Il principio di vicinanza della prova in generale

Mauro Di Marzio
19 Gennaio 2022

Il focus si propone di esaminare nei suoi termini generali il tema della vicinanza della prova, nei rapporti con la regola generale del riparto dell'onere probatorio dettata dall'art. 2697 c.c.: vengono esaminati i principali campi in cui il principio ha avuto applicazione ed evidenziate le gravi criticità che detta applicazione pone.
Inquadramento

Il principio di vicinanza della prova ha a che fare con l'aspirazione a far sì che il processo civile riesca ad approssimarsi alla verità della vicenda sostanziale litigiosa.

Se il giudice potesse aver modo di decidere avendo sempre e comunque cognizione di come si sono svolti i fatti di cui le parti controvertono, il processo civile sarebbe poco meno che un gioco da ragazzi; ma il fatto è che, nella realtà, non accade frequentissimamente che il giudice sia in grado di pervenire ad una completa ricostruzione dei fatti controversi: al contrario, assai più spesso, è a conoscenza solo di qualche tassello del mosaico, attraverso cui provare a stabilire quanto effettivamente accaduto.

Ciò rende necessario predisporre una regola volta stabilire quale sorte debba avere il processo civile ove il giudice non riesca in quell'intento.

Il nostro sistema poggia sulla regola inveterata che si riassume nel latinetto onus probandi incumbit ei qui dicit. La regola è inserita nell'art. 2697 c.c., il quale, come tutti sanno, stabilisce che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui si fonda l'eccezione.

La norma pone in tal modo sia la regola del riparto dell'onere probatorio (chi deve provare che cosa), sia, conseguentemente, la regola di giudizio per l'ipotesi che la prova non sia raggiunta (se chi doveva provare non ha provato, ne subisce le conseguenze): la qual cosa possiede ricadute evidentemente enormi sull'andamento del processo, poiché porre l'onere probatorio a carico dell'uno o dell'altro dei contendenti significa individuare chi vincerà la causa nel non raro caso in cui il fatto da provare rimanga ignoto.

L'idea che sta alla base dell'art. 2697 c.c. è quella dell'uguaglianza delle parti. Si può citare, in questo senso un maestro assoluto, Luigi Mattirolo, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, il quale affermava, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, che «il principio di eguaglianza civile, che nella pratica dei giudizi si traduce nel principio della parità di trattamento assicurata alle parti, non permette che si presti fede piuttosto all'allegazione dell'uno che a quella dell'altro dei litiganti, quindi ciascuna delle parti deve provare i fatti, che essa allega a sostegno del proprio assunto». Questo autore escludeva che «la logica e l'equità» potessero comportare «che la difficoltà, in cui versi una delle parti di provare il proprio assunto, debba tornare di danno e di incomodo alla parte contraria, la quale non fu causa né diretta né indiretta di questa difficoltà»; il che veniva riassunto in un altro latinetto: incommodum quisque suum ferre debet, non in alium transferre, e cioè, ciascuno deve sopportare il proprio svantaggio, non trasferirlo ad un altro.

Si tratta di una regola, quella dell'onere della prova, improntata al conseguimento di interessi che travalicano le parti in lite, come si desume dal successivo art. 2698 c.c., che sanziona di nullità i patti con i quali è invertito ovvero modificato l'onere della prova, sia in caso di diritti indisponibili, sia — ed è l'aspetto più significativo — se l'inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. Non si può comprimere eccessivamente il diritto di provare, che, nel quadro costituzionale, è un'articolazione dello stesso diritto di azione sancito dall'art. 24 Cost.

Il limite del principio onus probandi incumbit ei qui dicit è però intuitivo: poiché ricostruire il fatto non è indispensabile, ben potendo e dovendo il giudice comunque decidere, la verità dei fatti, il concreto reale dipanarsi della vicenda da cui si è originata la lite, rimane sullo sfondo. In altri ordinamenti si cerca di ovviare in vario modo: gli Stati Uniti, ad esempio, conoscono la discovery, e cioè una pre-trial phase che consente alla parte di ottenere l'ostensione di informazioni provenienti dalla controparte attraverso la richiesta di risposte ad un interrogatorio o la richiesta di produzione di documenti ed altro, da introdurre poi nel processo a fini di prova. In Italia qualcosa di simile c'è, ma molto alla lontana: è l'ordine di esibizione alla parte o al terzo di cui all'art. 210 c.p.c., che, però, trova applicazione a condizione della sussistenza di una pluralità di presupposti, i quali ne fanno uno strumento alquanto spuntato. Piuttosto, da noi, sono altri i meccanismi di manipolazione del riparto dell'onere della prova: a volte è direttamente il legislatore a manipolare, sovente attraverso l'uso delle presunzioni relative (basterà ricordare il congegno dell'art. 1988 c.c., secondo cui promessa di pagamento e ricognizione di debito fanno presumere l'esistenza del credito); a volte assegna al giudice poteri officiosi, come nell'art. 421 c.p.c..

E poi c'è la vicinanza della prova.

Come nasce il principio di vicinanza della prova

Quello del diritto è un campo in cui il potere evocativo della parola ha talvolta capacità di produrre effetti dirompenti, se il giurista riesce a trovare uno slogan che, per così dire, «suona bene»: capacità di cambiare, se non il corso della storia, almeno la sorte di un numero indefinito di cause. Prendiamo la formula «interpretazione costituzionalmente orientata». È sorta per ragioni essenzialmente pratiche: poiché la Corte costituzionale aveva un arretrato eccessivo, fu chiesto ai giudici di merito di verificare, prima di sollevare una questione di costituzionalità, se la norma sospettata di incostituzionalità si prestasse ad un'interpretazione conforme a Costituzione. Di qui è nato quello che poi divenuto il controllo diffuso di costituzionalità, che ha cambiato il significato di una gran quantità di norme. La stessa cosa è accaduto con la «causa concreta»: chi ha una certa età ha vissuto per decenni, magari benissimo, senza sapere di non poterne fare a meno. E bisogna ormai rivolgersi ai vecchietti per trovare qualcuno che ricordi i tempi in cui a Genova fu inventato il più potente marchingegno egualitario-redistributivo che il diritto del XX secolo, almeno in Italia, abbia escogitato, grazie alla fortunata formula «danno biologico».

La storia del principio di «vicinanza della prova» è più o meno la stessa. In effetti si tratta di un concetto che non ha creato la giurisprudenza, e che non è stato pensato di recente. Le prime tracce risalgono probabilmente al XIII secolo, ma se ne deve l'organica moderna elaborazione ― siamo più o meno alla metà dell'800 ― ad un grande filosofo e giurista inglese, Jeremy Bentham, che all'imposizione dell'onere della prova basata sull'allegazione del fatto, e cioè al principio onus probandi incumbit ei qui dicit (Bentham ne parlava come di «procedura tecnica»), contrapponeva l'imposizione di tale onere alla parte che con maggiore facilità può dimostrare il fatto (era, questa, la «procedura naturale»).

Ebbene, qui da noi abbiamo varcato la soglia del terzo millennio senza che un simile concetto avesse mai (in realtà quasi mai, ma le eccezioni si contano sulle dita di una mano) fatto ingresso in una sentenza. La bomba esplode nel 2001, con una sentenza diremmo celeberrima: Cass. civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533.

Si trattava di una domanda di adempimento, poi mutata, ai sensi dell'art. 1453, comma 2, c.c., in domanda di risoluzione e risarcimento del danno. Nel corso del processo l'attore aveva dimostrato l'avvenuta conclusione del contratto, limitandosi però ad allegare l'inadempimento del convenuto, ed aveva vinto in primo grado, ma perso in appello. Difatti, secondo l'orientamento giurisprudenziale all'epoca prevalente, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive occorreva distinguere fra azioni di adempimento ed azioni di risoluzione; chi esercitava la prima aveva l'onere di provare solo il fatto costitutivo del diritto, e cioè la conclusione del contratto, spettando al convenuto allegare e dimostrare eventuali fatti modificativi, impeditivi o estintivi: e cioè, anzitutto, l'avvenuto adempimento; al contrario, colui che agiva per la risoluzione doveva dimostrare anche l'inadempimento, essendo esso un fatto costitutivo del diritto azionato. Vi era poi un indirizzo minoritario di segno opposto, e l'opinione diffusa della dottrina, incline a ritenere che il regime probatorio dovesse essere il medesimo in tutte le azioni previste dall'art. 1453 c.c..

Le Sezioni Unite si schierarono con l'indirizzo minoritario in giurisprudenza e maggioritario in dottrina, impiegando diversi argomenti che ora non ci interessano, ed aggiungendo che è «conforme all'esigenza di non rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto del creditore a reagire all'inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del "principio di riferibilità o di vicinanza della prova", ponendo in ogni caso l'onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore». Se ne trasse la conseguenza che, in materia di responsabilità contrattuale, la ripartizione dell'onere della prova deve essere identica sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, sia che costui chieda la risoluzione o il risarcimento del danno: il creditore sarà sempre tenuto a provare la sola esistenza della fonte, legale o negoziale, del titolo, spettando al debitore dimostrare di aver adempiuto.

Questo, possiamo dire, il certificato di nascita, nella nostra pratica giudiziaria, del principio di vicinanza della prova, in forza del quale, detto in breve, «diventa onerato della prova il soggetto per cui la prova è più facile, cioè il soggetto più vicino alle fonti di prova» (Luiso, Diritto processuale civile, 6ᵃ ed., I, Milano, 2011, 258).

Di qui un profluvio di impieghi del principio di vicinanza della prova: basterà dire che, da una ricerca effettuata da chi scrive sull'archivio delle sentenze per esteso della Cassazione, il sintagma «vicinanza della prova» compare nientemeno che 705 volte, e senza considerare l'impiego di espressioni equivalenti.

Casistica

Quest'ultimo accenno alla mole delle decisioni che hanno fatto (o non hanno fatto) applicazione del principio di «vicinanza della prova» ha qui una immediata conseguenza: non è possibile, in questa sede, una disamina completa e approfondita delle fattispecie riguardo alle quali il principio è stato fatto operare.

Per la verità, il principio sembra alle volte impiegato più che altro perché si tratta di un concetto à la mode, com'è accaduto per la «causa concreta» (si veda Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, 957). È stato ad esempio affermato che, in tema di somministrazione di energia elettrica, in forza del principio di vicinanza della prova, spetta all'utente contestare il malfunzionamento del contatore, richiedendone la verifica, e dimostrare l'entità dei consumi effettuati nel periodo (Cass. civ., 9 gennaio 2020, n. 297): ma ― sembra lecito replicare ―, facendo applicazione dell'art. 2697 c.c., una volta che il somministrante l'energia elettrica abbia prodotto il contratto, ed il contratto preveda che i consumi debbano essere misurati attraverso il contatore, chi mai potrebbe essere onerato di provare che il contatore non funziona, se non il somministrato? Non siamo forse nel secondo comma dell'art. 2697 c.c.? Ancora. In tema di scissione societaria, la responsabilità per i debiti della società scissa previsti dagli artt. 2506-bis, comma 2 e 2506-quater, comma 3, c.c., si estende in via solidale e sussidiaria a tutte le società partecipanti all'operazione, ciascuna delle quali risponde, tuttavia, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, il cui ammontare è onere di ciascuna di esse dimostrare in giudizio, quale fatto parzialmente impeditivo della pretesa altrui ed in virtù del principio di vicinanza della prova (Cass. civ., 25 novembre 2021, n. 36690): ma ― vale anche in questo caso osservare ― se l'entità del patrimonio netto assegnato alla società scissa costituisce fatto impeditivo, per l'eventuale importo esorbitante del credito, dell'altrui pretesa creditoria, che necessità c'è di stampellare una simile evidenza col principio di vicinanza della prova? Un ultimo esempio tra i molti che si potrebbero fare. L'esenzione dell'imprenditore agricolo dal fallimento postula la prova ― da parte di chi la invoca in ossequio all'art. 2697, comma 2, c.c. e del principio di vicinanza della prova ― della sussistenza delle condizioni per ricondurre l'attività di commercializzazione dei prodotti agricoli esercitata nell'ambito di cui all'art. 2135, comma 3, c.c. (Cass. civ., 21 gennaio 2021, n. 1049): ma ― sembra potersi parimenti ribadire ―, chi altri può essere onerato della prova della non fallibilità se non il debitore?

Vi sono però campi in cui il principio della vicinanza ha svolto un ruolo importante. Uno è quello della responsabilità professionale medica, con riguardo al quale è stato detto, in una pronuncia di grande rilievo, che «va condiviso l'orientamento giurisprudenziale … secondo cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell'onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la "vicinanza alla prova", e cioè l'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla» (Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577). Qui è interessante notare il passaggio tecnico al quale è ancorata l'applicazione del principio di vicinanza della prova, che consiste nella formulazione di una presunzione semplice: in buona sostanza, dicono le Sezioni Unite, se, presso l'ospedale, la cartella clinica è sparita, vuol dire ― e la cosa non è certo insensata ― che in essa c'era con tutta probabilità la prova della responsabilità dei sanitari o della struttura sanitaria.

In tema si può rammentare che «in materia di attività medico-chirurgica, allorché risulti accertata una condotta negligente che depone per la responsabilità del medico operante e, conseguentemente, della struttura sanitaria, spetta all'uno e all'altra, in applicazione del principio della «vicinanza della prova» (o di «riferibilità»), provare che il risultato «anomalo» o «anormale», rispetto al convenuto esito dell'intervento, sia dipeso da un evento imprevedibile, non superabile con l'adeguata diligenza» (Cass. civ., 6 maggio 2015, n. 8989). Qui il meccanismo di funzionamento del principio di vicinanza della prova è diverso: non si tratta di una presunzione, ma ― probabilmente ― della sostituzione della regola della vicinanza alla regola dell'art. 2697 c.c..

Quanto alle controversie bancarie, si può rammentare la giurisprudenza che, discutendo attorno ad un rapporto di conto corrente, afferma che, essendo il titolare del conto stesso più vicino alla prova rispetto a colui che ha solo procura ad operare, è sul primo che incombe l'onere di provare gli avvenuti prelievi da parte del secondo (Cass. civ., 9 giugno 2010, n. 13825). Ma soprattutto, nel settore, merita ricordare una pronuncia recente secondo cui, nei rapporti di conto corrente bancario, il cliente che agisca per ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate in presenza di clausole nulle, ha l'onere di provare l'inesistenza della causa giustificativa dei pagamenti effettuati mediante la produzione del contratto che contiene siffatte clausole, senza poter invocare il principio di vicinanza della prova al fine di spostare detto onere in capo alla banca, tenuto conto che tale principio non trova applicazione quando ciascuna delle parti, almeno di regola, acquisisce la disponibilità del documento al momento della sua sottoscrizione (Cass. civ., 13 dicembre 2019, n. 33009).

Quest'ultima decisione desta interesse, perché cerca di individuare un limite all'operatività del principio: e cioè, se le parti sono entrambe in grado di provare, non c'è modo di allontanarsi dalla regola dell'art. 2697 c.c.. Nella stessa prospettiva è importante la decisione, anch'essa recente, secondo la quale il criterio di vicinanza della prova, quale mezzo di definizione della regola finale di giudizio di cui all'art. 2697 c.c., non può operare allorquando l'interessato abbia la possibilità, secondo le regole di cui al diritto di accesso agli atti della P.A. o eventualmente sulla base degli strumenti processuali a tal fine predisposti dall'ordinamento, di acquisire la documentazione necessaria a suffragare le proprie ragioni; in ogni caso, il criterio di vicinanza neppure può essere richiamato qualora il fatto rimasto ignoto e destinato ad integrare uno degli elementi costitutivi del diritto azionato, quale è, in ambito di responsabilità contrattuale, il nesso causale tra inadempimento e danno, risulti integrato da più possibili evenienze concrete che risultino, anche solo per taluna di esse, estranee alla sfera di conoscenza della parte di cui si prospetta la prossimità rispetto alle circostanze rilevanti (Cass. civ., 24 giugno 2020, n. 12490).

Criticità

Le due ultime decisioni citate segnalano un problema: da un lato i giudici si avvalgono del principio di vicinanza della prova, dall'altro si sforzano di individuarne i limiti.

Ciò accade perché il principio di vicinanza della prova è qualcosa di estremamente pericoloso. Certo, se il processo si avvicina alla verità dei fatti, ciò è apprezzabile. Sempre che si sia convinti che una verità dei fatti esista effettivamente: qui non è il caso di virare verso ardue considerazioni di stampo epistemologico, basterà ricordare un capolavoro del cinema, Rashomon di Akira Kurosawa; dinanzi alle diverse versioni raccontate dai presenti, chi era l'assassino? Ma rimaniamo al diritto, la vicinanza della prova comporta un rischio grave: quello, se così si può dire, della randomizzazione della regola di giudizio destinata ad operare nell'ipotesi di incertezza del fatto controverso.

In primo luogo l'indeterminatezza del principio discende dal fatto che esso manca di una precisa base normativa che ne individui i limiti. Si è cercato a darne una giustificazione sul piano costituzionale, con l'affermazione che esso sarebbe «riconducibile all'art. 24 Cost. che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l'esercizio» (Cass. civ., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141, in punto di prova del requisito dimensionale ai fini della disciplina applicabile alla fattispecie di licenziamento senza giusta causa).

Ma il ragionamento è discutibile: certo l'ordinamento non può consentire che le parti vadano incontro ha difficoltà sostanzialmente insuperabili quando siano chiamate a provare i fatti posti a fondamento delle domande proposte, e quindi il richiamo all'art. 24 Cost. è pertinente, ma le soluzioni al problema sono le più disparate, ad esempio allargare le maglie dell'art. 210 prima citato, e resta il fatto che il principio della vicinanza della prova manca di uno statuto applicativo prefissato dalla legge. Sicché può considerarsi, diremmo, come un lapsus freudiano l'affermazione dell'esistenza di un «dogma» della vicinanza della prova (Cass. civ., 20 febbraio 2006, n. 3651).

Una fondamentale domanda, allora: il principio in questione sta dentro o sta fuori all'art. 2697 c.c.? Perché se sta dentro, se il principio di vicinanza della prova si sostituisce al principio onus probandi, con quel che segue, come sembrerebbe desumersi dalla iniziale Cass. civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, siamo ad una creazione pretoria abrogativa di una norma. È questo è qualcosa che è difficile da digerire sul piano dei principi, ma soprattutto che non necessariamente funziona sul piano della pratica. Se, invece, sta fuori, se il principio serve a correggere l'art. 2697 c.c., in quei casi in cui la regola ordinaria non può funzionare, perché impedirebbe alla parte di provare il proprio diritto, allora la cosa è più ragionevole: ma i problemi non mancano allo stesso modo.

Quand'è che è lecito derogare all'art. 2697 c.c.? Quando la parte è nell'impossibilità di provare? Quando la parte incontra difficoltà nel provare? E, se si tratta di difficoltà, qual è il grado di essa? È una difficoltà che deve riguardare il tipo di controversia nella sua configurazione astratta, o se ne deve fare un'applicazione caso per caso a seconda del concreto andamento della vicenda? Sull'applicazione del principio, ancora, influisce la circostanza che la parte che se ne avvale sia quella «debole»? E cioè, la vicinanza della prova ha a che vedere con l'art. 3 Cost., e non, o non solo con l'art. 24 Cost.?

La già citata Cass. civ., 13 dicembre 2019, n. 33009 risponde, ad esempio, su questo punto, di no: «né il principio in questione può semplicisticamente esaurirsi nella valorizzazione della diversità di forza economica dei contendenti (cfr., proprio con riferimento all'acquisizione del contratto di conto corrente bancario, Cass. civ., 12 settembre 2016, n. 17923, non massimata)». Ma siamo sicuri che una simile risposta, condivisibile a giudizio di chi scrive, riceva il consenso pieno degli addetti ai lavori?

E poi. Stabilire chi deve provare che cosa, in base all'art. 2697 c.c. non sempre è facilissimo, ma normalmente è abbastanza agevole. Come si fa a stabilire preventivamente quand'è che deve operare il principio di vicinanza della prova?

Questo è un punto dolente. Immaginiamo che il lettore sia il difensore di un datore di lavoro, che è stato convenuto in giudizio da una dipendente che aveva un contratto a termine, non rinnovato, secondo la dipendente per il fatto che era in gravidanza, così da dar luogo ad un comportamento datoriale discriminatorio. Poniamo il caso che il difensore abbia la disponibilità dei contratti di lavoro stipulati dal datore, dopo il mancato rinnovo, dai quali risulta che la posizione di quella lavoratrice non era stata ricoperta, perché il datore non ne aveva bisogno, e che invece tutte le assunzioni fatte avevano riguardato altri ruoli. Il difensore non produce quei contratti, perché il suo punto di vista è che debba essere la lavoratrice a provare il carattere discriminatorio del comportamento del datore, pur con le facilitazioni dell'art. 40 del d.lgs. 198/2006. In effetti, la linea difensiva ha successo, ed in particolare la corte d'appello valorizza la circostanza che non fossero stati forniti elementi circa la stipula di nuovi contratti con altri dipendenti fondati sulla medesima causale di quello della lavoratrice. Come la prenderebbe, quel difensore, una volta che, giunto in Cassazione, si vedesse affermare che, per il principio di vicinanza della prova, quei contratti li doveva produrre lui? Questo è il caso deciso da Cass. civ., 26 febbraio 2021, n. 5476.

Non è un caso, allora, che una chiara dottrina abbia posto l'accento sul rilievo che «di regola il giudice provvede a tale inversione solo al momento della decisione finale, prendendo «di sorpresa» la parte che si vede soccombente per non aver soddisfatto un onere probatorio che non le spettava in base all'art. 2697, e che il giudice le attribuisce in maniera imprevedibile» (Taruffo, Il regime probatorio: i principi generali, in Contr. e impr., 2014, 1)

Si può provvisoriamente concludere osservando che questa è la sorte del diritto, in particolare processuale: ogni volta che si crea una nuova regola, può darsi che alcuni problemi si risolvano. Ma accade ineluttabilmente che se ne creino altri.

Riferimenti

Felicetti, «Vicinanza alla prova» e contratto di conto corrente: la cassazione sul riparto (ancora incerto) degli oneri probatori, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2021, III, pag. 265;

Besso, La vicinanza della prova, in Riv. Dir. Proc., 2015, 6, 1383.

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