Dir. e giust., 2005, 43, p. 64).
Unica forma di violenza tollerata consisterebbe nella c.d. vis modicissima, rappresentata da quegli atti di minima valenza fisica o morale che risultino necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente (Cass. pen, sez. VI, 7 novembre 1997, Paglia, in Cass. pen., 2000, p. 32).
L'apertura si è resa necessaria in quanto, in molti casi, l'educatore non può che fare ricorso a minime forme di coercizione fisica o psicologica al fine di contrastare l'atteggiamento ribelle e ostile della persona da educare. Stando a queste premesse, il delitto ex art. 571 c.p. potrebbe astrattamente configurarsi nel caso in cui questa forma di proibizione, pur particolarmente blanda, sia eseguita in maniera inadeguata o non rispondente al contesto educativo, sino a configurare un pericolo di malattia nel corpo o nella mente.
L'orientamento in parola si oppone ad altra esegesi ritenuta preferibile da meno recente giurisprudenza, le cui linee direttive paiono essere state riprese, come si avrà modo di osservare a breve, dalla sentenza che qui si annota.
Infatti, con altri arresti, la suprema Corte ha incluso tra i metodi correttivi anche quelli violenti, sulla base di una interpretazione conservatrice volta a salvaguardare l'efficacia dell'art. 571 c.p. nell'ordinamento, osservando che ogni norma deve essere interpretata in modo che le siano attribuiti un senso compiuto e uno sbocco operativo concreto nel sistema giuridico vigente; sicché l'art. 571 c.p. dovrebbe continuare ad annoverare il metodo correttivo violento, non spiegandosi altrimenti come da comportamenti non violenti o scarsamente violenti possano originare il pericolo di malattia nel corpo o nella mente, o financo lesioni o morte della vittima (Cass. pen, sez. VI, 21 settembre 2016, n. 2669, in Cass. pen., 2017, 5, p. 1886).
Di recente, si è posta in continuità con questo orientamento la pronuncia Cass. pen, sez. VI, 28 settembre 2021, dep. 12 ottobre 2021, n. 37080, nella quale è stata confermata la condanna di una madre per il delitto ex art. 571 cit., per avere, in una occasione, spinto il figlio minore, e in una seconda occasione, sferrato al medesimo un forte schiaffo al viso, in entrambe le circostanze cagionandogli lievi lesioni.
Con riferimento al diverso versante dell'abuso di mezzi di correzione e disciplina in ambiente scolastico nei confronti degli studenti, si assiste al progressivo rafforzamento di un orientamento giurisprudenziale teso a distinguere tra le condotte di violenza fisica e quelle di coercizione di tipo morale.
Infatti, nei casi di utilizzo frequente della violenza fisica da parte degli insegnanti, la giurisprudenza dominante non ha esitato a ritenere perfezionati gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti in luogo dell'abuso di mezzi correttivi, sfuggendo la violenza fisica alle facoltà e ai poteri educativi dell'insegnante nel contesto scolastico (Cass. sez. VI, 15 settembre 2021, n. 41745; Cass. pen, sez. VI, 15 febbraio 2017, n. 11956).
Nei casi in cui, diversamente, l'insegnante abbia posto in essere condotte vessatorie o, comunque, di forte aggressione alla integrità morale dell'alunno, la presa di posizione non si è rivelata così netta.
Il giudice della nomofilachia ha talvolta ritenuto integrato il reato di abuso ex art. 571 c.p.; ha infatti sancito, con alcune decisioni, che integra la suddetta fattispecie il comportamento dell'insegnante che umili, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, anche se la condotta sia sostenuta da intenzione correttiva, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall'ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell'altrui personalità (Cass. sez. VI, 11 novembre 2020, n. 8035; conf. Cass. sez. V, 16 luglio 2015, n. 47543, Rv. 265496; Cass. sez. VI, 14 giugno 2012, n. 34492, Rv. 253654).
Stando a questo filone, dovrebbero reputarsi incluse nel novero dei mezzi correttivi leciti le forme di aggressione morale attuate nei confronti degli studenti, dovendo l'interprete limitarsi a verificarne il superamento della soglia di proporzione.
In sintesi, il criterio valutativo unanimamente accolto in materia di abuso dello strumento correttivo si incentra sulla verifica dello straripamento di un mezzo educativo o disciplinare, ammesso dall'ordinamento, dal suo perimetro di liceità.
Tuttavia, all'atto pratico, volto a individuare quali siano i mezzi educativi o disciplinari ammessi, si assiste ad una disputa giurisprudenziale in ordine alla suscettibilità della violenza fisica o psicologica di essere inclusa nel novero degli strumenti correttivi ammessi dall'ordinamento; difficoltà esegetiche che si acuiscono con particolare riguardo alle condotte di aggressione morale poste in essere nei confronti del soggetto passivo.
Le sanzioni disciplinari previste dagli ordinamenti scolastici
Orbene, se l'aggressione morale posta in essere con comportamenti idonei a svalutare o umiliare l'alunno costituisce, secondo una parte della giurisprudenza, un abuso del mezzo correttivo, occorre domandarsi di quale mezzo correttivo lecito essa costituisca la deriva illecita.
Se nell'ambito famigliare il sistema giuridico non individua chiaramente quali siano le determinazioni che il genitore può assumere per fini correttivi, con ciò giustificandosi l'annosa disputa sulla inclusione in esse dei metodi violenti, non pare che analogo discorso possa svolgersi con riferimento alle sanzioni impartite dall'insegnante nei confronti dello studente, trattandosi di mezzi correttivi più agevolmente rinvenibili in un vero e proprio ordinamento giuridicizzato.
Con ciò, ci si riferisce alle norme dell'ordinamento scolastico il quale, quanto agli alunni di scuola primaria, provvede col regio decreto n. 1297 del 1928 e con l'art. 328 co. 7 del d.lgs. n. 297 del 1994; e, quanto agli studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado, detta importanti regole cristallizzate nello Statuto delle studentesse e degli studenti (d.P.R. n. 249 del 1998).
Il regio decreto n. 1297/1928, all'art. 414, prevedeva che «verso gli alunni che manchino ai loro doveri si possono usare, secondo la gravità delle mancanze, i seguenti mezzi disciplinari: ammonizione; censura notata sul registro con comunicazione scritta ai genitori, che la debbono restituire vistata; sospensione dalla scuola, da uno a dieci giorni di lezione; esclusione dagli scrutini o dagli esami della prima sessione; espulsione dalla scuola con la perdita dell'anno scolastico».
La norma è stata abrogata dalla legge 20 agosto 2019, n. 92; attualmente, in difetto di tale previsione, il regio decreto n. 1297 del 1928 contiene riferimenti del tutto generici ai poteri disciplinari del maestro nei confronti dell'allievo di scuola primaria, limitandosi, all'art. 354, a menzionare un dovere di informazione dei genitori in merito «al portamento, allo studio e alle assenze degli alunni» (comma 1), nonché «se leammonizioni e le punizioni date all'alunno siano riuscite infruttuose» (comma 2).
Il concetto di ammonizione è riportabile alla nozione di richiamo, verbale o scritto, cioè di una sanzione che stigmatizza il comportamento non consono alla vita scolastica tenuto dall'alunno e a invitare quest'ultimo a non ripeterlo; il concetto di punizione richiama invece la possibilità di ordinare allo studente il compimento di una attività riparativa o financo penitenziale.
L'art. 328 del d.lgs. 297/1994medio tempore già disponeva che «le norme disciplinari relative agli alunni delle scuole elementari sono stabilite con regolamento», in attuazione del Regolamento dell'autonomia delle istituzioni scolastiche, emanato con il d.P.R. 8 marzo 1999 n. 275.
Pertanto, dopo l'abrogazione dell'art. 414 cit., l'art. 328 del d.lgs. n. 297/1994 costituisce la norma qui di rilievo per ricercare nell'ordinamento gli strumenti correttivi attribuiti agli insegnanti; come detto, la norma dispone, a tal riguardo, un rinvio ai singoli ordinamenti scolastici.
Gli istituti di scuola primaria che hanno adottato i suddetti regolamenti hanno previsto che l'irrogazione delle sanzioni avvenga nel rispetto di principi generali diffusamente accreditati nel sistema giuridico: contraddittorio, responsabilità personale, libertà di espressione del pensiero, proporzione, temporaneità, promanazione da organi collegiali nel caso di sanzioni che comportino la più grave sanzione dell'allontanamento dall'istituto.
I provvedimenti disciplinari previsti nella prassi degli uffici scolastici consistono, di regola, in ammonizioni verbali e scritte (queste ultime col fine di informare ed eventualmente convocare la famiglia), da eseguirsi a cura del docente, e nell'allontanamento dall'istituto, anche per un periodo superiore a quindici giorni, da irrogarsi a cura di organi collegiali (Consiglio di classe o Consiglio di istituto).
In alcuni casi è stata adottata, all'interno delle disposizioni regolamentari, una norma elastica che consente, in ossequio alla primaria finalità di conseguire il rafforzamento del senso di responsabilità e il ripristino di rapporti corretti all'interno della scuola, di sostituire o integrare i provvedimenti sanzionatori più blandi (i.e. le ammonizioni) con provvedimenti educativi miranti al rimedio del danno, alla riflessione e al ravvedimento. Viene così rimesso al singolo docente il potere di individuare, per conseguire gli scopi assegnati – riparazione del danno, riflessione e ravvedimento – il contenuto correttivo più idoneo.
Ad ogni buon conto, appare sostenibile che, alla luce dei mutamenti culturali degli ultimi decenni, possano ritenersi propri degli insegnanti di scuola primaria esclusivamente l'ammonimento che consista in un rimprovero verbale o scritto legato al comportamento non dovuto, oltre a ordini che impongano allo studente attività riparative pur sempre di carattere didattico, e devono ritenersi comunque vietati, nell'ambito della scuola primaria, tutti quegli obblighi, tra cui le punizioni, impartiti allo studente dal maestro che abbiano carattere di afflizione, vessazione o coercizione ad impatto corporale e avulsa da ogni spirito didattico.
Per quanto attiene invece alle scuole secondarie di primo e secondo grado, il d.P.R. n. 249/1998 (c.d. Statuto delle studentesse e degli studenti), all'art. 4, rimanda ai regolamenti interni che i singoli istituti possono emanare, nei quali verranno individuati «i comportamenti che configurano mancanze disciplinari con riferimento ai doveri elencati nell'articolo 3, al corretto svolgimento dei rapporti all'interno della comunità scolastica e alle situazioni specifiche di ogni singola scuola, le relative sanzioni, gli organi competenti ad irrogarle e il relativo procedimento»; in ogni caso si impone il rispetto dei principi di cui ai commi 2 e ss. e si prevede il dovere di distinguere tra gli illeciti che non comportano la sanzione dell'allontanamento dello studente dalla comunità scolastica, e sanzioni che invece la prevedano, le quali potranno conseguire soltanto a gravi o reiterate infrazioni disciplinari e sempre su deliberazione di un organo collegiale.
Orbene, anche per questi studenti, la prassi degli istituti di scuola secondaria si è orientata in modo da prevedere sanzioni quali, a titolo esemplificativo: a) il richiamo verbale; b) l'annotazione scritta sul registro elettronico con possibilità di visione da parte del genitore; c) il richiamo del Dirigente scolastico, con annotazione su libretto personale e registro elettronico; d) sospensione dalle attività scolastiche, anche per più di quindici giorni, nei casi più gravi e/o di reiterazione di comportamenti inappropriati o illeciti; e) esclusione da attività particolari (es. viaggi di istruzione; scambi culturali); f) sanzioni amministrative (quando il comportamento integri un illecito amministrativo); g) forme risarcitorie, nei casi in cui lo studente abbia arrecato un pregiudizio economico a taluno o all'istituto stesso. Tra queste sanzioni, soltanto il richiamo verbale e l'annotazione sul registro elettronico sono impartiti dal docente, competendo generalmente le altre sanzioni al dirigente scolastico o ad altri organi di istituto.
Osservazioni critiche sui rapporti tra l'abuso di mezzi di correzione e disciplina e le umiliazioni ad impatto corporale
Si noti allora come, in linea di massima, non compaiano tra le sanzioni tipicamente irrogabili dall'insegnante allo studente minore a fini correttivi le imposizioni aventi carattere di penitenza o di restituzione personale del male arrecato, potendo al più l'insegnante: richiamare verbalmente lo studente invitandolo a correggere e comunque a non reiterare la condotta inadeguata; stigmatizzarne il comportamento in forma scritta, al fine principale di informare i genitori ed eventualmente convocarli a colloquio; o, infine, quanto al carente rendimento, impartirgli mansioni esecutive che, seppur connotate da un carattere retributivo, mantengono natura didattica e sfondo culturale, e sono disposte al fine di coadiuvare l'allievo a colmare la lacuna di apprendimento.
A queste, la più recente giurisprudenza è solita aggiungere la esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l'imposizione di condotte riparatorie e il ricorso a forme di rimprovero non riservate (Cass. sez. VI, 15 settembre 2021, n. 41745; Cass. sez. III, 6 novembre 2018, n. 17810, Rv. 275701).
Quanto sopra, a parere di chi scrive, dovrebbe valere sia qualora il singolo istituto scolastico, nella espressione della propria autonomia organizzativa, abbia introdotto fonti regolamentari che prevedono analiticamente le sanzioni irrogabili, sia quando ciò non sia avvenuto. In questo secondo caso, infatti, non può dedursi la piena libertà dell'insegnante di dare sfogo ai propri impulsi educativi adottando forme di coazione morale, ciò per alcune ragioni di ordine sistematico.
In primo luogo, l'analisi contenutistica dei regolamenti finora adottati dagli istituti scolastici costituisce un criterio guida di particolare rilievo, in quanto essi rappresentano validi supporti normativi promananti da soggetti che, nello svolgimento dei propri incarichi, sono ispirati dalla scienza pedagogica. Nei regolamenti di istituto, come si diceva, non è dato desumere la facoltà dell'insegnante di adottare sanzioni ad impatto corporale o punizioni di sorta.
Ciò è implicitamente confermato dalla normativa nazionale, laddove da un lato non fa cenno a tali strumenti correttivi e, dall'altro, nel rimandare agli ordinamenti scolastici, fissa un tetto massimo di gravità della sanzione nell'allontanamento del discente dalla comunità scolastica - di cui si richiede la determinazione da parte di un organo collegiale - con ciò implicitamente escludendo che possano irrogarsi a costui punizioni dal contenuto afflittivo o denigratorio, nemmeno nei casi di massima inopportunità del comportamento tenuto.
L'approdo è del resto coerente con l'evoluzione dell'etica dominante, che depotenzia (pur senza escluderlo del tutto) il ruolo educativo degli insegnanti, affidando a questi ultimi il prevalente compito di formare gli allievi nell'apprendimento di materie scolastiche e limitando gli strumenti correttivi dell'insegnante, astrattamente orientati alla erogazione di regole di convivenza sociale, a meri ammonimenti e/o sintetici confronti con l'allievo, con successiva devoluzione della questione alle famiglie (l'annotazione sul registro elettronico consultabile dalla famiglia, nonché la convocazione del genitore a colloquio sono la prova di una poderosa dismissione, in favore delle famiglie, dell'educazione del giovane a relazionarsi civilmente in comunità).
Può desumersi che la sanzione ritenuta lecita dall'ordinamento non consiste mai in forme di coercizione o aggressione della sfera morale o delle facoltà di autodeterminazione della persona; trattasi invece di attestazione e stigmatizzazione, auspicabilmente dialogata, di una condotta inopportuna o, a tutto voler concedere, di una imposizione, dal carattere anche riparativo, di compiti che conservano uno scopo formativo e incentivante sotto l'aspetto culturale.
Orbene, se il delitto di cui all'art. 571 c.p. necessita, ai fini strutturali, che un mezzo correttivo specificamente individuato e assegnato, e non un generico potere disciplinare, venga utilizzato con modalità esorbitanti, la configurabilità del delitto in parola in ambito scolastico dovrà dipendere dall'utilizzo distorto o fuori misura di una delle sanzioni tipiche, se produttivo di pericolo di malattia, come ad esempio un utilizzo intempestivo o arbitrario dello strumento o una sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto o al bisogno educativo.
Sotto questo profilo, lo strumento della punizione corporale incentrata sull'applicazione della regola del contrappasso (subire la propria colpa), mediante scherno generale e gesti umilianti posti in essere nei confronti dell'allievo da parte dei suoi compagni di classe, non pare configurare un eccesso nell'uso del mezzo correttivo lecito costituito dalle sanzioni istituzionalizzate; anzi, esso possiede tratti di evidente disallineamento dalle stesse, il che lo rende strumento correttivo illegittimo del tutto eterogeneo dalle predette sanzioni, di cui non costituisce una forma di espressione smodata.
In conclusione
La fattispecie di abuso dei mezzi correttivi ex art. 571 c.p. continua a configurare un terreno incerto e scivoloso, legato alla scarsa chiarezza del suo tessuto letterale, con particolare riferimento al concetto di abuso, nozione che, in maniera fumosa, costituisce elemento di rinvio a sfuggenti e altalenanti nozioni di carattere sociale e culturale tutt'altro che idonee a scolpire in maniera netta il novero dei mezzi correttivi ritenuti leciti dall'ordinamento.
Quanto all'ambito scolastico, vengono in soccorso dell'interprete non soltanto l'evoluzione storica dei costumi sociali e del ruolo degli insegnanti, ma anche la lettura ampia delle disposizioni regolamentari intanto emanate dagli ordinamenti scolastici, le quali dovrebbero consentire di escludere dall'alveo operativo della fattispecie criminosa in esame tutte le sanzioni disciplinari impartite dall'insegnante e caratterizzate dall'applicazione della regola del contrappasso (far subire la propria colpa), mediante svilimento della persona ad impatto corporale, posto in essere nei confronti dell'allievo da parte dei suoi compagni di classe, poiché esse non costituiscono il travalicamento o la esasperazione di un metodo correttivo lecito, bensì si qualificano ex se quali metodiche illecite affatto contemplate dall'ordinamento scolastico, di cui valutare la sussumibilità in fattispecie penali diverse.
Tanto dovrebbe valere non solo nel caso in cui l'istituto abbia specificamente cristallizzato in norma le sanzioni adottabili dall'insegnante, ma anche nel caso in cui l'istituto non abbia incluso tali previsioni nel regolamento interno e nell'ultima ipotesi in cui, nel regolamento di istituto, dovesse farsi menzione di norme elastiche che assegnano all'insegnante il potere di individuare sanzioni innominate finalizzate al ravvedimento dello studente o alla riparazione del danno.
De jure condendo si rende opportuno predisporre una norma incriminatrice ad hoc, di portata sanzionatoria più grave del quadro edittale attualmente previsto dall'art. 571 comma 1 c.p., che punisca l'adozione anche reiterata di strumenti correttivi non consentiti dall'ordinamento ed eventualmente, in considerazione del danno o del pericolo in concreto cagionato, ne disciplini l'interazione con altre norme incriminatrici dell'ordinamento (come avviene nel caso dell'art. 571 comma 2 c.p.).
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Sommario
Osservazioni critiche sui rapporti tra l'abuso di mezzi di correzione e disciplina e le umiliazioni ad impatto corporale