La clausola di prelazione statutaria tra punti saldi e arresti giurisprudenziali incerti

07 Febbraio 2022

La realità della clausola non può mai condurre alla nullità del trasferimento operato in violazione del patto di prelazione, non versandosi in ipotesi di violazione di norma imperativa, né può portare alla declaratoria di nullità per impossibilità dell'oggetto ...
Massima

La realità della clausola non può mai condurre alla nullità del trasferimento operato in violazione del patto di prelazione, non versandosi in ipotesi di violazione di norma imperativa, né può portare alla declaratoria di nullità per impossibilità dell'oggetto per indisponibilità della partecipazione ceduta; ma può condurre unicamente ad una pronuncia d'inefficacia del trasferimento in favore del socio pretermesso e della società.

La violazione della clausola di prelazione contenuta nello statuto della società, con riferimento alla circolazione delle quote, non importa la dichiarazione di nullità o di inefficacia assoluta dell'atto - come, invece, predicato da una non recente giurisprudenza secondo la quale la cessione eseguita in violazione del patto di prelazione sarebbe nulla (in questo senso, Trib. Milano, 27 febbraio 1989) o comunque inefficace anche tra le parti stesse - in quanto tali sanzioni risulterebbero eccessive rispetto agli interessi che le clausole violate mirano a realizzare; l'atto è, in realtà, solo relativamente inefficace, nel senso che l'inefficacia potrà essere fatta valere dalla società tramite l'organo amministrativo (o nei confronti di essa), soggetto portatore dell'interesse sotteso alla clausola stessa.

Dovendosi escludere che la violazione della clausola di prelazione importi la dichiarazione di nullità o di inefficacia assoluta dell'atto ovvero ancora un inadempimento di una parte del contratto, si deve anche escludere la legittimazione dei soci pretermessi a richiedere la risoluzione del contratto di cessione delle quote in violazione della prelazione, in quanto la domanda di risoluzione è riservata soltanto all'acquirente che, in ragione della inefficacia del trasferimento a lui opposta dalla società, non sia stato posto nelle condizioni di esercitare i diritti sociali connessi alla partecipazione sociale compravenduta.

Il socio pretermesso non può ottenere una pronunzia di risoluzione o di nullità dell'atto di compravendita della partecipazione sociale, né ottenere il riscatto di quest'ultima, ma soltanto una pronunzia di accertamento della inefficacia dell'atto medesimo nei confronti della società.

Il caso

Il socio di una s.r.l., cedeva al fratello la propria partecipazione nella società, pari al 12,5% del capitale sociale, in violazione della clausola di prelazione contenuta nell'art. 7 dello statuto, che obbligava, da una parte, il socio intenzionato a trasferire le proprie quote a darne comunicazione all'organo amministrativo, con indicazione delle condizioni della cessione e, dall'altro, l'organo amministrativo a comunicare la medesima offerta agli altri soci ai quali era riconosciuto l'esercizio della prelazione.

I soci pretermessi hanno agito in giudizio nei confronti del socio alienante, formulando svariate domande. Gli attori, in particolare, hanno chiesto al Tribunale di (i) accertare e dichiarare la risoluzione del contratto di compravendita delle quote sociali cedute dal socio per violazione della clausola di prelazione; (ii) dichiarare la nullità o l'inefficacia della cessione delle quote e della sua relativa trascrizione nel Registro delle Imprese; (iii) accertare e dichiarare il diritto dei soci ad acquistare in prelazione; (iv) condannare le parti negoziali alla restituzione delle quote compravendute; (v) accertare che la suddivisione della quota del socio tra gli attori avvenisse in proporzione al valore nominale della partecipazione da ciascuno di essi posseduta; (vi) condannare le parti negoziali al risarcimento dei danni subiti dagli attori, nella somma che il Tribunale avesse ritenuto di giustizia.

Il Tribunale, però, per le ragioni che verranno illustrate nel prosieguo, ha rigettato tutte le domande formulate dai soci pretermessi.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Il provvedimento in commento è particolarmente significativo per quanto riguarda le conseguenze della violazione della clausola di prelazione statutaria, dal momento che offre spunti interessanti per interrogarsi sia sulla natura giuridica (nullità, inefficacia assoluta o relativa) dell'atto compiuto in violazione, sia sui possibili rimedi offerti alla società e ai soci pretermessi.

Si tratta di tematiche sulle quali non vi è unanimità di vedute né in giurisprudenza né in dottrina, diversamente da quanto si registra, invece, con riguardo alla natura della clausola di prelazione statutaria (legale o convenzionale) e alla sua efficacia (reale o obbligatoria), argomenti in merito ai quali, invece, si sono formai ormai granitici schieramenti.

La pronuncia in commento si sofferma, prima di tutto, sull'efficacia della clausola di prelazione contenuta nello statuto della società. In modo condividibile, osservando che, con la prelazione, il beneficiario ha il potere di impedire l'ingresso in società dell'aspirante socio mediante l'acquisto diretto della partecipazione, giunge ad affermare che la clausola di prelazione statutaria assume la valenza di una regola di organizzazione della società. Infatti, incidendo sul rapporto tra l'elemento capitalistico e quello personale della società, accresce il peso di quest'ultimo rispetto al primo, nella misura in cui i soci la ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell'ente. Pertanto, vincolando chiunque voglia entrare a far parte del gruppo stesso, la clausola di prelazione statutaria ha un'efficacia reale, i cui effetti sono opponibili anche al terzo acquirente (in questo senso anche Cass. 23 luglio 2012, n. 12797).

Ciò posto, il Tribunale si interroga sulla natura giuridica dell'atto traslativo realizzato in violazione della clausola di prelazione. Citando un orientamento della giurisprudenza di legittimità, il giudice romano sostiene che la violazione di una clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l'inopponibilità nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione – stante la sua efficacia reale – della cessione della partecipazione societaria (che resta valida tra le parti negoziali), nonché l'obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull'inadempimento delle obbligazioni. Per contro, prosegue il Tribunale, la predetta violazione non comporta anche il diritto potestativo di riscattare le partecipazioni nei confronti dell'acquirente, atteso che il c.d. retratto non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettanti ai relativi titolari (in questo senso, cfr. Cass. 22 giugno 2016, n. 12956; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24559; Cass. 23 luglio 2012, n. 12797).

Secondo il Tribunale di Roma, quindi, l'efficacia reale della clausola di prelazione statuaria comporterebbe di per sé l'opponibilità erga omnes degli effetti dalla stessa derivanti, ma solo nel senso della inefficacia rispetto alla società dell'atto di trasferimento eseguito in violazione della clausola stessa, con la conseguenza che la società può rifiutare di riconoscere quale socio l'acquirente della partecipazione ceduta (il cui acquisto si sia verificato in violazione della clausola di prelazione), ma il socio pretermesso non acquisisce automaticamente il diritto di riscattare la partecipazione oggetto della cessione non preceduta da denunciatio (nello stesso senso Trib. Milano, 10 maggio 2013; Trib. Milano 17 dicembre 2012).

In sostanza, la violazione della clausola di prelazione non determina né la dichiarazione di nullità né quella di inefficacia assoluta dell'atto, dal momento che, a detta del Tribunale, tali sanzioni sarebbero eccessive rispetto agli interessi che la clausola violata mira a realizzare: l'atto è solo relativamente inefficace, nel senso che l'inefficacia potrà essere fatta valere solo dalla società (o nei confronti di essa) tramite l'organo amministrativo, quale soggetto portatore dell'interesse sotteso alla clausola (regolare l'organizzazione interna della società), e l'atto traslativo rimarrà efficace inter partes.

Ancora, il Tribunale, richiamando un noto insegnamento della giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. 8 aprile 2015, n. 7003), giunge ad affermare che la realità della clausola di prelazione statutaria non può mai comportare la nullità del trasferimento della quota operato in violazione del patto di prelazione, non versandosi in ipotesi di violazione di norma imperativa.

A fronte del ragionamento che precede, il Tribunale esclude la legittimazione dei soci pretermessi a richiedere la risoluzione del contratto di compravendita della partecipazione societaria in questione, ritenendo che tale rimedio competa solo all'acquirente, il quale, in ragione dell'eventuale inefficacia del trasferimento a lui opposta, non sarebbe più nelle condizioni di esercitare i diritti sociali connessi alla partecipazione sociale compravenduta.

Con riguardo ai soci pretermessi e, in particolare, con riguardo ai rimedi che potrebbero essere riconosciuti agli stessi in caso di violazione della clausola di prelazione, il Tribunale afferma che, proprio per la struttura e la natura della predetta clausola, il socio pretermesso non potrebbe ottenere né una pronuncia di risoluzione, né di nullità dell'atto di compravendita della partecipazione sociale, né ottenere il riscatto di quest'ultima, ma potrebbe solamente ottenere una pronuncia di accertamento della inefficacia dell'atto medesimo nei confronti della società, a sua volta tenuta a non considerare socio l'acquirente che si sia reso tale in violazione della clausola di prelazione. In questo caso cioè, non verrebbe in rilievo una pronuncia che ha ad oggetto la validità dell'atto di compravendita della partecipazione sociale, ma una pronuncia dichiarativa di inefficacia che richiede necessariamente la partecipazione al processo dell'ente cui essa effettivamente si rivolge (nel caso esaminato dal Tribunale, il contraddittorio non era stato tempestivamente integrato, con conseguente estinzione della domanda di inefficacia avanzata dai soci).

Infine, la sentenza che si annota conclude spendendo qualche considerazione in merito alla domanda di risarcimento del danno. A tal proposito l'autorità giudicante afferma che, se è certamente vero che, in astratto, dalla violazione della clausola di prelazione può derivare un danno per il socio pretermesso, non può condividersi l'assunto secondo il quale tale danno debba essere riconosciuto in re ipsa: se il socio pretermesso ritiene di aver subito un danno è tenuto a fornire le prove, dimostrando, per esempio, di non aver potuto percepire degli utili che la società ha, al contrario, distribuito all'acquirente della quota.

Osservazioni

La sentenza annotata impone alcune riflessioni sulle conseguenze dell'atto traslativo compiuto in violazione della clausola di prelazione statutaria e sui rimedi che l'ordinamento riconosce al socio pretermesso. Prima di entrare nel merito delle questioni predette, però, appare opportuno soffermarsi brevemente sulla natura della clausola di prelazione statutaria e sulla sua efficacia.

La natura della clausola di prelazione statutaria

In generale, quando si parla di prelazione, si intende il diritto di un soggetto ad essere preferito ad altri a parità di condizioni nella stipulazione di un eventuale futuro contratto, con la precisazione che tale posizione giuridica soggettiva può trovare la sua fonte sia in una regola di origine legale (come succede, per esempio, in materia successoria, ai sensi dell'art. 732 c.c.), sia in una previsione frutto dell'autonomia delle parti, parlandosi, in questo caso, di contratto o di patto di preferenza (cfr. Catricalà, Patto di preferenza, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 511 e ss; Perego, La disciplina della prelazione convenzionale e le prelazioni legali, in Riv. dir. comm., 1982, I, 157 ss.) In dottrina e in giurisprudenza vi è unanimità di vedute nel ritenere che la clausola di prelazione statutaria appartenga alla categoria dei rapporti di origine convenzionale e che, come tale, debba essere trattata, senza che rilevi in senso contrario il riconoscimento generico contenuto negli artt. 2355 bis e 2469 c.c. (in questo senso cfr. Franchi, In tema di violazione della clausola di prelazione statutaria, in Borsa Banca, titoli di credito, n. 5, 2016, 509 e ss.).

L'efficacia reale del patto di prelazione

Come ben specificato dalla pronuncia in commento, il Tribunale di Roma riconosce l'efficacia reale della clausola di prelazione statutaria. Interessante, quindi, è domandarsi quale sia il fondamento che porta la ormai giurisprudenza maggioritaria ad affermare l'efficacia reale – e non obbligatoria – del patto di prelazione.

In dottrina si sono formati diversi orientamenti in merito all'individuazione del fondamento dell'efficacia reale della clausola di prelazione statutaria.

Un primo risalente filone interpretativo, partendo dalla considerazione secondo la quale ad avere efficacia reale sono tutte le prelazioni previste dalla legge, giustificava l'efficacia reale della clausola di prelazione inserita negli statuti societari individuando l'origine della stessa nell'art. 2355 bis, comma 1, c.c. (in questo senso si veda Dalmartello, Limitazioni statutarie alla circolazione delle azioni e regime di circolazione di “diritti di opzione”, in Temi, 1949, 91 ss.). A questa interpretazione, però, si è contrapposta la considerazione che la prelazione statutaria sarebbe solamente “consentita” dalla legge, e non imposta al fine di tutelare interessi di diversa natura, come accade per le prelazioni legali (in questo senso Serafini, Violazione della prelazione statutaria e tutela del socio pretermesso, in Soc., 2015, 543 ss.).

Un secondo filone, invece, ha individuato il fondamento della realità della clausola di prelazione statutaria nell'inserimento della stessa nello statuto e nell'efficacia verso i terzi delle previsioni in esso contenute, quale conseguenza diretta della conoscenza legale delle stesse, attraverso la pubblicazione dello statuto nel Registro delle Imprese (in questo senso Angeloni, Il patto di prelazione fra soci nella vendita di azioni o di quote di società, in La società per azioni alla metà del secolo XX. Studi in memoria di A. Sraffa, I, Padova, 1962, 7; ripreso da Serafini, cit.).

Il terzo ed ultimo filone che, ad oggi, pare ancora essere il più accreditato, individua il fondamento dell'efficacia reale del vincolo di prelazione in commento nel valore organizzativo del contenuto della clausola stessa, avente ad oggetto la disciplina della circolazione delle partecipazioni (in questo senso, Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, in Tratt. soc. per azioni, diretto da Portale-Colombo; ii, t. 1, Torino, 1991, 190 ss.).

Le conseguenze dell'atto che viola la clausola di prelazione statutaria

Svolte queste necessarie premesse, non resta che soffermarsi sulle conseguenze della violazione della clausola di prelazione statutaria. Il Tribunale di Roma, nella sentenza annotata, ha affermato che il contratto di compravendita stipulato in violazione della clausola sarebbe relativamente inefficace, escludendo, quindi, tanto la nullità quanto l'inefficacia assoluta.

Sul punto, però, non c'è unanimità di vedute né in dottrina né in giurisprudenza.

Risalenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali si sono spinti sino ad affermare la nullità del trasferimento della partecipazione attuato in violazione della clausola in esame, sulla scorta del presupposto secondo il quale la clausola di prelazione inserita nello statuto, essendo espressamente consentita dalla vecchia formulazione dell'art. 2355, comma 3, c.c., sarebbe stata sovrapponibile ad una prelazione legale e, quindi, reale e opponibile erga omnes mediante il sistema pubblicitario. A queste posizioni, però, si replicava opponendo tre differenti argomentazioni. In primo luogo, infatti, sembrava insuperabile l'ostacolo posto dal fatto che la nullità può essere riconosciuta solo in caso di violazioni di norme imperative (art. 1418 c.c.), ovvero negli altri casi tipici previsti dalla legge. In secondo luogo, la sanzione di nullità avrebbe prodotto un eccesso di tutela nei confronti del socio beneficiario della prelazione e della società. In terzo luogo, il fatto che solo i soci pretermessi potrebbero dolersi della violazione del patto di prelazione, in quanto portatori del relativo interesse ad agire, confligge con la disciplina della nullità, che può essere fatta valere da qualsiasi interessato (in dottrina, hanno manifestato dissenso rispetto alla teoria della nullità, tra gli altri, Busi, Le clausole di prelazione statutaria nelle s.p.a., in Riv. not, 2005, 453 ss.; Barcellona, Clausola di prelazione e fattispecie esclusive; trasferimenti endo.gruppo consentiti e successiva perdita del controllo della società cessionaria, in Giur. Comm., 2014, II, 817).

È parsa quindi preferibile la teoria dell'inefficacia, per quanto permangano voci discordanti in merito al fatto che si tratti di una inefficacia assoluta o relativa.

Coloro che sostengono la teoria dell'inefficacia relativa, come afferma lo stesso Tribunale capitolino, ritengono che la prelazione statutaria abbia una “doppia anima”, ovverosia che abbia sia natura sociale/organizzativa nei confronti della società, sia natura parasociale tra i soci.

Considerando, quindi, la finalità della clausola di prelazione, si potrebbe prospettare una ipotesi di inefficacia relativa della cessione nei soli confronti della società che, in tal modo, continuerebbe a ritenere socio l'alienante, pur permanendo la validità inter partes della cessione (in questo senso si veda Zanarone, Della società a responsabilità limitata, I, in Codice Civile, Commentario, Milano, 2010, 577)

Accettando tale interpretazione, si legittima la creazione di una situazione anomala: il socio alienante, per la società, continuerebbe ad essere legittimato all'esercizio dei poteri societari in forza della sua permanente qualità di socio, ma, alla luce della validità del contratto inter partes, lo stesso si troverebbe ad essere sostanzialmente un mero esecutore delle decisioni assunte all'esterno dal terzo acquirente, impossibilitato a diventare socio. Si verificherebbe, in concreto, una scissione tra colui che esercita il potere e il soggetto che è destinatario dei risultati della decisione stessa (in questo senso Colombo, La tutela cautelare in caso di violazione delle clausole statutarie di prelazione, in Soc., 2015, 1009).

Per questa ragione, l'opinione più accreditata in dottrina e in giurisprudenza, non potendosi parlare di nullità, propende per l'inefficacia assoluta dell'atto traslativo, muovendo dal presupposto per cui la clausola di prelazione inserita nello statuto non darebbe luogo ad un vincolo di indisponibilità della partecipazione, ma si limiterebbe ad imporre all'alienante l'onere di rispettare una determinata procedura, la cui violazione precluderebbe l'efficace dispiegarsi del meccanismo di vendita (in questo senso si veda Benetti, Cessione di quote: efficacia, opponibilità ed esercizio dei diritti sociali in Soc, 2008, 229, ripreso da Foresta, La prelazione societaria, in Contratti, 2019, 709 ss.).

Secondo tale orientamento, cioè, il trasferimento della partecipazione posto in essere in violazione della clausola di prelazione statutaria sarebbe non avrebbe alcuna efficacia non solo nei confronti della società, ma anche delle parti del contratto di compravendita.

In definitiva, l'inoperatività a 360° dell'effetto traslativo potrebbe essere di per sé sufficiente ad assicurare ai soci pretermessi una tutela adeguata dal momento che gli stessi non subirebbero alcun pregiudizio dal trasferimento rimasto “in sospeso”. (in questo senso Foresta, La prelazione societaria, cit. 717).

Quali tutele nel caso di violazione del pactum praelationis?

Se si accoglie la tesi secondo la quale la prelazione statutaria avrebbe sia natura sociale/organizzativa nei confronti della società, sia natura parasociale tra i soci, allora, nel caso di violazione del patto di prelazione, conseguiranno differenti effetti a seconda dell'interesse che deve essere tutelato. Così, nel caso in cui ad agire sia la società, la sanzione applicabile sarà, a seconda dell'orientamento al quale si aderisce, o quella dell'inefficacia relativa del trasferimento, inopponibile alla società ma valido inter partes, o quella dell'inefficacia assoluta, tale da inibire qualsivoglia effetto dell'atto traslativo, che diventerebbe inefficace non solo nei confronti della società, ma anche tra le parti contraenti.

Discorso diverso, invece, deve essere compiuto nel caso in cui ad agire siano i soci. Dal momento che, nei loro confronti, la clausola ha certamente un valore obbligatorio, i soci pretermessi sono legittimati ad un rimedio di natura risarcitoria. In questo caso, però, come evidenziato dalla sentenza che si annota, al socio che agisce non basterebbe dimostrare in giudizio l'esistenza del pactum praelationis, ma dovrebbe altresì allegare e provare che, dalla violazione di tale patto, sia derivata una lesione del suo interesse a rendersi acquirente delle partecipazioni trasferite al terzo (in questo senso Trib. Milano, 15 marzo 2013).

La tutela risarcitoria, però, non pare del tutto satisfattiva dell'interesse leso del socio pretermesso: le critiche che sono state sollevate nei confronti della tesi che ritiene che al socio spetti solamente una tutela di natura risarcitoria muovono dalla costatazione che, così procedendo, la funzione tipica della clausola di prelazione statutaria perderebbe qualsivoglia connotazione tipica rispetto ad una generica clausola di gradimento, mirando esclusivamente ad impedire l'ingresso in società di soggetti estranei alla compagine (in questo senso, Cass. 12 gennaio 1989, n. 93, in Riv. dir. comm., 1990, II, 1 ss., con nota di Revigliono, Le clausole societarie di prelazione sono applicabili ai trasferimenti a titolo gratuito?).

Secondo i fautori di questa tesi, quindi, un rimedio aggiuntivo per i soci pretermessi dovrebbe essere individuato nell'art. 732 c.c., per mezzo del quale si potrebbe arrivare a concludere che dalla violazione della clausola di prelazione statutaria scaturirebbe in capo al socio pretermesso un diritto di riscatto (o di retratto) tale da permettergli di sostituirsi al terzo acquirente, al quale, di conseguenza, spetterebbe solamente una tutela risarcitoria nei confronti del promittente alienante (in questo senso Foresta, La prelazione societaria, cit. 718).

Tale possibile riconoscimento, peraltro, sarebbe giustificato dal fatto che, anche l‘art. 230 bis, comma 5, c.c., richiamando espressamente l'art. 732 c.c., attribuisce ai familiari che collaborano all'interno dell'impresa familiare un diritto di prelazione esercitabile in caso di vendita dell'azienda o di divisione ereditaria (in questo senso Colucci, Efficacia reale della clausola di prelazione conseguenze della sua violazione, in Giur. Comm., 1994, II, 709 ss.).

Avuto riguardo, quindi, alla ratio sottesa alle due disposizione poc'anzi richiamate, fondata sull'esigenza di rafforzare gli strumenti di tutela volti a garantire la conservazione dell'integrità del patrimonio ereditario, favorendo la concentrazione dei beni oggetto della comunione ereditaria nelle mani di soggetti ben definiti, allo stesso modo la clausola di prelazione statutaria ex art. 2355 bis c.c. o ex art. 2469 c.c. dovrebbe favorire la concentrazione delle partecipazioni societarie nelle mani dei soci prelazionari, garantendo agli stessi degli strumenti di tutela che permettano loro di sostituirsi a colui che è stato illegittimamente “preferito”.

La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, negano possa configurarsi automaticamente un diritto di riscatto in capo al socio pretermesso, in considerazione del carattere di eccezionalità del diritto di retratto, insuscettibile di applicazione analogica (in questo senso Carpino, Riscatto (dir. priv.), in Enc. dir, XL, Milano, 1989, 1109; in giurisprudenza (Cass., 22 giugno 2016, n. 12956; Cass., 2 dicembre 2015, n. 24559; Cass., 23 luglio 2012, n. 12797).

V'è però da osservare che la giurisprudenza più recente, sia di merito che di legittimità, accentuando l'importanza dell'autonomia negoziale dei soci, sembrerebbe ritenere valida e ammissibile l'inserimento nello statuto di una clausola che conferisca esplicitamente il potere di retratto ai soci pretermessi (in questo senso Cass. 3 giugno 2014, n. 12370, in Giust. civ., 2015, II, 294; Trib. Milano 26 febbraio 2015, in Soc., 2015, 1006; Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano, Massima n. 99).

Chiaramente, la previsione statutaria di un diritto di riscatto richiederebbe l'accortezza di calcolare fin da subito il prezzo di riscatto, sulla base di criteri corrispondenti a quelli applicati in caso di diritto di recesso (in questo senso, si veda la Massima n. 99, poc'anzi richiamata), così da evitare l'esposizione dei soci e della società a comportamenti elusivi (in dottrina, Colombo, La tutela cautelare in caso di violazione delle clausole statutarie di prelazione, in Soc., 2015, 1009 ss.).