I danni causati da amianto tornano a dominare la scena giuridica italiana
04 Aprile 2022
Può sembrare incredibile ma – a distanza di trent'anni dalla legge che ne ha bandito l'uso nel nostro paese - l'amianto torna ancora a far parlare di sé nelle cronache e nei tribunali. Il 13 gennaio scorso, il giudice del lavoro del Tribunale di Torre Annunziata ha condannato le società Fincantieri e Sait – in quanto responsabili in solido - al risarcimento di 1 milione di euro, in seguito al decesso per mesotelioma, avvenuto nel marzo del 2016, di un operaio di Castellammare di Stabia. Il 21 gennaio, a Genova, la Fincantieri è stata condannata a risarcire con 695 mila euro la vedova e il figlio di un dipendente della filiale di Riva Trigoso, morto nel 2018 per mesotelioma peritoneale. Il 28 gennaio, infine, il Tribunale penale di Avellino ha emesso una sentenza che condanna a 10 anni di reclusione il responsabile della sicurezza della società Isochimica e il suo vice, oltre a due funzionari delle Ferrovie dello Stato, disponendo una provvisionale di 50.000 euro per ciascuna delle famiglie dei 33 operai della società irpina, deceduti per patologie correlate all'amianto a partire dagli anni ‘70. Le statistiche del mesotelioma in Italia secondo il Settimo Rapporto ReNaM
In realtà, quelli citati sono solo i casi più eclatanti tra i molti che hanno continuato ad interessare il nostro paese. Numerosi altri hanno finito per avere poca risonanza, vuoi per i problemi legati alla pandemia, vuoi perché i numeri che caratterizzano il dramma delle vittime dell'amianto risultano certamente inferiori a quelli che hanno colpito i lavoratori di tanti settori nel corso degli ultimi anni, segnati da una lunga e dolorosa scia di incidenti sul lavoro, come stigmatizzato a più riprese dall'INPS e dall'INAIL, che hanno pubblicato numerosi studi al riguardo. Ma, in relazione alle caratteristiche specifiche del problema legato all'amianto, i numeri sono tutt'altro che esigui. L'ultimo rapporto del Registro Nazionale dei Mesoteliomi (ReNaM), aggiornato a dicembre 2020, ha infatti rilevato ben 31.572 casi di mesotelioma, diagnosticati in Italia dal 1993 al 2018. Si tratta di una media di 1.260 casi all'anno, registrati nei 25 anni che hanno seguito il divieto d'uso di questo materiale e si riferiscono soltanto al mesotelioma, la più rara e letale tra le malattie asbesto-correlate. Una malattia che sappiamo essere quasi esclusivamente collegata all'esposizione all'amianto, dal punto di vista eziologico. Le malattie professionali riconosciute e tabellate dall'INAIL in relazione all'amianto sono diverse. A parte l'asbestosi e le cosiddette placche pleuriche, che non hanno dirette conseguenze letali, le vittime sono principalmente dovute alle neoplasie determinate dall'esposizione a questo materiale. Oltre al carcinoma polmonare, è proprio il mesotelioma, che può colpire diversi organi del corpo umano (come pleura, pericardio, peritoneo ed albuginea) ad aver determinato il maggior numero di decessi. Non conosciamo cure efficaci per questa malattia gravissima, che è in grado di restare latente per decine d'anni e, quando appaiono i primi sintomi, non lascia speranze alle sue vittime. La questione è che, oltre ad un periodo di latenza che può variare grandemente (da 30 a 40 anni e oltre), l'avvio del meccanismo patogenetico che interessa il mesotelioma sembra essere pressoché immediato, rispetto al momento dell'esposizione. Inoltre, la potenzialità patogena si rivela anche in seguito al contatto con quantità di amianto molto basse ed è sufficiente una prima dose ad innescare questa patologia, con scarsa importanza per l'eventuale cumulo di fibre inalate. Anche la suscettibilità individuale ha un certo rilievo, il che rende questa particolare malattia praticamente impossibile da tracciare e controllare. Insomma, è difficilissimo determinare il momento e la causa esatta dell'innesco, dal momento che questa patologia rimane dormiente nell'organismo per moltissimi anni e risulta correlata quasi esclusivamente all'esposizione ad un materiale che nel nostro paese è stato bandito con il decreto legislativo n. 257 del 1992. Storicamente, l'Italia è stata un grande produttore e consumatore di amianto, con quasi 3,8 milioni di tonnellate estratte tra la fine della Seconda guerra mondiale e la sua messa al bando. La più grande cava in Europa si trovava proprio a Balangero, in Piemonte, ed il nostro paese conta ben 607.391 siti produttivi con esposizione storica a questo materiale. Prima di sapere quale tremendo pericolo si annidasse nell'amianto, lo abbiamo utilizzato praticamente ovunque, in quanto facilmente disponibile, poco costoso e dotato di caratteristiche straordinarie di resistenza alle alte temperature, alla trazione ed all'invecchiamento in genere. Il termine amianto deriva dal greco e indica proprio la sua capacità di resistere praticamente a tutto: vuol dire testualmente “ciò che non può essere rovinato o intaccato”. In pratica, grazie alle sue proprietà, lo abbiamo usato massicciamente nell'edilizia, nella coibentazione dei mezzi di trasporto, nella lavorazione di ceramica e laterizi, nell'industria vetraria, chimica, cartaria, siderurgica e plastica, nelle distillerie e negli zuccherifici, nei cantieri navali e perfino in ambito domestico. Ma le fibre di asbesto non possono essere distrutte: si disperdono nell'ambiente perché i materiali utilizzati per tenerle insieme (colle, cemento etc.) non sono in grado di resistere al tempo come loro e finiscono con lo sfaldarsi, liberandole. A questo punto esse rimangono intatte e, a causa della loro bassissima velocità di sedimentazione, restano per anni in grado di nuocere agli organismi che dovessero imbattersi in loro. Le particolari caratteristiche di questo materiale ed il meccanismo patogenetico che interessa il mesotelioma rendono assai difficile determinare l'eziologia del danno che deriva alle sue vittime. Ciò ha fatto sì che, nella ricostruzione del nesso causale, in particolare sul piano penale, ove lo scrutinio deve essere supportato da prove oltre ogni ragionevole dubbio, la magistratura abbia dovuto proporre soluzioni basate su una logica deduttiva che in alcuni casi è parsa in qualche modo rovesciata, o comunque azzardata. La questione è emersa drammaticamente in occasione dei processi intentati contro l'Eternit, nel corso dei quali non è stato possibile procedere contro i presunti responsabili nel modo che il “sentire popolare” si sarebbe aspettato, di fronte alla tragedia che aveva visto coinvolto un così grande numero di vittime. Le soluzioni prospettate nel tempo sono state diverse. Ne riportiamo qui di seguito alcune, tra quelle giudicate più significative:
In poche parole, la scienza ci insegna che il mesotelioma è causato dall'esposizione all'amianto e che il nostro territorio è ancora largamente interessato dalla sua presenza. Tutto questo ci permette di dedurre, almeno sul piano della probabilità prevalente, che un lavoratore che abbia avuto a che fare con l'amianto o che si presume abbia avuto a che fare con l'amianto e sia rimasto vittima di mesotelioma, abbia contratto la malattia in occasione del lavoro che svolgeva. Stante la diffusa conoscenza del fenomeno delle malattie causate dall'asbesto già a partire dagli anni '70 (l'affermazione della nocività dell'amianto si fa comunemente risalire ai risultati di un congresso medico tenutosi a Saint Vincent nell'ottobre del 1971) e certamente a partire dalla sua messa al bando nel 1992, è dunque presumibile la responsabilità del datore di lavoro, per omessa cautela, nell'eziologia del danno. Ma qui interviene un altro tipico problema delle vicende legate all'amianto: la ricerca di soggetti ancora in grado di rispondere - direttamente o per mezzo di coperture assicurative ancora valide - dopo tanto tempo e quando la maggior parte delle aziende coinvolte nella lavorazione di questo minerale ha di fatto cessato di esistere. Una delle soluzioni prospettate più di recente dalla magistratura risale alla sentenza n. 12151, depositata il 15 aprile 2020 dalla Suprema Corte, quarta sezione penale. In tale occasione, la Cassazione ha rigettato i ricorsi presentati dai difensori dei rappresentanti di una società che gestiva un'impresa di manutenzione di veicoli ferroviari, condannati in primo e in secondo grado per omicidio colposo, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica, in relazione al decesso di un'operaia per mesotelioma pleurico. La donna aveva svolto mansioni nello smaltimento delle coibentazioni di amianto presenti nelle carrozze ferroviarie. L'esposizione alle fibre nocive sarebbe cominciata nel 1981 e sarebbe proseguita almeno fino al 1984. La malattia è stata diagnosticata nel 2009 ed ha subito un rapido decorso, fino al decesso, sopravvenuto nel 2010. Uno dei punti centrali del ricorso, come accade in materia di malattie professionali amianto-correlate per le ragioni cui abbiamo accennato, riguardava il difetto di prova del nesso causale tra l'esposizione al fattore di rischio e lo sviluppo della patologia letale da parte della vittima. Secondo i ricorrenti, i giudici di merito avrebbero basato le proprie conclusioni sull'eziologia della malattia in base alla semplice equazione tra la presenza di asbesto nell'azienda e l'insorgenza della stessa, basandosi su “evidenze di ordine probabilistico per giungere a conclusioni sul piano della causalità individuale”. Sebbene, infatti, la riconducibilità del mesotelioma all'esposizione all'amianto sia un dato scientifico non controverso, la sua lunghissima latenza e la patogenesi anche a basse dosi di esposizione, avrebbero potuto determinare la sussistenza di altre occasioni - professionali o meno - nelle quali la vittima avrebbe potuto contrarre la neoplasia. Insomma, sebbene nessuno nutra dubbi in merito al fatto che il mesotelioma sia causato dal contatto con l'amianto, il giudice chiamato a verificare il nesso eziologico tra la morte della lavoratrice e la sua esposizione a questo minerale - quando la stessa si trovava alle dipendenze di quella determinata società – avrebbe incontrato l'obiezione per cui non era possibile escludere che la patologia fosse stata causata da un'esposizione intervenuta prima o dopo quella oggetto di scrutinio. Di fronte a tale difficoltà di ordine probatorio, i giudici hanno fatto ricorso alla teoria dell'effetto acceleratore, secondo la quale non conta individuare l'esposizione che avrebbe innescato la cancerogenesi, dal momento che tutte le esposizioni contribuiscono comunque ad accelerare il decorso della malattia e possono essere considerate concause del decesso. In relazione alle critiche mosse dai difensori dei ricorrenti, però, la Cassazione ha affermato che la questione verteva proprio sul passaggio dalla causalità generale a quella individuale, cioè dall'affermazione per cui l'amianto - certamente presente nei luoghi di lavoro in questione – avrebbe rappresentato un semplice fattore di rischio per contrarre il mesotelioma, alla conclusione per cui la vittima si sarebbe ammalata a causa dell'amianto inalato nel corso del lavoro svolto alle dipendenze dei ricorrenti. La Corte Suprema ha dunque respinto le motivazioni degli imputati e precisato come le condanne impartite dai giudici di merito fossero state fondate sul meccanismo logico dell'esclusione dei decorsi causali alternativi, evidenziando come la ricostruzione dei fatti consentisse di scartare l'ipotesi che la vittima avesse subìto altre significative esposizioni all'amianto nel corso della sua vita. Il nesso causale fra l'accertata presenza di asbesto nel reparto di lavoro e la malattia dalla stessa contratta si sarebbe dunque basato “sulla base dell'assenza di qualsivoglia elemento causale alternativo di innesco della patologia”. C'è da dire che il caso in questione ha fornito ai giudici un percorso più agevole, rispetto a quelli che purtroppo è possibile incontrare nei casi di esposizione all'asbesto, dal momento che la vittima sembrava aver subito il contatto con l'amianto per lungo tempo ed esclusivamente in occasione del suo lavoro presso la società degli imputati. Non c'era quindi da chiedersi se, in mancanza di esposizione all'amianto alle dipendenze di quella specifica società, l'evento lesivo avrebbe potuto comunque verificarsi. Insomma, non era prevista un'ipotesi secondo la quale l'esposizione analizzata avrebbe eventualmente contribuito ad anticipare il decesso della vittima, in concorso con le altre esposizioni che non era stato possibile escludere. In effetti, la scienza fa fatica a definire principi che ci permettano di abbracciare senza remore la teoria dell'effetto acceleratoree aindividuare con precisione la prova della causalità, quando le vittime siano state soggette al lunghissimo arco temporale in cui si dipana la latenza delle neoplasie asbesto-correlate. Tuttavia, questa sentenza ha cercato di offrire una possibile soluzione per ricostruire l'eziologia del danno, anche alla luce delle esigenze di scrupolosa attendibilità che guidano il processo penale. L'ambito civilistico consente una maggiore libertà di manovra, ma bisogna pur sempre considerare che, nel caso delle sentenze che interessano i danni da amianto, è più difficile tenere disgiunte le procedure e comportarsi come se le decisioni della magistratura civile restassero perfettamente avulse dalle indicazioni fornite a livello penale. Un esempio di questo tipo è rappresentato dal caso dell'Isochimica, la società di Borgo Ferrovia, in provincia di Avellino, nella quale per quasi dieci anni, a partire dalle fine degli anni Settanta, sono state bonificate dall'amianto le carrozze ferroviarie, su commessa delle Ferrovie dello Stato. Sono 33 gli operai deceduti finora per le patologie legate alla loro lunga esposizione all'asbesto. Come accennato in premessa, il verdetto di primo grado emesso dal Tribunale di Avellino ha previsto quattro condanne a dieci anni di reclusione per il responsabile della sicurezza della società, il suo vice e due funzionari delle Ferrovie dello Stato. La pena segue la richiesta della pubblica accusa per i reati di disastro doloso, omicidio colposo, lesioni personali e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Ventidue le assoluzioni per non aver commesso il fatto per gli altri imputati del processo, che rispondevano di diverse accuse, tra cui quella di concorso in disastro colposo per omissione di atti di ufficio. Tra questi, tre dirigenti del comune interessato e tutti i membri della giunta, i titolari delle imprese che si sono succedute nei lavori di bonifica del sito ed il curatore fallimentare di Isochimica. Fondata nel 1982, appena 10 anni prima che la lavorazione dell'amianto fosse bandita e quando gli effetti letali di questo materiale erano già tristemente noti, questa società rappresentava un'occasione per il rilancio economico della zona, devastata dal terribile terremoto che aveva colpito l'Irpinia. Nel 1983 le venne assegnato il contratto per lo smaltimento dell'amianto presente nei vagoni e nelle locomotive appartenenti alle Ferrovie dello Stato: 330 operai per smantellare oltre 3.000 vagoni e nessuna misura di sicurezza, come tute, maschere o altro. I lavori si protrassero per circa dieci anni: al loro termine c'erano circa 20.000 tonnellate di amianto da smaltire, ma nessun programma o sistema per farlo. Il minerale venne seppellito in fosse scavate sotto ai fabbricati dell'azienda, ammassato nei cortili e nei magazzini e perfino gettato nelle zone limitrofe, nei fiumi e tra i boschi. I primi problemi di asbestosi e placche pleuriche cominciarono a manifestarsi presto per i lavoratori coinvolti e, a partire dal 2009, cominciarono ad arrivare le denunce per neoplasie asbesto-correlate. Conoscendo il lunghissimo periodo di latenza e la mancanza di cure adatte a curare questa malattia, i primi decessi per mesotelioma erano già attesi a partire dal 2015 e non tardarono a verificarsi: la stampa cominciò a chiamare le vittime Dead Men Walking … Morti che camminano... Al momento della loro assunzione si trattava di operai giovanissimi del tutto inconsapevoli dei gravi pericoli connessi all'amianto inalato nel processo di smantellamento delle carrozze. La sentenza del 28 gennaio scorso è giunta trentasei anni dopo la prima denuncia presentata dal WWF, che nel 1986 aveva segnalato alla Procura lo smaltimento illecito di rifiuti tossici da parte della società, appartenente ad un imprenditore salernitano, deceduto nel 2017. Altre denunce erano partite nel 2009, per la mancata bonifica del sito di Borgo Ferrovia e le malattie contratte dagli ex operai: il percorso si è concluso con la richiesta di rinvio a giudizio per 26 persone. Il processo di primo grado, nel quale si sono costituite 270 parti civili, è durato cinque anni e sette mesi. Nel corso delle 127 udienze, è stata ricostruita la storia delle responsabilità che hanno portato alla morte di 33 operai per patologie collegate alla prolungata esposizione all'amianto. Altri 200 sono purtroppo ammalati conclamati di varie patologie asbesto-correlate. Il tribunale ha anche disposto il pagamento di una provvisionale di 50.000 euro per ognuna delle famiglie dei 33 operai deceduti, il che potrebbe anticipare una serie di risarcimenti per cifre cospicue sul piano civilistico, ammesso che si riesca ad individuare un responsabile o una copertura assicurativa cui poter fare riferimento. Come tutte le aziende che trattavano amianto, l'Isochimica è fallita da tempo e il suo proprietario è deceduto: è possibile che Ferrovie dello Stato venga coinvolta, anche per via delle condanne comminate a due suoi funzionari nel corso del procedimento in parola, ma è ancora troppo presto per azzardare delle ipotesi ragionevoli. Quello che è certo è che questo processo costituirà un precedente importante, alla luce dei numerosi pronunciamenti che hanno recentemente interessato i danni correlati all'amianto, risvegliando una storia mai sopita di battaglie civili, procedimenti giudiziari e risarcimenti a favore delle migliaia di vittime e dei loro aventi diritto.
Conclusioni
La tragedia legata alla massiccia presenza ed all'uso dell'amianto nel nostro paese è ben lontana dall'essere giunta ad un epilogo. Pur nel pieno dell'emergenza sanitaria nella quale l'Italia e il mondo si trovano in seguito alla diffusione del virus SARS-CoV-2, appare evidente come la sorveglianza epidemiologica continui a rappresentare uno strumento essenziale nell'ambito delle politiche di prevenzione e contenimento dei rischi asbesto-correlati. Sul piano giuridico, la questione dell'accertamento del nesso causale, in vicende così lungo latenti, rimane un ostacolo col quale la magistratura è costretta a fare i conti, soprattutto nell'ambito dei processi penali. La storia dei procedimenti per questo tipo di danni si arricchisce continuamente di nuovi spunti e riflessioni e rivela sempre di più la grande complessità dell'argomento trattato. Le soluzioni offerte incontrano varie critiche, ma la scienza non sembra essere ancora in grado di presentare evidenze per giungere a conclusioni ineccepibili. In ambito assicurativo, il problema di individuare soggetti in grado di rispondere delle loro responsabilità è legato ancora una volta al lunghissimo arco temporale che interessa le malattie da amianto e i costi finora sostenuti dall'industria, in tutto il mondo, ammontano a cifre tali da aver determinato la bancarotta di un gran numero di compagnie. La copertura di questi rischi è dunque divenuta finanziariamente insostenibile: viene pertanto a mancare, o diviene comunque assai difficile da ottenere, il sostegno economico per il sempre più grande numero di vittime da risarcire. Per approfondire
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